Il patrimonio immobiliare degli enti locali costituisce un insieme di beni identificati, omogenei, e alienabili senza effetti negativi sul saldo primario. L’operazione di dismissione dovrebbe affiancare le riforme strutturali, ma stime prudenziali indicano che sarebbe sufficiente a riportare il rapporto debito/Pil vicino al 100 per cento. Lo Stato dovrebbe garantire agli enti territoriali alcuni incentivi, come la revisione del Patto di stabilità interno e l’introduzione di meccanismi di compartecipazione competitiva alla crescita.

Nel programma elettorale della Casa delle libertà è prevista una megaoperazione di dismissioni patrimoniali. L’idea è creare un maxicontenitore societario da 400-500 miliardi posto fuori dal perimetro della pubblica amministrazione nel quale far confluire immobili, crediti, concessioni e partecipazioni azionarie e fare così scendere il rapporto debito/Pil dall’attuale 108 a circa il 75 per cento .

 

I problemi delle dismissioni

 

Le criticità di un progetto del genere sono molteplici. L’operazione potrebbe essere utilizzata come facile scorciatoia, in sostituzione della necessaria ricostituzione di un adeguato avanzo primario, oggi sostanzialmente azzerato.

Inoltre, al di là dei pur importantissimi problemi di governance del nuovo soggetto, è probabile che dimensioni dell’operazione, eterogeneità degli asset, difficoltà di valutazione si tradurrebbero nella necessità di offrire agli investitori un rendimento significativamente più alto di quello dei titoli di Stato. Con effetti che potrebbero favorire un aumento del costo del debito; senza dimenticare le minori entrate (dividendi) e i maggiori spese (canoni di sale and lease back degli immobili strumentali pubblici). Alla fine, un abbattimento del debito così realizzato avrebbe come paradossale effetto collaterale un disavanzo crescente, incompatibile con la stabilizzazione strutturale del rapporto debito/Pil.

Va detto che il trade-off fra riduzione del debito e peggioramento dei flussi non sarebbe lo stesso se lo scenario di partenza fosse simile a quello pre-euro, quando l’elevato costo di raccolta del Tesoro era in gran parte costituito da un rilevante premio per il rischio associato alle dimensioni stesse del debito. Con uno spread Btp/Bund che, grazie all’abbondante liquidità presente sui mercati, continua a essere storicamente basso, la situazione attuale è fortunatamente molto diversa.

 

Tassi di interesse. E di crescita

 

Ma l’idea di dismissioni patrimoniali che accompagnino la ricostruzione dell’avanzo primario non va abbandonata del tutto, soprattutto alla luce dell’andamento prospettico di tassi d’interesse e di crescita.

Ipotizziamo che nel 2006 la Bce aumenti i tassi di 50-75 punti base, come molti osservatori si attendono. Se il rialzo si estendesse a tutta la curva del costo di raccolta del Tesoro, attraverso un allargamento degli spread di credito dovuto al venir meno dell’attuale liquidità, vi sarebbe un ampliamento della spesa per interessi di circa 3 miliardi nel 2007, 5 nel 2008,7 nel 2009 e 8 nel 2010: circa l’1,5 per cento in rapporto all’attuale Pil. 

Inoltre, negli ultimi anni il tasso di crescita italiano è divenuto significativamente inferiore a quello europeo e sarà così anche nel 2006. Seppure le necessarie riforme strutturali dell’economia fossero lanciate già all’indomani del 9 aprile, occorrerebbe tempo per vederne gli effetti. Ci aspetta probabilmente un periodo nel quale la forbice costo del debito/tasso di crescita tenderà ad allargarsi (già a fine 2006 potrebbe superare il 2 per cento). Un peraltro difficile intervento restrittivo di finanza pubblica che puntasse a ricostituire immediatamente un avanzo primario di analoghe dimensioni deprimerebbe ulteriormente l’economia e allargherebbe ancora la forbice.

In un contesto di questo tipo, andrebbe allora considerata la possibilità di significative dismissioni mirate di beni omogenei e facilmente valutabili, non suscettibili di generare ricadute negative sui flussi.

