La golden share può ostacolare la circolazione dei capitali all’interno del mercato comune europeo. Per questo la Corte di giustizia impone ai paesi che la contemplano di circoscriverne il raggio d’azione. Non sembra quindi ipotizzabile che il nostro governo possa esercitare il diritto di veto sulle operazioni Telecom di scorporo della rete fissa e mobile. Al massimo, può esigere che lo statuto della società cui è conferita la rete fissa contenga una golden share. Per mantenere gli stessi poteri di salvaguardia che ha oggi in caso di pericolo. Niente da fare invece per Tim.

La statuto di Telecom Italia contiene una “golden share”, che dà al governo poteri speciali in caso di riorganizzazioni societarie e ingresso di nuovi soci. Anche se volesse farlo, tuttavia, il governo non potrebbe impedire il riassetto di Telecom. Vediamo perché.

Dalle partecipazioni statali alle privatizzazioni

Chi possiede il pacchetto di maggioranza di una società ha diritto di indirizzarne le scelte. La minoranza ha diritto di controllare tali scelte e di resistervi se le ritiene inopportune, ma se esse sono legittime, per i soci di minoranza (a meno che non formino un blocco compatto) c’è poco da fare.
Queste regole valgono, in linea di principio, anche per le società a partecipazione pubblica. Qualsiasi governo, tuttavia, riserva un’attenzione particolare alle imprese che operano in alcuni settori economici ritenuti vitali per gli interessi dello Stato: difesa, telecomunicazioni, trasporti, energia. In Italia, l’attenzione per questi settori era in passato così elevata che lo Stato vi faceva operare, in monopolio o in regime di concorrenza (spesso comunque calmierata), società ed enti posti sotto il suo controllo, vigilate all’interno del più ampio sistema delle cosiddette partecipazioni statali. In questo modo il problema di scelte di soci e amministratori che fossero contrarie agli interessi statali neppure si poneva: lo Stato era l’imprenditore, o comunque lo controllava strettamente.
Quando negli anni Novanta il sistema delle partecipazioni statali è fallito (talvolta letteralmente: si pensi al disastro dell’Efim), e il bisogno di incassi da privatizzazioni si è fatto disperato, l’indirizzo politico è cambiato: le grandi società in mano pubblica sono state via via privatizzate, incluse quelle operanti nei settori giudicati strategici per gli interessi del paese. Lo Stato ha dunque dovuto cercare di tutelare gli stessi vitali interessi disponendo però solo di una partecipazione di minoranza, o addirittura avendo venduto tutte le proprie azioni.
Una missione apparentemente impossibile, se non fosse per uno strumento di cui nessun privato può disporre.

“Golden share” e poteri speciali

Già il codice civile del 1942 consentiva allo Stato e agli enti pubblici il diritto di nominare direttamente alcuni amministratori e sindaci. Ciò, tuttavia, non era sufficiente, e lo strumento che venne scelto nel 1994 fu quello di attribuire al governo (o in certi casi agli enti locali, su società di servizio pubblico quali trasporti ed energia operanti sul suo territorio) dei “poteri speciali” sulle società da privatizzare. (1) Nel loro complesso vengono definiti come “golden share” (“azione speciale”), ma non richiedono in realtà che lo Stato (o l’ente pubblico) sia effettivamente azionista (anche se di minoranza): si tratta infatti di prerogative pubbliche, che lo statuto delle società “a sovranità limitata” incorpora e riconosce.
Tali poteri speciali, all’epoca delle grandi privatizzazioni degli anni Novanta (Eni, Telecom, Enel), consistevano:
a) nel diritto di impedire che soci sgraditi acquistassero le azioni e superassero una “soglia di attenzione” (a seconda dei casi fra il tre e il cinque per cento). Analogo potere lo Stato si è poi riservato nei confronti di coalizioni che si formino fra azionisti separati;
b) nel diritto di opporsi a decisioni fondamentali per il destino della società, quali fusioni, scissioni, trasferimenti d’azienda, trasferimenti della sede all’estero, e simili;
c) nel diritto (già previsto dal codice civile) di nominare uno o più amministratori (fino a un quarto del totale) e sindaci della società.
Nel dare al governo i poteri speciali, l’Italia non era sola: lo stesso (seppur con diversi accenti) hanno fatto il Regno Unito, la Francia, la Spagna, e molti altri.

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La “golden share”: uno strumento sotto attacco

Vi è però da sempre un problema: questi “poteri speciali” possono ostacolare la circolazione dei capitali all’interno del mercato comune europeo. È per questo che, da molti anni, la Commissione conduce una battaglia contro di essi, con vittorie anche significative contro i singoli Stati membri dell’Unione, condannati dalla Corte di giustizia delle Comunità europee. (2)
In conseguenza di ciò anche l’Italia, nel 1999 e quindi nuovamente nel 2003, ha limato le unghie alla golden share. (3) Sotto quattro profili:
a) sfoltendo la pletora delle società sotto tutela, riducendole a quelle che operano in settori ritenuti vitali per il paese;
b) chiarendo che i poteri speciali possono essere esercitati solo quando siano concretamente minacciati “interessi vitali” del paese;
c) disponendo che lo Stato non nomini più (veri) amministratori e sindaci, ma solo un “amministratore senza diritto di voto” (una sorta di semplice controllore ben informato, dunque);
d) specificando che il pericolo non può essere generico, ma deve riguardare l’ordine pubblico, la sanità, la difesa nazionale, l’approvvigionamento delle materie prime, la sicurezza delle reti, la continuità dei servizi pubblici essenziali, delle telecomunicazioni e dei trasporti: ipotesi gravissime ed estreme, che mal si adattano a “coprire” semplici finalità di politica economica.
Ma la tendenza al dirigismo è forte, e spesso il socio pubblico cerca di restare nella stanza dei bottoni anche quando diviene minoranza. Così, nel 2004, il comune di Milano ha ceduto la maggioranza assoluta di Aem (quotata), mantenendo però, mediante una combinazione di statuto e codice civile apparentemente astuta, il diritto di nominare la maggioranza degli amministratori. Scoperta facilmente la foglia di fico, una nuova condanna della Corte di giustizia è questione di settimane. (4)

