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Quattro passi nella concorrenza

Il rilancio della competitività passa anche dall’assetto del settore dei servizi pubblici locali a rilevanza industriale. La situazione attuale infatti non pare aver realizzato alcun intervento a favore della concorrenza “per il mercato” e neppure a favore di quella “nel mercato”. Si rischia così di accrescere le inefficienze a danno dei cittadini. La via da percorrere è la creazione di fondazioni che permettano la completa separazione tra gestione del patrimonio con finalità pubbliche e gestione delle imprese industriali con finalità imprenditoriale.

Una volta terminata la campagna elettorale, ineludibili dovrebbero essere i provvedimenti da assumere per il rilancio della competitività. Tra questi, alcuni dovranno riguardare l’assetto del settore dei servizi pubblici locali a rilevanza industriale: acqua, gas, energia elettrica, igiene ambientale, trasporti locali, ma anche fiere, aeroporti, autostrade, telecomunicazioni, mercati ortofrutticoli, e così via.

 

La situazione

 

La situazione di oggi è insoddisfacente per i diversi motivi.

– Gli enti locali che posseggono ingenti patrimoni sotto forma di local utilities industriali non si limitano a fare “i taglia cedole”, ma svolgono una vera e propria funzione imprenditoriale, con rilevanti intrecci con la politica locale. Anche se, nella maggioranza dei casi, non lo fanno più con la forma di “gestione diretta” che caratterizzava le aziende municipalizzate trasformate in aziende speciali, e ora in società per azioni di diritto speciale. Ciò rischia di accrescere l’inefficienza della gestione delle imprese a danno dei cittadini: vocazione pubblica e vocazione privata di tipo imprenditoriale è assai difficile che vadano d’accordo, poiché devono rispondere a obiettivi tanto legittimi quanto diversi e soddisfare domande altrettanto legittime quanto fra di loro incompatibili.

– Non pare realizzato alcun intervento a favore della concorrenza “per il mercato” e neppure a favore di quella “nel mercato”.

Liberalizzazioni e privatizzazioni sono rimaste al palo.

– L’affidamento “in house” dei servizi appare un escamotage per evitarne l’affidamento tramite procedure competitive.

– Assai modesta è la partecipazione dei privati al capitale delle local utilities. Secondo Confservizi, a seguito della privatizzazione formale che ha portato alla veste di spa, nel 73 per cento dei casi gli enti locali sono gli unici proprietari, nel 23,6 per cento dei casi vi è una maggioranza pubblica, soltanto il 3,4 per cento ha optato per la spa minoritaria. (1)

– Molte delle spa locali non soltanto hanno allargato l’area di business ad altre attività (multiutilities), ma detengono anche partecipazioni societarie in altri settori di attività, vere e proprie holding non contendibili.

 

Una ipotesi di riforma in quattro passi

 

La via da percorrere per accrescere la competitività nel settore è quella che giunga alla completa separazione tra gestione del patrimonio con finalità pubbliche (dato dalle reti, dal controvalore delle partecipazioni azionarie nelle imprese e da quello dei rami di azienda che gestiscono le reti o altra attività a rilevanza industriale) e gestione delle imprese industriali con finalità imprenditoriale.

Ciò richiede un provvedimento di legge che preveda almeno quattro passi:

1) la trasformazione in spa di tutte le forme di gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza industriale e conferimento dei rami di azienda in apposite società per azioni in analogia con quanto avvenne nel caso delle banche pubbliche (privatizzazione formale);

2) il conferimento dei patrimoni (le reti ove esistano e le vecchie e nuove partecipazioni azionarie date dallo scorporo dei rami di azienda) in un ente creato appositamente dall’ente locale: una fondazione comunale a vocazione dichiaratamente pubblica che operi con snellezza con le norme del diritto privato. Così facendo la fondazione diviene, in un primo momento, proprietaria sia delle partecipazioni azionarie, sia delle reti che costituiscono il suo più importante “attivo” per il perseguimento dei suoi fini statutari. In quanto proprietaria, la fondazione effettua la gara per l’assegnazione del contratto di servizio, e ne incassa i proventi (concorrenza per il mercato)

3) l’alienazione, in secondo momento e sempre mediante gara, delle partecipazioni azionarie dirette e indirette detenute dalla fondazione che dovrà investire il ricavato in altri asset per il conseguimento dei fini statutari (privatizzazione sostanziale);

4) l’ente locale mediante la redazione del “contratto di servizio” regola l’attività nei diversi settori, ma non le tariffe e nemmeno i soggetti che svolgono la funzione di impresa nei settori stessi. Così facendo l’ente locale diviene “ente regolatore” e non più gestore (concorrenza nel mercato).

In conclusione, l’ente pubblico, tramite la fondazione, disporrebbe di mezzi patrimoniali i cui frutti possono contribuire a soddisfare la propria vocazione pubblica. I privati, dal canto loro, dovrebbero assumere, con spiccata vocazione privata, il rischio di impresa in un contesto competitivo in luogo di godere i frutti di partecipazioni di minoranza in monopoli pubblici.

