Sky fattura quasi il 25 per cento delle risorse televisive nazionali. Nell’offerta a pagamento, dove è monopolista, cresce con tassi tre-quattro volte superiori a quelli della pubblicità, per non parlare del canone. E l’Italia è stata negli ultimi anni uno dei mercati più dinamici e innovativi in Europa. Ma il disegno di legge Gentiloni non se ne occupa. Duopolio e distorsioni del mercato pubblicitario televisivo rimangono la causa di tutti i problemi di pluralismo. Da risolvere con un limite ex ante che non esiste in nessuna normativa europea.

Le discussioni e le polemiche politiche di queste settimane sul disegno di legge Gentiloni hanno contribuito a confondere ancor più le idee a chi non abbia, su questi temi, una posizione preconcetta.

A una prima lettura del testo, le grandi questioni che emergono riguardano soprattutto alcuni aspetti: sviluppare il digitale (terrestre) in Italia è una prospettiva positiva, da perseguire con slancio per favorire una rapida transizione, o una punizione verso i broadcaster analogici, per scontare il loro essere dominanti attraverso quello che Franco Debenedetti definisce “il trasferimento forzoso” di due reti sul digitale? (1) Le risorse realmente scarse sono le frequenze o i contenuti? Le norme asimmetriche in capo a Telecom Italia favoriscono l’ingresso di nuovi soggetti e la concorrenza tra piattaforme o avvantaggiano un solo operatore lineare, magari a pagamento?

Più che entrare nel merito di queste questioni, certamente centrali, ma che temo non consentano di trovare un terreno comune di confronto, preferisco qui concentrarmi su un paio di punti che non emergono dalla lettura del disegno di legge e la cui assenza a mio avviso rappresenta proprio il buco nero dell’intervento del governo in materia.

 

Il caso Sky

 

Verso la fine dell’estate è esploso il caso Telecom Italia-Sky. L’ipotesi che il primo operatore di telecomunicazioni italiano potesse ridefinire la sua strategia e la sua natura (la media company) attraverso un accordo con un operatore di Tv a pagamento sarebbe sembrata del tutto folle al lettore del disegno di legge Gentiloni. Eppure, ha provocato molti mal di pancia, la richiesta, mai smentita da parte del governo, che la società rimanesse nelle mani della Telecom e via via tutta una serie di conseguenze che sono ormai sotto gli occhi di tutti. Così, sotto gli ombrelloni, molti di noi si sono accorti della presenza di un terzo attore televisivo e dell’importanza di Sky nel contesto italiano.

In verità, questa presenza è stata per molto tempo taciuta e sottovalutata proprio perché ingombrante e in contraddizione con il politically correct dell’arretratezza e staticità del duopolio. Ebbene, già lo scorso anno Sky Italia fatturava quasi il 25 per cento delle risorse televisive nazionali, cresceva a un ritmo del 15 per cento annuo e soprattutto in un settore, dove era e rimane monopolista, quello dell’offerta a pagamento, con tassi tre-quattro volte superiori alla pubblicità, per non parlare del canone, bloccato ormai da anni, terreni tradizionalmente di conquista di Mediaset e Rai. A questi ritmi, Sky raggiungerà e supererà i cosiddetti duopolisti entro tre anni.

Insomma, negli ultimi tempi, la situazione è radicalmente cambiata, e quello che per oltre venti anni ha rappresentato una sorta di rendita del duopolio (90 per cento delle risorse del sistema), è ora diventato un mercato a tre, dove il terzo cresce più dei primi due. Ma senza che ciò produca la necessaria riflessione critica e se ne traggano, sul piano normativo, le dovute conseguenze, confondendo in questo caso, come ricorda Franco Debenedetti, le problematiche politiche del conflitto d’interessi mai risolto, con quelle del mercato televisivo.

 

Italiani innovativi

 

L’altro nodo centrale che non si coglie nel disegno di legge Gentiloni è relativo al fatto che l’Italia, sempre negli ultimi anni, sia stato uno dei mercati più dinamici e innovativi esistenti in Europa. Siamo stati i primi a offrire la tv digitale via satellite (Telepiù) e la Tv su protocollo Ip (Fastweb) e più recentemente la pay-per-view con carte pre-pagate di Mediaset e La7 sul digitale terrestre, e la Tv mobile in modalità Dvbh (3 Italia). In più, questo mercato, che pare necessitare di una regolazione così invasiva, cresce a un tasso annuo di oltre il 7 per cento, laddove la Tv a pagamento cresce di oltre il 15 per cento, mentre pubblicità e canone rimangono sostanzialmente stabili o appena sopra e sotto il tasso d’inflazione.

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La Tv del Ddl

 

Dal testo del disegno di legge Gentiloni che cosa si ricava invece? Che in Italia esiste un duopolio, che il duopolio per oltre quindici anni ha impedito ad altri soggetti di crescere, anche perché non è stato mai soggetto alle necessarie limitazioni in favore del pluralismo. E che questa situazione dipende in massima parte dalle distorsioni presenti nel mercato pubblicitario (che è quello che cresce meno). Ne consegue che il meccanismo più corretto è definire un limite ex ante delle risorse pubblicitarie che vale solo per uno dei mercati in questione, quello pubblicitario appunto. Nel definire tale limite, e gli obblighi che da ciò deriveranno per l’operatore dominante, si aprirà il mercato e ci si avvicinerà di più all’Europa, rispondendo alle richieste che proprio da quella sede provengono.

Il nostro avvertito lettore a questo punto comincerà a porsi giustamente alcune domande: perché la distorsione del mercato e la minaccia al pluralismo dipendono solo dalla pubblicità televisiva, che è quella che cresce meno? Perché deve esistere un limite (45 per cento) solo per un settore specifico del mercato della comunicazione (l’ex Sic) e dunque in sostanza per un unico operatore? Perché per avvicinarci all’Europa dobbiamo inventarci un limite ex ante che non esiste in alcuna normativa europea, tanto è vero che in Francia e nel Regno Unito questo limite viene abbondantemente superato dal principale operatore (Tf1 e Itv1)?

Rispondere a questi interrogativi, portando alla luce le ragioni di alcune sottovalutazioni o “rumorosi silenzi”, aiuterebbe tutti noi a meglio capire la ratio vera che sta alla base del disegno di legge, favorendo un dibattito sereno e meditato (il disegno non è ancora legge e può essere modificato in meglio), evitando contrapposizioni ideologiche e toni talvolta eccessivi da scontro di civiltà.

 

 

(1) Il Sole24Ore, 31 ottobre.

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