La decisione di due agenzie di rating di declassare il debito italiano conferma la gravità della situazione dei conti pubblici. E quindi l’impossibilità di “alleggerire” la Finanziaria, come invece chiesto da alcuni in virtù dell’andamento del fabbisogno del settore statale e della dinamica delle entrate. Quanto alle critiche sulle caratteristiche degli interventi, forse si poteva fare di meglio, in particolare nell’equilibrio fra misure di spesa e di entrata. Ma non bisogna dimenticare il carattere strutturale della manovra, a partire dal calo del disavanzo.

La decisione di Standard&Poor’s e di Fitch di declassare il debito italiano non era inattesa, ma nondimeno è un campanello di allarme per tutta la politica economica. Nelle ultime settimane, soprattutto dopo la presentazione del disegno di legge Finanziaria, si sono moltiplicate le voci critiche secondo cui l’esecutivo avrebbe fin dall’inizio esagerato la gravità della situazione dei conti pubblici. Si sosteneva che sia l’andamento del fabbisogno del settore statale, in forte calo rispetto al 2005, sia la dinamica delle entrate nei primi otto mesi del 2006 avevano evidenziato una situazione assai più favorevole della finanza pubblica. Non solo gli allarmismi iniziali erano quindi ingiustificati, ma diventava possibile, e al limite auspicabile, alleggerire la portata della manovra di correzione del disavanzo.

PREOCCUPAZIONI GIUSTIFICATE DAI DATI

Una lettura meno frettolosa dei dati conduce a conclusioni assai diverse.
Consideriamo innanzitutto il fabbisogno. È vero che nei primi otto mesi dell’anno quello del settore statale è diminuito di ben 22 miliardi. Ma nello stesso periodo il miglioramento del fabbisogno delle amministrazioni pubbliche, un aggregato più ampio (include anche le amministrazioni locali) e assai più significativo, è pari a soli 13 miliardi. Come ricordava il governatore della Banca d’Italia nella sua recente audizione, "gli andamenti fin qui registrati dal fabbisogno finanziario appaiono sostanzialmente coerenti con le previsioni del governo per l’indebitamento netto". Né l’aumento delle entrate nei primi mesi dell’anno giustifica facili ottimismi. È vero anche che, rispetto alla Relazione trimestrale di cassa predisposta nel mese di marzo, l’aumento delle entrate previsto per tutto il 2006 è pari a più di 18 miliardi. Già però la ricognizione sui conti pubblici di inizio giugno aveva rivisto al rialzo la stima sulle entrate per l’anno in corso. Analogamente, sulla base dei dati resisi via via disponibili, sia il Dpef sia la Nota di aggiornamento hanno ulteriormente migliorato tale stima rispettivamente al 6,4 e al 7,1 per cento rispetto al 4,0 per cento della Relazione trimestrale di cassa, redatta dal precedente esecutivo. Rimane però il fatto che dei 18 miliardi di maggiori entrate previste, quasi quattro sono ascrivibili alle misure varate dall’esecutivo in luglio; altri tre al miglioramento del quadro macroeconomico; altri cinque, infine, al gettito superiore alle attese di una serie di misure temporanee introdotte (e stimate) dal precedente esecutivo. Rimangono quindi solo circa sei miliardi di "vere" risorse aggiuntive, già portate peraltro ad alleggerimento della manovra finanziaria per l’anno successivo.
Ad avvalorare le preoccupazioni sulla situazione dei conti pubblici contribuiscono anche i dati diffusi due settimane fa dall’Istat relativi ai primi sei mesi del 2006. Emergono due elementi. In primo luogo, la spesa primaria corrente ha continuato a crescere in termini tendenziali a tassi insostenibili (+5,7 per cento). In secondo luogo, le spese per investimenti registrano un forte calo (-3 per cento in termini nominali). Sia la ricognizione sui conti pubblici sia il Dpef avevano già messo in luce come alcune voci di spesa corrente, in particolare la spesa sanitaria e quella degli enti locali, crescessero a tassi assai superiori rispetto a quanto previsto dalla Relazione trimestrale di cassa e avevano sottolineato il rischio di una contrazione eccessiva, e al limite insostenibile, della spesa per investimenti.
Infine, anche gli andamenti dei saldi confermano le difficoltà del quadro di finanza pubblica. In assenza di interventi, il disavanzo nel 2007 si sarebbe situato al 4,3 per cento del Pil, l’avanzo primario sarebbe stato prossimo allo zero e, per il terzo anno consecutivo, il debito sarebbe risultato in forte crescita. Le misure correttive adottate prima a luglio e poi a settembre con la legge Finanziaria, ammontano nel complesso all’1,5 per cento del Pil, anche escludendo le misure di compensazione per gli effetti della sentenza sull’Iva, e consentono di riportare il disavanzo nell’ambito dei parametri europei e di invertire, dopo tre anni, la dinamica del debito.

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IL RISANAMENTO NON E’ CONCLUSO

Una manovra correttiva di queste dimensioni era quindi indispensabile. Le decisioni delle agenzie di rating confermano che la situazione dei conti pubblici era invero preoccupante e, al contempo, mettono ben in luce come il processo di risanamento dei conti pubblici non sia concluso. Non esistono quindi le condizioni per alleggerire la manovra finanziaria e va evitato qualsiasi cedimento in questa direzione.
Le critiche di S&P si appuntano anche sulle caratteristiche della manovra e riprendono molti dei rilievi già formulati anche su questo sito. Si poteva fare meglio? Chi scrive non è osservatore totalmente neutrale, ma la risposta è: probabilmente sì, in particolare nell’equilibrio fra misure di spesa e di entrata.
Rimane però il fatto che la manovra ha carattere strutturale. In primo luogo, il rientro dal disavanzo non è temporaneo. L’impatto crescente delle riduzioni di spesa previste nella legge Finanziaria dovrebbe permettere di ridurre il prelievo fiscale gradualmente nei prossimi anni (la riduzione del cuneo fiscale andrà a regime già dal 2008 con perlomeno due miliardi di sgravi ulteriori per le imprese) e nel contempo consentire all’indebitamento netto di collocarsi stabilmente al di sotto del 3 per cento, anche in assenza di nuovi interventi.
Soprattutto, il calo del disavanzo non è affidato a misure impercorribili e insostenibili da un punto di vista economico e sociale, come l’azzeramento dei fondi per interi capitoli di spesa in conto capitale. Che la manovra di risanamento incidesse inizialmente soprattutto dal lato delle entrate era probabilmente inevitabile. È già successo nel passato. La pressione fiscale aumentò nel 1993 di ben due punti e mezzo rispetto al 1991. Nel 1997, l’aumento fu di più di due punti rispetto all’anno precedente. In entrambi i casi, però, il rapporto fra entrate fiscali ritornò rapidamente su livelli meno patologici.
Il verdetto sulla qualità della politica economica non può essere dunque definitivo.

* Membro della redazione in aspettativa, attualmente consigliere presso il Ministero dell’Economia

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