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Fragili capitalisti e politici senza “policy”

La vicenda Telecom ha reso ancora più evidenti le debolezze del nostro sistema politico ed economico. Ma offre qualche insegnamento per le necessarie future privatizzazioni e liberalizzazioni: dall’importanza di un’efficace regolamentazione all’alta probabilità di fallimento del mercato italiano degli assetti proprietari. Se la Cassa depositi e prestiti dovesse diventare proprietaria delle maggiori infrastrutture a rete, occorrerebbe ripensarne i compiti. Per ora, il governo non sembra aver definito un adeguato disegno di policy making.

La recente vicenda di Telecom Italia ha reso ancora più evidenti le debolezze del nostro sistema politico ed economico: la fragilità di un capitalismo con pochi capitali e con carenza di grandi imprese, il rischio di subordinazione delle strategie industriali ai vincoli finanziari, la minaccia di invasioni della politica nelle scelte societarie, la mancanza di un efficiente policy making. Dopo le dimissioni di Marco Tronchetti Provera e di Angelo Rovati, sarebbe però inutile tornare sugli episodi che denunciano queste debolezze. Mi sembra invece più proficuo trarre da tali episodi qualche insegnamento per il futuro.

Liberalizzazioni e privatizzazioni

Nel sistema economico italiano vi sono ancora molti mercati dei servizi da liberalizzare e molte imprese da privatizzare. L’esperienza degli anni Novanta mostra però che, specie nei servizi a rete, le privatizzazioni senza adeguate liberalizzazioni e ri-regolamentazioni finiscono per sostituire monopoli pubblici con quasi-monopoli privati e per alimentare, così, ampie posizioni di rendita e di potere a danno dei consumatori e, talvolta, degli azionisti di minoranza. La passata esperienza mostra inoltre che, per acquisire posizioni di rendita, non serve perseguire efficienti strategie industriali: almeno nel breve periodo, è vincente costruire complessi meccanismi di ingegneria finanziaria.
Sotto questo profilo la storia di Telecom Italia, a partire dall’Opa di Roberto Colaninno ed Emilio Gnutti, appare emblematica: quando non è più possibile scaricare il debito sulla società acquisita, i vincoli finanziari diventano così stringenti da spingere alle dismissioni o a scelte produttive a rischio elevato. Infatti, indipendentemente dall’evoluzione futura delle telecomunicazioni, non è definibile altrimenti la repentina svolta gestionale di Tronchetti Provera destinata a sacrificare la fonte principale di redditività societaria per un’incerta scommessa futura.
Tale giudizio critico non implica, però, che sia compito del governo interferire con le scelte effettuate da una società privata e approvate dai rappresentanti dei suoi azionisti. Anche se si tratta di un grande gruppo che svolge attività rilevanti, le eventuali iniziative microeconomiche del governo devono avere portata più generale e non devono distorcere né i flussi informativi né il funzionamento del mercato. In positivo, il sistema politico ha poi l’occasione di apprendere una lezione importante: come evitare che le future e necessarie privatizzazioni e liberalizzazioni portino a risultati così negativi. Gli elementi da apprezzare sono, al riguardo, svariati: dall’importanza di un’efficace regolamentazione all’alta probabilità di fallimento del mercato italiano degli assetti proprietari.