Telecom e la “golden share”

Se questo è il quadro, nella vicenda Telecom, il cui statuto contiene una golden share (5), l’esercizio del diritto di veto sulle operazioni di scorporo della rete fissa e mobile non sembra seriamente ipotizzabile. Il governo potrebbe al massimo esigere che lo statuto della società cui è conferita la rete fissa (che ha senz’altro carattere strategico per gli interessi del paese) contenga una golden share: ciò per mantenere gli stessi poteri di salvaguardia di cui oggi dispone in caso di pericolo.
Ed anche se Tim, dopo essere stata scorporata in una nuova società, venisse poi venduta, e persino a soggetti stranieri, ben poco ci sarebbe da fare per il governo: il mercato comune è anche questo, ed Enel, società controllata dallo Stato (e non semplicemente posta sotto tutela con una golden share), vendendo Wind, ha appena fatto la stessa cosa.


(1)
Legge 30 luglio 1994, n. 474.
(2) Si veda Corte di giustizia delle Comunità europee, sentenza 23 maggio 2000, causa C-58/99, Commissione/Italia. La Corte, in coerenza con precedenti pronunzie, ha ribadito che i “poteri speciali”, potendo ostacolare o scoraggiare l’esercizio delle libertà fondamentali garantite dal Trattato, devono soddisfare quattro condizioni: 1) devono applicarsi in modo non discriminatorio; 2) devono essere giustificati da motivi imperativi di interesse generale; 3) devono essere idonei a garantire il conseguimento dell’obiettivo perseguito; 4) non devono andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di questo.
(3) Legge 23 dicembre 1999, n. 488 (art. 66, comma 3), e legge 24 dicembre 2003, n. 350 (art. 4 commi 227-231). Si veda anche, per le modalità di esercizio dei “poteri speciali”, il decreto del presidente del Consiglio dei ministri 10 giugno 2004 (in Gazz. Uff. n. 139 del 16 giugno 2004).
(4) Si vedano le conclusioni 7 settembre 2006 dell’Avvocato generale presso la Corte, nelle cause riunite C-463/04 – C-464/04, Federconsumatori e altri contro Comune di Milano. Le conclusioni dell’Avvocato generale non vincolano la Corte, ma raramente vengono disattese.
(5) Art. 22 dello statuto di Telecom Italia spa: “Ai sensi del comma 1 dell’articolo 2 del decreto legge 31 maggio 1994, n. 332, convertito, con modificazioni dalla legge 30 luglio 1994, n. 474, come sostituito dall’articolo 4, comma 227, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, il ministro dell’Economia e delle finanze, d’intesa con il ministro delle Attività produttive, è titolare dei seguenti poteri speciali:
a) opposizione all’assunzione, da parte dei soggetti nei confronti dei quali opera il limite al possesso azionario di cui all’articolo 3 del decreto legge 31 maggio 1994, n. 332, convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 1994, n. 474, di partecipazioni rilevanti, per tali intendendosi quelle che (…) rappresentano almeno il 3 per cento del capitale sociale costituito da azioni con diritto di voto nelle assemblee ordinarie. L’opposizione deve essere espressa entro dieci giorni dalla data della comunicazione che deve essere effettuata dagli amministratori al momento della richiesta di iscrizione nel libro soci, qualora il ministro ritenga che l’operazione rechi pregiudizio agli interessi vitali dello Stato. (…). Il provvedimento di esercizio del potere di opposizione è impugnabile entro sessanta giorni dal cessionario innanzi al tribunale amministrativo regionale del Lazio;
b) veto, debitamente motivato in relazione al concreto pregiudizio arrecato agli interessi vitali dello Stato, all’adozione delle delibere di scioglimento della società, di trasferimento dell’azienda, di fusione, di scissione, di trasferimento della sede sociale all’estero, di cambiamento dell’oggetto sociale, di modifica dello statuto che sopprimono o modificano i poteri di cui al presente articolo. Il provvedimento di esercizio del potere di veto è impugnabile entro sessanta giorni dai soci dissenzienti innanzi al tribunale amministrativo regionale del Lazio. Il potere di opposizione di cui alla precedente lettera a) è esercitabile con riferimento alle fattispecie indicate all’articolo 4, comma 228, della legge 24 dicembre 2003, n. 350. I poteri speciali di cui alle precedenti lettere a) e b) sono esercitati nel rispetto dei criteri indicati dal decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 10 giugno 2004″.

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