 

 (1) Confesercizi, rapporto maggio 2004.

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Italians

  1. Francesco Zanotti

    Credo che nell’articolo di Filippo Cavazzuti sarebbe stato più opportuno parlare di competizione. Non di competitività. Competizione è una caratteristica dei mercati. Competitività è la caratteristica di una impresa. Le sue ricette servono ad aumentare la competizione nel mercato delle utilities, non la competitività delle singole utilities. Ma i problemi sul concetto di competitività non si fermano qui. Quando la applichiamo al sistema paese è fuorviante. Perché vogliamo aumentare la competitività del sistema paese? Forse perché così si aumenta la competitività del sistema industriale? Ma non scherziamo. Come fate a far recuperare competitività a tutte quelle imprese che competono sul prezzo? Il prof Sartori mesi fa si chiedeva: ma come si fa a recuperare la competitività di una impresa alla quale produrre un paio di scarpe costa 18 € e i suoi concorrenti cinesi le riescono a far arrivare in Italia a 2 €? Che senso ha illudere queste imprese che aumentando la competitività del sistema paese si aumenta anche la loro? Riusciremo a rilanciare questo paese se riusciamo a rimettere in moto intensi meccanismi di invenzione imprenditoriale. Provando ad avere il coraggio di pensare più in grande: se riusciamo a rimettere in moto un movimento di popolo capace di ricreare un nuovo Rinascimento. Come fare? Banalmente cercando di capire come è che si innesca un Rinascimento. Cioè cercando di capire come si sviluppano i sistemi umani. E’ questa una nuova area di ricerca nella quale l’Italia potrebbe essere la prima al mondo. Anche perché è il paese dove si sta costruendo la nuova cultura della complessità che fornisce le metafore e i modelli per comprendere come è possibile generare rinascimenti.

  2. Francesco Smorgoni

    A proposito del commento del Sig. F. Zanotti, osservo che tutte le Aziende competono sul prezzo, o meglio sui benefits che si “comprano” ad un determinato prezzo, anche in presenza di servizi/prodotti “innovativi”. La competitività del sistema-paese aumenta la competitività del sistema industriale, tra l’altro innescando meccanismi virtuosi. Concordo che non si può competere con chi vende a 1/9 del nostro costo di produzione, ma in questo caso bisogna pensare a riconversione, non a competizione (persa).
    Trovo inverosimile l’idea di un movimento di popolo per nuovi sistemi-umani. (?!)
    Bastano (per modo di dire) poche e sane riforme liberali per incentivare (non dirigere o controllare) la ricerca scientifica attraendo e trattenendo i talenti sempre più scarsi in un paese che invecchia inesorabilmente.
    Gli USA galoppano a ritmi importanti senza Rinascimento forse perchè sono la patria dell’efficienza e del rinnovamento costante (che ha indubbiamente un prezzo).

  3. Giacomo Augugliaro

    Stimato Cavazzuti,
    piuttosto che un commneto Le vorrei porre una domanda. Come questi criteri da Lei enunciati potrebbero trovare applicazione nel settore del TPL al meridione? Mi spiego meglio: perchè mai un competitor privato dovrebbe avere interesse a investire in un settore storicamente in perdita a causa del radicato malcostume di non pagare il titolo di trasporto?

    • La redazione

      Gentile signor Augugliaro,
      grazie per la domanda non banale. A questo proposito ricordo quando, in anni non molto lontani, in un comune non meridionale la “vocazione pubblica” dell’amministrazione comunale, insieme al controllo politico esercitato sulla locale azienda di trasporto, consentirono di teorizzare ed appilcare
      la gratuità dei trasporti locali. Fu un vero e proprio disastro finanziario – senza alcun beneficio sulla riduzione del trasporto privato e sul miglioramento del servizio- cui si dovette porre rapido rimedio ripristinando il biglietto. Non vi è dubbio che la pessima abitudine di non pagere il biglietto altro non è che l’altra faccia di una malintesa vocazione pubblica dell’amministrazione comunale che consente il “lasciar
      correre” senza approntare, come in tuttol il mondo, i più appropriati controlli, ma anche il miglioramento qualitativo del servizio: lascio correre, tanto ti dò un servizio insoddisfacente!. Penso che i “contratti di servizio” messi all’asta, che richiedono all’impresa privata vincitrice
      elevati standard qualitativi insieme alla rigorosa verifica del loro rispetto sia la via migliore per cominciare a cambiare l’invalsa abitudine di non pagare il biglietto. In sintesi, non credo che ci si debba rassegnare di fronte alle cattive abitudini (caso mai motivate anche dalla pessima
      qualità del servizio). Se ognuno svolge con eccellenza il proprio compito (il comune che, insieme alla fondazione, controlla, l’impresa che gestisce, la fondazione che spiega e restituisce alla collettività i frutti della gestione del proprio patrimonio) anche i privati troveranno convenienza a
      pagare il biglietto.
      Cordialmente
      Filippo Cavazzuti

