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Se non ora, quando?

La Legge Bossi-Fini va rivista. E in fretta perché altri paesi stanno ripensando le loro politiche di accoglienza, cercando di attirare gli immigrati più qualificati. Norme troppo restrittive incentivano solo la clandestinità, che rappresenta un costo per tutti: i migranti, i paesi di origine e quelli di destinazione. Uno dei suoi effetti è infatti quello di spingere i lavoratori più istruiti a tornare per primi nel paese di origine. La nostra classe politica sembra non aver ancora capito che l’immigrazione, quando governata, è una risorsa fondamentale.

Dalla metà degli anni Settanta le politiche di accoglienza dei paesi industrializzati sono divenute generalmente più restrittive. Tuttavia, nonostante il calo dei flussi migratori legali, negli anni della globalizzazione il loro inasprimento ha causato una sostituzione di migrazione legale con migrazione illegale o irregolare. L’aumento relativo della clandestinità non è neutrale rispetto al “contenuto qualitativo” dei movimenti migratori. Difatti, i costi associati allo status di clandestino sono relativamente più elevati per i migranti più qualificati.
Diversi paesi, Francia e Stati Uniti in primis, stanno ripensando le loro politiche immigratorie. (1) Anche per noi è arrivato il momento di valutare e rivedere la Legge Bossi-Fini e occorre farlo in fretta – il secondo decreto-flussi con il quale il Governo apre la strada all’opportunità di impiegare ulteriori 350 mila lavoratori extra-comunitari, è un importante riconoscimento dell’inadeguatezza della corrente normativa e del costo in termini di clandestinità che essa produce. Aspettare troppo può avere effetti di diversione proprio sui flussi migratori dei lavoratori più qualificati a favore di altri paesi simili al nostro, ma più pronti ad agire.

Il costo della clandestinità

La migrazione è una delle decisioni più costose e difficili nella vita di un individuo e le politiche migratorie influenzano tale scelta, in particolare dove e come trasferirsi, se in modo legale o illegale. D’altra parte, l’adozione di politiche restrittive è la legittima e consapevole scelta di un paese, ma la loro efficacia e il costo della loro attuazione sono talvolta trascurati. L’effetto collaterale più rilevante è quello di incentivare la clandestinità. E la clandestinità, al di là dei problemi di ordine sociale, rappresenta un “costo” per tutti: i migranti, i paesi di origine e i paesi di destinazione.
Per i migranti, la clandestinità implica che la capacità di impiego delle proprie qualifiche è sensibilmente compromessa, con forti effetti negativi sia nei paesi di origine (meno rimesse, meno opportunità e incentivi ad accumulare capitale umano sia prima della partenza che durante la migrazione, sperpero delle risorse impiegate per la formazione) sia nei paesi di destinazione (il contributo dei migranti è di gran lunga al di sotto del loro potenziale produttivo).
Per i paesi di destinazione, il costo della clandestinità comprende anche il perverso incentivo che induce gli immigrati illegali più qualificati a scegliere di tornare per primi nei loro paesi di origine. Uno studio recente (2) mostra che, in presenza di illegalità, la propensione a tornare è assai più elevata proprio per i migranti più qualificati, gli stessi che le politiche selettive (di altri paesi, non dell’Italia) cercano di attrarre. Il costo opportunità di tornare nel paese di origine è più basso per l’ingegnere egiziano che raccoglie pomodori in Campania, rispetto al suo compagno di viaggio pressoché analfabeta.
Inoltre, il luogo comune che i clandestini abbiano un basso livello di istruzione e siano in prevalenza non qualificati è smentito da alcuni studi recenti. In particolare, una ricerca condotta presso l’università di Bari sugli immigrati illegali intercettati e trattenuti in dieci centri di permanenza temporanea di quattro Regioni nel 2003, e un’altra dell’Università Bocconi sui clandestini che hanno usufruito di assistenza sanitaria a Milano da parte della Onlus Naga nel 2000-2001, evidenziano entrambe l’elevato livello di qualifiche degli immigrati illegali, anche rispetto ai locali. (3)

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Cosa fanno gli altri paesi industrializzati e cosa (non) fa l’Italia

