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La Francia e le riforme del mercato del lavoro

Come si fa ad aumentare l’occupazione? I francesi che manifestano contro il Cpe sembrano ignorare i meccanismi economici quando chiedono di agire sui profitti delle imprese. Questo si trasformerebbe in perdita di investimenti e in meno assunzioni. Né è utile ridurre l’orario di lavoro. O aumentare gli impieghi pubblici. Per assicurare formazione e protezione sociale ai lavoratori, aumentando gli incentivi delle imprese a creare posti di lavoro, bisogna riprogettare l’intera struttura della tutela dell’occupazione superando i difetti dei nuovi contratti proposti da De Villepin.

Una pericolosa ignoranza, di Olivier Blanchard*

Si può certamente non essere d’accordo con il Cpe, il contratto di primo impiego, proposto dal governo francese. Su Telos, Bernard Brunhes e Eric Chaney ci hanno fornito alcuni argomenti convincenti a questo proposito. Ma ciò non significa che sull’occupazione si possa dire la prima cosa che ci passa per la mente. Come invece ci porta a pensare la lettura di un volantino propagandistico contro il Cpe, firmato dalle sezioni di Attac, del Ps, del Pcf, del 13° arrondissement: “Contro il Cpe e le scelte liberiste del Governo, utilizziamo gli utili degli azionisti per finanziare la creazione su vasta scala di posti di lavoro, e l’incremento del potere d’acquisto (…). Combattere davvero la disoccupazione significa ad esempio: creare posti di lavoro nei servizi pubblici e nel pubblico impiego (insegnamento, ospedali), ridurre gli orari di lavoro imponendo nuove assunzioni, riconquistare potere d’acquisto aumentando i salari a tutti, contro la precarietà, fare del contratto a tempo indeterminato la norma”. Come si possono dire (o pensare) certe sciocchezze? Come si può avere una conoscenza così scarsa dei meccanismi economici?

 

Verità lapalissiane

 

Partiamo da un fatto (o piuttosto una verità lapalissiana): gli impieghi privati sono creati dalle imprese. Aggiungiamo un secondo fatto: le imprese creano posti di lavoro solo se spinte dal loro interesse, se così facendo ricavano un profitto. Possiamo trovarlo increscioso, giudicare il sistema immorale, se non peggio; ma tutto ciò è nondimeno la realtà.

Continuiamo con altri fatti. Se cala il profitto che le aziende ricavano dal creare occupazione, taglieranno i posti di lavoro. Come possiamo dubitare che se tassiamo gli utili, sia direttamente sia tassando gli azionisti, le imprese non investiranno di meno? E che la perdita di investimenti non implicherà alla fine meno posti di lavoro e meno assunzioni? Come possiamo pensare che un aumento dei salari, e quindi dei costi di produzione, porti le imprese a un incremento stabile dell’occupazione? Come possiamo pensare che se le imprese possono assumere solo con contratti a tempo indeterminato, le assunzioni aumenteranno, e la disoccupazione tra i giovani diminuirà?

La soluzione è dunque, come propone il volantino, nella massiccia creazione di posti di lavoro pubblici?

Anche in questo caso, i fatti si impongono. A meno di privatizzare l’educazione e la sanità, che non è probabilmente ciò che gli autori del volantino hanno in mente, gli impieghi pubblici devono essere finanziati dalle imposte. E le imposte supplementari chi le paga? Le imprese? Se scegliamo questa soluzione, il loro profitto diminuisce, e ritorniamo così all’esempio precedente. Gli impieghi pubblici aumenteranno, ma a discapito dell’occupazione totale e della disoccupazione. Chi paga, allora? Le famiglie? Sono davvero pronte a finanziare una crescita del settore pubblico? Possiamo seriamente dubitarne. E anche se lo fossero, pagare più tasse implicherebbe una diminuzione della domanda, e quindi dell’occupazione nel settore privato.

Dobbiamo dunque rassegnarci, e cercare di aumentare il numero dei posti di lavoro attraverso la riduzione degli orari di lavoro? Dopo le 35 ore i lavoratori sono pronti ad accettare una nuova diminuzione del salario? Anche in questo caso, abbiamo seri dubbi.

