Il downgrading del debito ormai è archiviato e non avrà effetti pratici rilevanti. Ma ci ha fornito due lezioni. Primo, quando si parla di disavanzo non conta solo il “quanto”, ma anche il “come”. Secondo, “stabilizzare” il debito può essere un’espressione utile nell’arena politica, ma da un punto di vista finanziario e macroeconomico ciò che conta è il segnale sulla direzione futura. E un cambiamento di mezzo punto percentuale non ne fornisce alcuno. Considerata la storia recente della nostra politica economica, equivale a un pessimo segnale.

Nelle motivazioni del downgrading del debito, ci sono tutti i problemi che tutti conosciamo dell’economia italiana, e tutte le critiche che abbiamo sentito alla Finanziaria: i problemi strutturali irrisolti, la bassa crescita della produttività, l’alto debito pubblico, una manovra tutta sulle entrate e con tante poste di dubbia realizzazione.
Quale è dunque il “valore aggiunto” del downgrading?

Informazioni note

1) Innanzitutto è importante chiedersi quale sia il valore di questi ratings. Molti hanno osservato che il downgrading era stato ampiamente anticipato e già incorporato nei tassi di interesse, che infatti non si sono mossi . Ciò non è esatto: il nesso causale è improprio. I tassi di interesse non si sono mossi perchè il downgrading rifletteva a sua volta informazioni che erano alla portata di tutto il mercato, e che il mercato aveva già incorporato. Non tutti gli investitori istituzionali sono in grado o hanno le risorse per spulciare e interpretare i bilanci e i reports di Sony o di Chrysler, e per captare e interpretare i rumors che le riguardano. Nel caso di aziende private le agenzie di rating hanno dunque una funzione non facilmente sostituibile. Ma nel caso di un paese come l’Italia, giornalmente vivisezionato da decine di commentatori in Italia e all’estero, non c’è alcuna informazione che Standard&Poor’s o Fitch possano rivelare al mercato che una persona di media cultura economica non possa ottenere e interpretare da sola. Non c’è niente nel report di Standard & Poor’s che accompagna il downgrading che non sia stato detto decine di volte – e non in riviste specializzate, ma sui quotidiani italiani. Non ci sono equazioni ed algoritmi arcani dietro le decisioni delle agenzie di rating, ma solo numeri disponibili a tutti e interpretazioni di umanissimi country desk economist.

Il rischio degli equilibri multipli

2) Perché dunque può essere importante il downgrading? Con Basilea 2 il rating di un titolo può avere effetti su come esso viene trattato in bilancio, e quindi può influenzare le scelte di allocazioni di portafogli di certi investitori. Ma non siamo ancora arrivati a livelli di ratings che comportino questo tipo di rischi.
Il rating delle agenzie può fungere da catalizzatore delle miriadi di agenti operanti su un mercato. Il debito pubblico è soggetto al rischio degli equilibri multipli. Io posso non avere una cattiva opinione del debito italiano, ma se penso che tutti gli altri agenti l’abbiano, venderò i titoli che posseggo se tutti la pensano così, il risultato è un equilibrio cattivo in cui tutti vendono, una crisi del debito. Ma se tutti pensano che tutti gli altri abbiano una buona opinione, allora il mercato convergerà su un buon equilibrio, in cui tutti sono perfettamente contenti di continuare a detenere il debito italiano. Teoricamente, il downgrading potrebbe essere la causa prossima scatenante di una crisi di fiducia e di liquidità nei titoli di un paese sovrano, convincendo gli operatori dei mercati finanziari che gli altri operatori siano diventati più pessimisti, e quindi scatenando un equilibrio cattivo. Ovviamente questo problema sussiste però solo in situazioni scabrose, ad alti livelli del debito o con timori fondati di insolvenza: il problema degli equilibri multipli non si pone certo per il debito svizzero. Ma è molto improbabile che si applichi anche al caso italiano, almeno per adesso. Nessuno pensa che l’Italia corra rischi di insolvenza a breve termine.

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Lo scostamento tra aspettative e realtà

3) A questi livelli (lontani, cioè, dalla soglia di rischio) il downgrading del debito di un paese sovrano è quindi un evento essenzialmente mediatico. Questo non significa che il governo abbia ragione quando sostiene che il downgrading è semplicemente una conseguenza ritardata delle politiche del governo precedente. Ciò che è avvenuto è a mio avviso molto semplice: il governo è stato punito per lo scostamento fra le aspettative che aveva generato e la realtà che ha realizzato. Per la prima volta nella storia della Repubblica, il governo precedente aveva avuto 5 anni (ed una coalizione abbastanza coesa) per fare qualcosa ai conti pubblici; tutto quello che era riuscito a fare era invece un po’ di condoni e aumentare la spesa corrente del 2 per cento del Pil. Non era difficile fare meglio; questo governo è riuscito nella difficile impresa di non riuscirci.
Si può obiettare che, dopo tutto, il governo è almeno riuscito (forse) a diminuire il disavanzo sotto il 3 per cento del Pil e a stabilizzare il rapporto debito/Pil; e si può anche obiettare che dopo 4 mesi di governo era obiettivamente difficile fare di più. Ma questa obiezione cela una profonda incomprensione del funzionamento dei mercati finanziari.
L’argomento della stabilizzazione del debito è irrilevante perché gioca con le grandezze. Nell’ultimo anno del precedente governo, il rapporto debito/Pil aveva semplicemente smesso di scendere ai ritmi già blandi degli anni precedenti, ed era aumentato di pochi decimi di punto percentuale. Da queste premesse, stabilizzarlo non significa un granché. Come ha illustrato il desk economist di Standard and Poor’s Moritz Kraemer sul Sole 24 Ore di giovedì 19 ottobre, quando un paese ha un rapporto debito/Pil di quasi il 110 per cento, è perfettamente irrilevante che esso aumenti o diminuisca dello 0.5 percento, o rimanga costante. Ciò che i mercati vogliono vedere è un cambiamento di tendenza deciso, tutto il resto non ha importanza.
E il miglior segnale di un cambiamento di tendenza è ridurre le spese. Per ridurre il rapporto debito/Pil, si può sperare in un provvido e consistente aumento della crescita, o in un improvvido e consistente aumento dell’inflazione: entrambi non sono però nelle carte. Rimane un aumento duraturo del surplus primario di bilancio: per farlo, si deve aumentare le tasse o diminuire le spese. Parecchi studi empirici hanno mostrato che solo tagli alle spese conducono ad aumenti sostenibili nel tempo dei surplus di bilancio. Questa Finanziaria ha aumentato le tasse e le spese, le prime più delle seconde: non un buon segnale sui disavanzi futuri.
Non solo, ma si può sostenere che ciò che conta nel valutare una politica fiscale è il flusso futuro delle spese (tecnicamente: il valore atteso delle spese future) perché questo dice quale sia il flusso (valore atteso) delle entrate future che dovranno essere ottenute per pagare le spese. Anche in questo senso la Finanziaria ha ovviamente fornito un pessimo segnale.
Il downgrading ormai è alle spalle e non avrà effetti pratici rilevanti. Ma esso ci ha fornito due lezioni. Primo, quando si parla di disavanzo non conta solo il quanto, ma anche il come. Secondo, per valutare il cammino del debito il quanto è importante: “stabilizzare” il debito può essere un’espressione utile nell’arena politica, ma da un punto di vista finanziario e macroeconomico ciò che conta è il segnale sulla direzione futura: e un cambiamento di mezzo punto percentuale non fornisce alcun segnale. Ma data la storia recente della nostra politica economica, nessun segnale è un pessimo segnale.

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