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Interventi di policy

Anche se stigmatizza le interferenze politiche, quanto fin qui detto non esclude che le vicende di Telecom Italia richiedano interventi di politica industriale e dei servizi.
Due sono gli interrogativi da porsi al riguardo. Le attività di telefonia mobile sono strategiche perché producono “esternalità” insostituibili per altre imprese nazionali? Oltre a essere un monopolio naturale, una parte almeno della rete di telefonia fissa ha un potenziale innovativo per il resto del sistema economico italiano?
La risposta alla prima domanda è negativa. Anche se la scelta di scorporare Tim da Telecom è discutibile in termini di strategia aziendale e anche se la possibile cessione di Tim escluderà l’Italia da ogni controllo proprietario nella telefonia mobile, ciò non peserà negativamente sulla (già bassa) competitività del nostro sistema economico a livello internazionale. Il mercato italiano della telefonia mobile è troppo rilevante per essere sacrificato a seguito di cambiamenti proprietari dal lato dell’offerta del servizio. Ed è troppo maturo per stimolare innovazioni strategiche sul piano distributivo.
Più complessa è, invece, la risposta alla seconda domanda. La rete di telefonia fissa necessita di rilevanti investimenti che potrebbero produrre innovazioni di sistema; tali investimenti non sono, però, realizzabili nel lungo periodo da un’impresa con forte indebitamento e a controllo famigliare. Per di più la liberalizzazione del mercato di qualsiasi servizio, in cui la rete costituisce (in tutto o in parte) un monopolio naturale, richiede che l’incumbent ne perda il controllo diretto mediante una separazione proprietaria o una separazione societaria fortemente regolamentata. Nonostante la forte sovrapposizione fra “rete” e “servizio” esaminata da Carlo Scarpa, la persistente posizione dominante di Telecom nel mercato interno suggerisce che ciò vale anche per la telefonia fissa. Vi è quindi spazio per interventi di policy che, data la debolezza del mercato italiano degli assetti proprietari, potrebbero anche sfociare in un controllo proprietario pubblico della rete.
La Cassa depositi e prestiti non offre, però, facili soluzioni. La Cdp è controllata dallo Stato; funge da holding di partecipazione di società di servizio sotto il controllo statale; detiene la maggioranza relativa della rete elettrica. Se diventasse la proprietaria delle maggiori infrastrutture a rete del paese, si determinerebbe un gravissimo conflitto di interesse fra Stato proprietario e Stato regolatore. La soluzione del problema non passa certo per le interferenze governative nelle decisioni manageriali di Telecom Italia. Per acquisire o mantenere il controllo proprietario delle reti mediante la Cdp (o in via diretta), lo Stato dovrebbe dismettere le quote di controllo o le quote azionarie rilevanti detenute, direttamente o indirettamente, nelle società di servizio a rete (in primo luogo, in Enel ed Eni); e dovrebbe poi disegnare, in modo coerente e trasparente, i nuovi compiti della Cdp.

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Il policy making

Resterebbe da chiedersi come mai un governo, che pure ha avviato promettenti processi di liberalizzazione, abbia mostrato tanti limiti nella recente vicenda di Telecom Italia. Qui avanzo due sole considerazioni, strettamente economiche.
La debolezza delle residue grandi imprese italiane e la povertà dei nostri servizi avanzati, che spiegano larga parte della negativa dinamica della produttività (variamente misurata), mettono a nudo limiti di funzionamento del mercato e sollecitano interventi di policy. Il governo è continuamente tentato di rispondere a tali sollecitazioni; pur disponendo di tre dicasteri economici con competenze importanti e di strutture di coordinamento presso la presidenza del Consiglio, non sembra però aver definito forme di intervento trasparenti e non distorsive. Un anello mancante, al riguardo, è un adeguato disegno di policy making.

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  1. Marco

    Mi pongo (e le pongo) solo una domanda. Tutti questi scandali, tutte queste grandi aziende iper indebitate (dagli scandali Parmalat e Cirio in poi), come faranno ad essere risolti, e soprattutto, come faremo noi piccoli contribuenti a risanare questo capitalismo elefantico ed inefficiente come neanche l’ormai ex Unione Sovietica ha conosciuto? Da economita penso che non ci siano soluzioni; siamo destinati al fallimento di Stato (vedi il caso Argentina ndr).

  2. Federico Sassoli

    Forse sarebbe stato meglio privatizzare e liberalizzare settori dove era facile sviluppare la concorrenza tra piu’ operatori. Penso ad esempio alla sanita’, alle scuole, alle pensioni.
    Purtroppo in Italia mi sembra che questi siano temi tabu’ per la sinistra. La destra poi non sembra in generale interessata alle liberalizzazioni.

  3. Rita

    Credo che un paese come l’Italia abbia grosse difficoltà nel gestire il fenomeno delle privatizzazioni in quanto manca -ed è quasi sempre mancata- una cultura autenticamente liberale nella classe dirigente. Quando furono fatte le privatizazioni da noi le si considerò soprattutto un modo per “fare cassa” in un momento di bisogno, ma credo non si sia mai colto nè apprezzato lo spirito che ne sta alla base: da noi pare che la parola concorrenza sia invisa all’intera classe politica, ma Einaudi non ha lasciato proprio alcuna traccia?

  4. roberto colcerasa

    Ancora una volta, la qualità elevata del contributo stride con la bassezza e grossolanità di alcuni comportamenti che, negli anni, hanno evidenziato i problemi e reso immaginabile il tonfo finale.
    Non occorre essere raffinati analisti per vedere che dopo la “privatizzazione” di telecom, le gestioni che si sono succedute hanno operato con intenti predatori e non industriali; possiamo oggi dire che sia da smentire l’idea che l’iri, la stet, e tutto quel mondo di furbi boiardi fosse il peggio che il paese poteva esprimere in quanto a scuole di management; après l’iri, le déluge.
    Quanto a telecom, chiunque conosca, a Roma o a Milano, qualcuno che ci lavora, sa che da anni tutto ruota attorno al business immobiliare (pirelli re, che ha “ereditato” patrimoni cospicui di ex area pubblica, “valorizzati” dallo Stato), attorno al boom italico della telefonia mobile, attorno all’estetica dei giovani consulenti in giacchetta blu e cravattona d’ordinanza che parlano di cose che non conoscono usando parole inglesi che non sanno pronunciare.
    Barca a portofino, mogli politically correct e tifo per una squadra di calcio eternamente perdente compiono un quadro degno dell’isola dei famosi; last but not least agganci strani con il mondo sempre grottesco degli spioni di stato…
    Non so se il problema della policy sia davvero il primo sul quale concentrare la vostra (e nostra) nobile attenzione.