In Francia, le rivolte di ottobre e novembre hanno riaperto la questione dell’arrivo di nuovi migranti e della loro integrazione nella società francese. (4) Si è avviato un processo di revisione della disciplina sull’immigrazione, già riformata nel novembre 2003 con l’introduzione del Contratto di accoglienza e integrazione. Ai primi di maggio è stato presentato un progetto di legge che abolisce alcuni principi storici di universalità di accoglienza (dopo dieci anni gli immigrati clandestini vengono regolarizzati), ma allo stesso tempo promuove l’immigrazione qualificata distinguendo tre tipi di visto (per studenti, per famiglie e per lavoratori) e garantendo una politica di accoglienza molto attiva (è previsto che l’immigrato segua corsi di lingua e di educazione civica durante i tre anni di permanenza garantita per “talento”). Il disegno di legge è ancora ampiamente discusso da tutte le parti sociali.
Negli Stati Uniti di un buon bilanciamento tra accoglienza e fermezza si discute in Senato e al Congresso. Anche in questo caso, la politica di accoglienza guarda al forte calo dell’immigrazione qualificata: da 200mila visti H1B nel 2001 ai 65mila odierni. Si teme soprattutto la concorrenza di altri paesi, come l’Australia, il Canada e la Svizzera, che hanno legislazioni a punteggio in grado di favorire l’ingresso dei cervelli.
Italia è uno dei paesi che ha visto crescere maggiormente l’ingresso di stranieri, sia regolari che irregolari. L’ultimo rapporto Ocse sull’immigrazione mette il nostro paese al settimo posto in quanto a flussi in entrata di immigrati legali nel 2004 (156.400 persone “a lungo termine”, secondo le nuove statistiche armonizzate), ma segnala l’aumento più forte tra il 2003 e il 2004 rispetto a tutti gli altri paesi industrializzati, eccetto gli Usa. (5)
È una realtà che dovrebbe aprire riflessioni approfondite per una revisione della legge sull’immigrazione in vigore, la cosiddetta Bossi-Fini, come previsto anche dal programma elettorale dell’Unione.
Un primo passo è stato fatto: l’adozione del secondo decreto flussi del 21 luglio 2006. Il Governo ora dovrebbe avviare una discussione sull’adozione di una politica immigratoria non più solamente basata sulle regolarizzazioni ma che colga i complessi aspetti del fenomeno migratorio, in particolare quello delle qualifiche degli immigrati su cui è opportuno basare ragionevoli criteri di selettività. Altri paesi a noi vicini, come la Francia, danno particolare attenzione alle capacità e alle potenzialità degli individui, cercando di attirare così i flussi migratori qualificati. Se è vero che la nostra struttura produttiva non è particolarmente propensa all’utilizzo di questi lavoratori, eliminare qualsiasi incentivo dal lato dell’offerta di lavoro, potrebbe far cadere ogni speranza di cambiamento.
Sembra che il nostro paese (ma, più in particolare, la classe di governo degli ultimi anni) non si sia ancora reso conto di essere divenuto un paese di immigrazione. L’esperienza del Canada, dell’Australia, degli Stati Uniti dimostra chiaramente che l’immigrazione, quando governata, è una risorsa fondamentale per il paese ospitante oltre che essere la speranza, di una vita migliore per milioni di persone nel Sud del mondo. Assecondare l’illusione di poter soffocare il fenomeno migratorio unicamente innalzando barriere, o ritardare il necessario processo di ammodernamento delle politiche di accoglienza, può fatalmente ritorcersi contro il nostro paese e soprattutto contro il nostro futuro.

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(1)
Nei due paesi i tumulti e le manifestazioni di piazza hanno innescato dibattiti accesi su possibili revisioni delle politiche di ingresso e accoglienza. Sulla probabilità di tali sviluppi per l’Italia si veda l’intervento di Marina Murat e Sergio Paba “Perché le periferie non brucino“.

(2) Coniglio, N., De Arcangelis G., Serlenga L. (2006), “Intentions to Return of Irregular Migrants: Illegality as a Cause of Skill Waste”, Working Paper Series n.11, Università di Bari, http://www.dse.uniba.it/Quaderni/SERIES/WP_0011.pdf.

(3) Vedi Chiuri M.C., De Arcangelis G., D’Uggento, Ferri G. (2004), “Illegal Immigration into Italy: Evidence from a Field Survey”, Csef Working Paper n. 121, http://www.dise.unisa.it/WP/wp121.pdf. E Devillanova C., Frattini T. (2006), “Undocumented Immigrants in Milan: Evidence from Naga Records” Econpubblica Working Paper n. 110.

(4) Si veda su La Voce del 17-11-2005 gli interventi di Tito Boeri e di Marina Murat e Sergio Paba per un confronto con la situazione italiana, presente e futura.

(5) Oecd (2006), “International Migration Outlook: Sopemi 2006”, giugno 2006.

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Sommario 19 luglio 2006

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Per la neutralità della rete

  1. Eric Fapom

    Vorrei aggiungere qualche colore al dibattito sull’immigrazione, condividendo il mio caso personale. Credo sia inutile dibattere sul miglioramento delle condizioni e sui diritti civili degli immigrati se nel frattempo il poco di diritti che sono gia’ stati acquisiti non vengono erogati nei tempi accettabili. Basta ricordare che un studente universitario extracommunitario non puo’ validare un esame, iscriversi ad un esame, quindi iscriversi ad anni successivi se non ha in mano il foglio del permesso di soggiorno, per citarne uno solo. Peccato che le questure italiane mettono 6 mesi a 1 anno per erogare quel tanto prezioso foglio. I danni per il futuro dell’immigrato, la sua famiglia, per l’economia Italiana sono incalcolabili. Nel mio caso specifico, arrivo in Italia dal 1993, sono residente senza interruzione dal 1994, mi laurea in Bocconi nel 2000, sposo una cittadina Italiana nel 2002 da cui nasce un figlio e faccio la richiesta di cittadinanza Italiana nel maggio 2003, alla Prefettura di Milano. Nel maggio 2006, mi reco in prefettura per fare il punto con l’iter della mia domanda. Vengo informato che tutto e’ stato verificato ed e’ a posto, ma che manca il parere della questura di Milano che e’ stata gia’ richiesta dal maggio 2005. Ma se sono residente a Milano dal 1994, come puo’ la questura non essere in grado di dare un parere dopo 1 anno? Comunque mi rallegro dal fatto che il ministero dell’interno a Roma mi conferma di aver ricevuto la mia domanda e che aspetta solo il parere della questura di Milano. Peccato che mi informano che ne avro’ ancora per altri 2 anni. Oggi lavoro per una multinazionale americana con sede a Londra per la quale ho dovuto aspettare 9 mesi per avere il permesso di lavoro. Il mio lavoro richiede tanto viaggio e si puo’ immaginare quanta fatica faccio a muovermi a causa dei limiti di un passaporto extracommunitario. Quindi, a parita’ di laurea in questo paese, pago una tassa incalcolabile, ‘godo’ di un svantaggio competitivo ingiusto.

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