 

Allora, non c’è una soluzione? Dobbiamo per forza accettare un capitalismo selvaggio, un sistema dove le imprese dettano legge, e i lavoratori sono obbligati a ringraziare? Certo che no. Non siamo più nel XIX secolo, e la Francia è un paese ricco. Abbastanza ricco per offrire una formazione e una protezione sociale generosa ai suoi lavoratori. Il punto è come farlo meglio, aumentando nello stesso tempo gli incentivi per le imprese a creare dei posti di lavoro. Queste sono le vere questioni, questo è il vero dibattito. Un dibattito che in altri paesi ha luogo. A giudicare dal contenuto del volantino, in Francia ne siamo ancora piuttosto lontani.

 

*  articolo disponibile anche sul sito www.telos-eu.com. Traduzione di Ludovico Poggi

Version française

On peut parfaitement être hostile au CPE. Sur Telos, Bernard Brunhes et Eric Chaney nous ont fourni des éléments convaincants sur ce point. Mais cela ne justifie pas pour autant que l’on dise sur l’emploi à peu près n’importe quoi. C’est pourtant ce que la lecture d’un tract contre le CPE, signé par les sections d’Attac, du PS, du PCF, du 13e arrondissement fait craindre : « A l’opposé du CPE et des choix libéraux du gouvernement, il faut prendre sur les bénéfices des actionnaires pour financer la création massive d’emplois et l’augmentation du pouvoir d’achat (…) S’attaquer réellement au chômage, ce serait par exemple : créer massivement des emplois dans les services publics et la fonction publique (enseignement, hôpitaux), réduire le temps de travail en imposant des embauches correspondantes, redonner du pouvoir d’achat en augmentant les salaires pour tous contre la précarité, faire du CDI la norme. » Comment peut-on oser dire (penser ?) de telles âneries ? Comment peut-on avoir une telle méconnaissance des mécanismes économiques ?Partons d’une évidence (ou plutôt d’une lapalissade) : les emplois privés sont créés par les entreprises… Ajoutons-y une deuxième évidence : les entreprises ne créent des emplois que si elles y trouvent leur intérêt, si elles y trouvent profit. On peut le regretter, trouver le système immoral ou pire ; cela n’en reste pas moins la réalité.
Continuons avec d’autres évidences. Si le profit qu’elles trouvent à créer des emplois diminue, les entreprises diminueront l’emploi. Comment peut-on douter que si l’on taxe leurs bénéfices, soit directement, soit en taxant les actionnaires, les entreprises investiront moins ? Et que moins d’investissement implique, à terme, moins de postes de travail, et moins d’emplois ? Comment peut-on penser qu’une augmentation des salaires, et donc des coûts de production, amènera les entreprises à augmenter durablement l’emploi ? Comment peut-on penser que si elles ne peuvent engager qu’en CDI, les entreprises augmenteront leurs embauches, et le chômage des jeunes diminuera ?
La solution est-elle donc, comme le propose le tract, dans la création massive d’emplois publics ? Là encore d’autres évidences s’imposent. A moins de privatiser l’éducation et la santé, ce qui n’est probablement pas ce que les auteurs du tract ont en tête, les emplois publics doivent être financés par les impôts. Ces impôts supplémentaires, qui va les payer ? Les entreprises ? Si c’est le cas, leur profits diminuent, on retourne au cas de figure précédent. Les emplois publics augmenteront, mais au détriment de l’emploi total et du chômage. Les ménages ? Sont-ils vraiment prêts à financer une augmentation de la taille du secteur public ? On peut sérieusement on douter. Et même s’ils l’étaient, ce qu’ils paieront en impôts diminuera d’autant leur demande, et donc l’emploi privé…
Faut-il donc se résigner, et tenter d’augmenter le nombre d’emplois par la réduction du temps de travail ? Après les 35 heures, ceux qui travaillent sont-ils prêts à accepter une nouvelle diminution de leur salaire ? Là encore, on peut sérieusement en douter.
N’y a-t-il donc pas de solution? Doit-on donc accepter un capitalisme sauvage, un système où les entreprises font la loi, et les travailleurs sont corvéables à merci ? Bien sûr que non. Nous ne sommes plus au 19e siècle, et
la France est un pays riche. Suffisamment riche pour offrir une formation et une protection sociale généreuse à ses travailleurs. La question est de comment le faire mieux, tout en augmentant les incitations des entreprises à créer des emplois. Là sont les vraies questions, et là est le vrai débat. Ce débat a lieu dans d’autres pays. A en juger par le contenu du tract, on en est encore assez loin en France.
Olivier Blanchard est professeur d’économie au MIT.