  5. Michele

    Eccellente base di riflessione, anche per elaborare, volendolo, la policy della quale alla fine si lamenta coerentemente (e candidamente?..) l’assenza. Non mi sembra difficilissimo disegnarla (magari usando, appunto, la stessa nota come traccia). Il difficile, se mai, sarebbe passare all’attuazione.
    In breve: l’opzione per la separazione della rete (e delle reti), alla quale pochi sembrano veramente contrari, si presenta un buon inizio, se non altro perché semplice e chiara. A condizione però di non dimenticare la questione dei controlli, beninteso su tutte le componenti del servizio: tutte, dalla rete in avanti. Controlli che però, per essere credibili e funzionare, dovrebbero necessariamente far capo ad un’Autorità davvero indipendente. Ecco qui l’essenziale profilo istituzionale. Per la politica, il controllo non è vigilanza, ma controllo in senso pieno, pervasivo, penetrante, effettivo. E in quanto tale è inconcepibile che giaccia fuori della propria cerchia (pensiamo alla RAI). Perciò le Autorità non possono essere davvero indipendenti. Sui molti e fantatsiosi modi per metterle in condizione di non nuocere, ormai sappiamo quasi tutto. Le imprese, pubbliche, private, semipubbliche o semialtro, vigilate o meno, lo sanno, e tengono ben aperti nei due sensi i canali di comunicazioine con la “vera” politica. Dopo tutto. ci sono sempre i giornali, non a caso concupiti da tanti, pronti a funzionare da specchi deformanti, più o meno consapevolmente.
    Come uscirne?
    Alle grandi imprese servirebbero più capitali e meno debiti. E alla politica più policy e meno poitics! Purtroppo non solo nelle TLC, e non certo da oggi.
    Ma il passaggio da più ceti dominanti ad un ceto dirigente non è problema di breve periodo, ahimé…

  6. Marco Solferini

    Premesso che circa le osservazioni inerenti alla Cassa depositi e prestiti, correttamente esposte dall’Autore, mi trovo concorde, sopratutto nel modo conciso con il quale sono esposte: sintetico che però non sminuisce il problema a monte. A titolo personale ho da poco assistito a un bel forum sulla Corporate Governance in Roma cui partecipavano alcuni studi legali c.d. law firm di medie o grandi proporzioni, uno degli argomenti sviluppatisi, fra l’altro riguardava il project financing. Domandai se a qualcuno ne risultasse uno sviluppato dalla CdP, mi hanno fatto osservare che mentre un istituto analogo in Francia li realizza in Italia ancora “pare” non sia successo. Il mio quesito per l’Autore è: crede sia conciliabile un attività di project financing della CdP, con l’attività di acquisto di partecipazione in società (eventualmente in situazione finanziaria difficoltosa)?

    • La redazione

      Penso che, per valutare le possibili attività ordinarie della nuova Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), si debba distinguere il piano giuridico da quello economico. Sotto il profilo giuridico, nulla osta al fatto che la Cdp intervenga nel finanziamento delle infrastrutture e che, in questa veste, sviluppi attività di project financing. Anche sotto il profilo economico, mi sembrerebbe un’ottima idea disporre di una leva pubblica per avviare un processo di modernizzazione infrastrutturale del paese. In quanto esterna al perimetro della Pubblica amministrazione, la Cdp avrebbe molti vantaggi nel costituire tale leva; e, in quest’ottica, essa dovrebbe diventare un attore del project financing. Non bisogna però attribuire alla Cdp un insieme di
      compiti tanto vasto da indurre distorsioni del mercato, inefficienze e conflitti di interesse.
      Oggi l’attività ordinaria della Cdp non è quella di finanziare
      infrastrutture ma di fungere di holding di partecipazione. Si tratta di una funzione che altera l’efficiente funzionamento del mercato perché dà luogo a privatizzazioni formali ma non
      sostanziali. In ogni caso, anche per rispettare i vincoli finanziari della Cdp, questa funzione non può essere sommata a quella di sostegno delle infrastrutture.
      Insomma: perché si possa efficacemente impegnare nel finanziamento delle infrastrutture e nel project financing, la Cdp deve avere questa come attività ben definita.

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