  4. Marcello Costato

    Caro Cavazzuti, ti invio questo commento tardivo, composto di alcune domande, ispirato dai fuochi d’artificio degli ultimi giorni (non ultima la notizia in sordina della sospensione del titolo di ACSM Como per eccesso di quotazione).
    1. Può esserci nel paese una spinta per l’adozione delle nuove regole che tu indichi ?
    2. Come si può evitare che il nuovo monopolista “faccia il bilancio” comprimendo le spese di manutenzione ? Ne abbiamo esempio sullo stato delle rete idrica della città in cui entrambi viviamo, e nella rete gestita da Autostrade (un anno fa il CD di Edizioni Holding dichiarò in una intervista all’Economist che l’investimento aveva dato una piacevole sorpresa: spesa di manutenzione inferiore al previsto!).
    3. Come si può porre al centro di queste politiche il CONSUMATORE ? Auspicare queste operazioni portino alla fine un vantaggio per il consumatore italiano non mi sembra sufficiente (v.Giavazzi, CdS 24.04.06)
    4:E’ troppo chiedere una politica di “consumer satisfaction” ? Basta scorrere le lettere dei lettori sui principali quotidiani per capirne l’urgenza). Non potrebbe divenire un fattore di sviluppo anche per un rilancio economico ?
    Con stima ti saluto.
    Marcello Costato

    • La redazione

      Caro Costato,
      La spinta all’adozione di regole quali quelle esemplificate deve venire in primo luogo dalla “politica” intesa come azione volta al soddisfacimento degli interessi dei cittadini/consumatori e dalla considerazione che il perseguimento di interessi collettivi non presuppone sempre e comunque una gestione pubblica delle risorse. Certo è che una opinione pubblica che
      condividesse ciò costringerebbe “la politica” d uscire dalla visione “partitica” che informa la gestione delle aziende locali. Anche nel caso delle aziende locali si tratta di sostituire il “comune gestore” al “comune regolatore” dell’azienda privata incaricata del servizio. Poichè i servizi cui faccio riferimento sono tutti esercitati tramite una concessione o un
      contratto di servizio è nella predisposizione di questi “documenti” che l’ente locale deve affinare le proprie capacità di individuare le esigenze per i propri cittadini, ma lasciare all’azienda il compiti di reliazzare gli obiettivi. Una politica di “consumere stisfaction” diviene allora
      indispensabile, ma questa va abbinata alla predisposizione di efficaci strumenti sanzionatori (sia reputazionali, che amministratrivi e penali) che inducano le imprese affidate a non fare come i “furbetti del quartierino”.
      un caro saluto
      Filippo Cavazzuti

  5. Marcello Marino

    Egregio Cavazzuti,
    per quanto riguarda il TPL, forse sarebbe il caso di avviare una riflessione sul modello di riforma del 1997 e sugli esiti dilatori che esso ha prodotto sull’intero settore. Le aziende del TPL pure avevano vissuto una stagione di “attivismo” determinato dall’annunciata novità (che pure, a ben guardare, era di piccolo momento): oggi, di fronte ai continui rinvii andrebbe preso atto che il modello delle gare è stato sostanzialmente respinto dal settore.
    Intanto, però, la partita più rilevante continua ad essere persa ed il trasporto pubblico continua a perdere competitività rispetto a quello privato. Andrebbe, dunque, posta una questione essenziale: vale la pena continuare ad operare su modelli di “regolazione per l’offerta” (basati essenzialmente sul sussidio della produzione, effettuata su piani decisi dall’ente locale, ed indipendenti dalla quantità di domanda soddisfatta) o non è giunto il tempo di pensare a modelli di “regolazione per la domanda” che siano finalizzati essenzialmente a spostare quote di trasporto verso il trasporto pubblico. Per far ciò, mi pare, oltre a buona parte delle misure relative agli assetti contenuti nell’articolo, occorrerebbe agire sui meccanismi di sussidio spostandoli progressivamente verso la domanda e, contestualmente, liberalizzare parzialmente le tariffe (al lordo dei sussidi) e introdurre robusti elementi di flessibilità nella costruzioen dei piani di esercizio per l’offerta dei servizi. Ipotesi, peraltro, già ampiamente sondate dall’autorità inglese sui trasporti nel “lontano” 2002. Cordialmente

  6. Gennaro Romano

    I risultati connessi al processo di liberalizzazione che il D.Lgs. n. 422/97 e s.m.i. avrebbe dovuto portare non si sono visti, almeno nel meridione di Italia dove la commistione esistente tra Ente pubblico locale proprietario delle aziende che funge anche da Ente regolatore banditore delle gare, fa si che il cambiamento non deve avvenire causa la forte preoccupazione di non poter continuare il controllo politico delle aziende di T.P.L. che contiunuano nella allegra gestione di clientele a tutto campo allontanandosi sempre di più dall’equilibrio di bilancio che pure dovrebbe essere garantito e obbligatorio secondo il disposto dell’art. 18 del suddetto Decreto.
    Bisognerebbe introdurre una norma che obbliga il management aziendale a risultati di gestione attivi pena l’immediata rimozione.

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