Due contratti inutili, di Pierre Cahuc

Con il contratto per nuovi impieghi (Cne) e il contratto per il primo impiego (Cpe), il Governo francese si propone di ridurre la disoccupazione e di riformare le norme sul licenziamento, inefficaci e ingiuste. Inefficaci, perché scoraggiano le assunzioni senza evitare la forte precarietà dell’occupazione e la disoccupazione di massa. Ingiuste, perché sono i più giovani, i meno esperti e i meno qualificati, ad avere, più che in altri paesi, le maggiori difficoltà ad accedere a un posto di lavoro e ad alternarsi in lavori precari: una situazione che non produce alcun beneficio per la società nel suo complesso.

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Simulazioni e nuovi contratti

Cosa ci possiamo aspettare dai nuovi contratti? Per rispondere alla domanda abbiamo studiato le conseguenze che essi comportano in un modello del mercato del lavoro francese. L’esercizio ci dà una semplice risposta: non molto. Più esattamente, secondo le nostre stime, un contratto del tipo Cne-Cpe accessibile all’insieme delle imprese del settore commerciale, creerebbe circa 70mila posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione diminuirebbe di mezzo punto percentuale. Certamente, 70mila nuovi posti di lavoro non sono poco per una misura che non costa nulla alle casse pubbliche. Tuttavia, la nostra analisi mostra anche che chi è alla ricerca di un lavoro subisce il costo del Cne-Cpe: l’aumento della precarietà degli impieghi ridimensionerebbe il benessere, malgrado la leggera crescita di assunzioni.
Questi risultati non sono poi molto sorprendenti se si ricorda che il Cne-Cpe, benché sconvolga una buona parte del diritto al lavoro, non cambia molto le cose nel funzionamento effettivo del mercato del lavoro. Infatti, le imprese realizzano già il 70 per cento delle assunzioni con contratto a tempo determinato. Inoltre, nei settori in cui le attività sono più suscettibili di fluttuazioni, quali l’alberghiero e la ristorazione, i datori di lavoro posso ricorrere, senza limitazioni di tempo e senza il pagamento dell’indennità di precarietà, a una successione illimitata di Ccd d’utilizzo, a parità di salario. D’altronde, il Cne e il Cpe apportano solo vantaggi marginali ai datori di lavoro rispetto al Cdd, dunque, a meno di un miracolo, non ci si può attendere un forte impatto sull’occupazione.
Ma anche se il Cne e il Cpe determinassero nei primi mesi un incremento nelle assunzioni, avrebbero comunque un effetto debole sull’occupazione: si avrebbero infatti più licenziamenti proprio perché i nuovi contratti sono più flessibili del Cdd e del Cdi insieme. Ma soprattutto perché le imprese avranno tutto l’interesse a non far durare questi contratti oltre il periodo di “consolidamento” di due anni. Si tratterà, infatti, per queste imprese di evitare di ricadere nel regime invariato del Cdi, tutelato da procedure molto costose a partire dai due anni d’anzianità.
Si sostiene spesso che le imprese dopo i due anni avranno tutto l’interesse a trattenere un’ampia maggioranza di dipendenti assunti inizialmente con Cne o in Cpe, perché li avranno testati. Purtroppo, non sarà così. Oggi, per questo fine le imprese hanno già a disposizione il Cdd (nei casi previsti dalla legge), e vi ricorrono già ampiamente.