 

Il patrimonio immobiliare degli enti locali

 

C’è una categoria di dismissioni che risponde a queste caratteristiche, ed è quella immobiliare nella sua componente residenziale. I relativi asset sono ora iscritti nel patrimonio della Pa a valori catastali per circa 100 miliardi, mentre il prezz  di mercato è almeno il triplo.

La proprietà fa capo pressoché integralmente a enti territoriali, e il loro tasso di rendimento è in molti casi negativo. Si tratta quindi di beni identificati, omogenei, e alienabili senza effetti negativi sul saldo primario. Per di più, venderli sarebbe in linea con la filosofia sia dell’attuale Governo sia dell’Unione, contro lo Stato “proprietario”.

Il patrimonio potrebbe essere conferito a un fondo e dismesso nell’arco di tre-cinque anni. Nel caso di immobili di edilizia pubblica, potrebbero peraltro essere previsti opportuni meccanismi di partecipazione degli enti proprietari al robusto capital gain derivante da eventuali rivendite. Oggi, la legge prevede infatti che gli immobili siano acquistabili solo dagli attuali inquilini al prezzo catastale, che è una frazione di quello di mercato, con la possibilità di alienarli allo scadere di un periodo prefissato.

Una parte minore del netto ricavo dell’operazione dovrebbe essere destinata a riportare l’offerta abitativa pubblica su livelli europei, sopratutto attraverso fondi immobiliari per l’affitto sostenibile di tipo pubblico/privato, già peraltro nel programma di alcune Regioni e città metropolitane.

Ipotizzando prudenzialmente un’operazione che – arricchita con partecipazione alle plusvalenze e qualche ulteriore asset, ad esempio terreni – frutti 120 miliardi, quello che rimarrebbe sarebbe comunque sufficiente a riportare il rapporto debito/Pil in prossimità del 100 per cento, dando alle riforme strutturali il tempo necessario per dispiegare i loro effetti benefici su tasso di crescita e avanzo primario. Tecnicamente, un canale utilizzabile per la riduzione del deficit, e quindi del debito, potrebbe essere un accordo Stato/enti che preveda una simultanea riduzione una tantum dei trasferimenti statali, attualmente circa 90 miliardi annui.

 

Occorre naturalmente chiedersi quale possa essere il mix di incentivi necessario per spingere gli enti a mettere a disposizione dell’operazione il loro patrimonio.

Dal punto di vista quantitativo, sarebbe necessario garantire un impatto positivo sulla situazione finanziaria degli enti stessi. Il rapporto fra riduzione dei trasferimenti e proventi dell’operazione dovrebbe essere perciò in valore assoluto inferiore a uno. E si potrebbe aggiungere la possibilità di rimborsare senza penali mutui onerosi contratti con la Cassa depositi e prestiti.

Tuttavia, è forse più interessante il pacchetto qualitativo da adottare in una nuova ottica di partnership centro/periferia. Da un lato, andrebbe ripensato e reso più equo ed efficiente il Patto di stabilità interno, da esprimersi semplicemente in termini di tetto alla crescita del debito su base pluriennale: in tal modo si renderebbe possibile quella pianificazione dei bilanci che gli enti non hanno più potuto effettuare negli ultimi anni. Dall’altro, andrebbe modificata la normativa di base: potrebbero essere eliminati criteri di contabilità obsoleti (come quelli sul debito, ancora oggi basati sull’impegnato piuttosto che sull’erogato, che è l’unico peraltro valido ai fini Eurostat), ma soprattutto introdotti meccanismi ulteriori di autostabilizzazione ciclica dei bilanci. Un esempio è la Compartecipazione competitiva alla crescita, già in vigore nel Regno Unito, che consente agli enti di trattenere una parte del gettito tributario derivante da una crescita locale che ecceda valori di soglia predefiniti. Si tratta di innovazioni a costo zero e intrinsecamente efficienti: la Ccc genererebbe effetti strutturali positivi su crescita e su entrate di Stato ed enti.

Se finalmente si riuscisse a creare un new deal di questo tipo, avremmo dismissioni che abbattono il debito, riducono il deficit, sostengono la crescita. Varrebbero il triplo.

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