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I limiti del Cpe

Il difetto principale del Cne e del Cpe è dunque di modificare marginalmente le norme sul licenziamento, proseguendo con la tendenza ad aumentare le disparità di trattamento tra il contratto a tempo determinato e gli alti contratti di lavoro. Numerosi altri studi hanno dimostrato che questa strategia è inefficace per ridurre stabilmente la disoccupazione.
L’esempio della Spagna è a questo proposito eloquente: questo paese ha raggiunto nel 1994 un tasso di disoccupazione del 20 per cento allorché quasi un terzo degli occupati era in Cdd (ovvero più di tre volte quello attuale della Francia). Oggi, dopo importanti riforme del contratto di lavoro a tempo indeterminato, il tasso di disoccupazione spagnolo è di un punto più basso che in Francia.
Per riformare efficacemente le norme sul licenziamento, non è possibile accontentarsi di creare nuovi contratti che riducono la disoccupazione al prezzo di una maggiore precarietà dell’impiego per lavoratori già in situazione difficile. Per la sicurezza del posto di lavoro, riforme parziali possono rivelarsi peggiori o, nel migliore dei casi, appena superiori alla status quo.
È necessario invece riprogettare l’intera struttura della tutela dell’occupazione, basandosi su due pilastri. Primo pilastro: un servizio pubblico dell’impiego efficace, con un “sportello del lavoro” unico con operatori esterni, retribuiti in funzione del tasso di ritorno all’impiego dei disoccupati che prendono in carico. È una questione urgente, ma nulla di significativo è stato fatto e la Francia ha accumulato un enorme ritardo rispetto ad altri paesi vicini, come Regno Unito, Paesi Bassi e Germania.
Secondo pilastro: un contratto di lavoro che assicuri tutela dell’occupazione continuata e progressiva con l’anzianità, grazie a indennità di licenziamento consistenti, ma limiti gli obblighi di reinserimento delle imprese e l’opposizione giudiziaria e amministrativa al licenziamento economico.
Solo un sistema di questo tipo permette di distribuire equamente ed efficacemente i costi delle riconversioni indispensabili alla crescita economica. Inoltre, il nostro studio indica che una riforma di questo tipo permetterebbe di ridurre significativamente la disoccupazione creando 250mila posti di lavoro in tre anni, migliorando contemporaneamente il benessere di chi è alla ricerca di un’occupazione.

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Ma il deficit resta eccessivo

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Il costo della pena

  1. Roberto O.

    La verità è che il sistema post-bellico del welfare non è sostenibile in molti paesi dell’Europa Occidentale perché costa troppo e per coprire questi costi ci siamo coperti di debiti. Il sistema non può essere riprodotto da una generazione all’altra a causa dell’insostenibilità del debito, quindi la generazione di giovani di oggi non vivrà più sotto la protezione del welfare e del suo mastodontico sistema di garanzie. I governanti del passato erano probabilmente troppo ottimisti circa le capacità di crescita futura delle nazioni europee a decenni di distanza. Dovremmo probabilmente essere molto più produttivi, molto più tecnologici per produrre tutta la ricchezza necessaria per permettere al sistema di sopravvivere. Nel passato si è probabilmente sovrastimato il progresso che avremmo (e abbiamo) poi avuto nei decenni successivi. Ora qualcuno deve pagare i debiti della generazione precedente.

  2. Barbara Appierto

    Il problema non è flessibilità si o flessibilità no. Il problema è essere in grado di governarla. Quello che è mancato è stata una chiara, coraggiosa politica “sistemica”. Non è immagibile che si apportino delle modificazioni così forti nel mercato del lavoro, in una società abituata e orientata alla “garanzia” (gli aspetti sociologici non devono mai essere sottovalutati, se si vuole che un determinato provvedimento non crei disapprovazione sociale) e sperare che tutto in torno ad esso resti uguale. Una politica corretta avrebbe potuto rendere “appettibile” e “attrattiva” la flessibilità per tutti gli attori in campo, invece, nel caso italiano, il lavoratore “atipico” gode non solo di un trattamento sociale differenziato ma anche retributivo. Vi sembra attrattivo? Se è vero che l’azienda prende iniziative sulla spinta di un “interesse” ed è normale che sia così, perchè non creare le stesse premesse per il lavoratore?

  3. Giuseppe

    Salve!
    Si è parlato di CPE come elemento che contrasta la competitività delle imprese. Si dice che i sistema di welfare europei sono troppo “pesanti”. Si dice che si debba fare in modo che l’impresa sia in modo di creare più profitto possibile, perchè solo il bene dell’impresa coincide con il bene della società. Secondo la mia opinione queste correnti neoliberali ci hanno distolto l’atttenzione dalla vita reale.
    In una società l’obiettivo non è il profitto ma fare in modo che gli individui al loro interno possano godere di sempre migliori condizioni di vita.
    Quest’obiettivo sbatte siceramente contro lo sviluppo della Cina o le restrizione dei conti pubblici imposti dall’Europa.
    Non sarebbe forse meglio fare un passo indietro? Perche il pensare di realizzare una politica in questo senso è considerata solo como una arretratezza?

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