Il numero di richieste di autorizzazione all’assunzione per chiamata dall’estero e le modalità con cui sono state presentate mostrano come la ricerca di lavoro sul posto sia l’unica possibilità effettiva di accedere all’occupazione. L’autosponsorizzazione suscita dubbi che non appaiono fondati. I controlli sugli ingressi e sull’esito della ricerca di lavoro sarebbero molto simili a quelli oggi attuati in casi analoghi. Anzi, per molti aspetti, la proposta rappresenta un sicuro miglioramento della normativa vigente.

È in corso un dibattito molto serrato sui contenuti che la riforma della normativa sull’immigrazione dovrebbe avere. In particolare, si discute se sia il caso, come proposto dal ministro Ferrero, di prevedere la possibilità che lavoratori immigrati entrino in Italia in cerca di occupazione, a condizione di dimostrare la disponibilità di una “dote” sufficiente al proprio sostentamento:la cosiddetta autosponsorizzazione. Contrari alla proposta sono, con sfumature diverse, il ministro Amato e Confindustria. Nel primo caso, la contrarietà è fondata sul rischio che siano le organizzazioni criminali a fornire di dote immigrati da sfruttare o da avviare alla prostituzione. Nel secondo, sul timore che questa forma di accesso risulti sostanzialmente sottratta ai controlli in fase di ingresso (con danno per la sicurezza dei cittadini) e costituisca un aggravio per la macchina amministrativa chiamata a verificare che lo straniero abbia effettivamente trovato lavoro nel tempo concessogli.
Provo allora a mettere sul tavolo alcuni elementi a sostegno dell’idea che, pur non essendo esente da rischi, l’introduzione del meccanismo dell’autosponsorizzazione rappresenterebbe un sicuro miglioramento della normativa vigente.

La finzione delle chiamate dall’estero

Il dato sulle richieste di autorizzazione all’assunzione per chiamata dall’estero (520mila) e le modalità con cui sono state presentate (immigrati irregolari in fila alle poste, anziché in attesa nel proprio paese) mostrano come la ricerca di lavoro sul posto sia l’unica possibilità effettiva di accedere all’occupazione, a dispetto di quanto stabilito oggi dalla legge. L’ingresso per chiamata da parte di un datore di lavoro è – lo dicono ormai tutti – una finzione: nessuno, compresi Giuliano Amato e i soci di Confindustria, assumerebbe un operaio o una badante mai visti prima. Anche l’ingresso di lavoratori formati preventivamente all’estero rischia di esserlo. La legge già lo consente, ma l’utilizzazione di questo canale resta evanescente. Perché? Perché formare lavoratori all’estero ha un costo, che dovrebbe essere sostenuto dai fruitori della futura prestazione lavorativa. Per le famiglie che vogliono assumere una colf o una badante, è improponibile. Per le imprese, è teoricamente possibile, ma poco o nulla si è mosso finora. Forse le imprese sperano che a pagare sia lo Stato (ossia il contribuente).

La sicurezza

L’ingresso per autosponsorizzazione non sarebbe sottratto ai controlli, che sarebbero anzi molto simili a quelli già oggi attuati per gli ingressi per turismo: lo straniero dovrebbe comunque chiedere un visto di ingresso e sottoporsi alla verifica dei requisiti prescritti. E, stando ai 520mila in coda alle poste, il numero di richieste di visto per autosponsorizzazione non sarebbe molto diverso da quello delle richieste di visto per turismo accolte ogni anno.
Come accade nell’ingresso per turismo, il visto per autosponsorizzazione sarebbe negato nei casi in cui il richiedente sia identificato come pericoloso per la sicurezza dello Stato o sia stato condannato per reati di un certo rilievo. Se questo è sufficiente per garantire la nostra sicurezza rispetto ai turisti non si vede perché non debba esserlo rispetto ai cercatori di lavoro. Se invece non è sufficiente, allora bisognerebbe adottare misure più restrittive anche per i turisti. Su questo punto Confindustria potrebbe darci una risposta dopo essersi consultata con Federalberghi.
In ogni caso, diversamente dal caso dei turisti, agli stranieri che chiedono di fare ingresso per autosponsorizzazione potrebbero/dovrebbero essere rilevate le impronte digitali all’atto della richiesta di visto. Questo sarebbe uno strumento in più per difendersi dal rischio di ingresso di stranieri già segnalati, con altre identità, come pericolosi per la sicurezza pubblica.

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Il controllo sull’esito della ricerca di lavoro

Già oggi, il lavoratore regolare che perda il posto di lavoro ha un tempo limitato per cercarne un altro: da un minimo di sei mesi a un massimo pari alla durata residua del permesso di soggiorno. Il problema della verifica, ai fini del prolungamento del soggiorno legale, dell’esito della ricerca di nuova occupazione si pone esattamente negli stessi termini. L’introduzione dell’autosponsorizzazione non indurrebbe quindi alcuna falla nell’ordinamento. In entrambi i casi, si tratta di persone che hanno depositato le impronte digitali e delle quali la questura conserva copia del passaporto. Alla prima intercettazione da parte della polizia si potrà facilmente verificare se la loro condizione di soggiorno sia legale. Ove non lo sia, il rimpatrio di persone pienamente identificate non presenta difficoltà alcuna. Potrebbe presentare dei costi? Per il lavoratore rimasto disoccupato, no, con l’attuale normativa: le spese sono coperte dal datore di lavoro che ha stipulato con lui il contratto di soggiorno. Ma i costi potrebbero essere evitati anche nel caso di lavoratore in cerca del primo lavoro: basterebbe prevedere il deposito preventivo in un apposito fondo, da parte di chi si autosponsorizzi, di una somma atta a coprire le spese di rimpatrio.
Una libertà molto più ampia di ricerca di lavoro sul posto (priva di sponsor e di dote) è già prevista per i neocomunitari, a dispetto di qualunque misura che ne limiti transitoriamente la possibilità di effettivo accesso all’occupazione. Un paio di anni fa la cosa ha riguardato, senza che l’Italia crollasse, i polacchi. Tra meno di un mese riguarderà i rumeni. La comunità rumena detiene oggi, assieme a molti meriti, il primato in fatto di tasso di presenza illegale e di condanne penali. Se ci sono – e ci sono – ottime ragioni per consentire l’ingresso nell’Unione Europea ai rumeni, con la libertà di movimento e di ricerca di lavoro che ne consegue, non si vede perché si debba temere che una attività di ricerca di lavoro assai più controllata da parte di lavoratori di altre nazionalità costituisca una minaccia per il paese.
L’ingresso per autosponsorizzazione potrebbe essere introdotto mantenendo, in via prudenziale, il vincolo delle quote (con l’indicazione nel decreto flussi di uno specifico tetto) e, se occorre, lasciando che sia la programmazione annuale a determinare l’ammontare delle risorse richieste (la dote) e le modalità con cui ne va dimostrata la disponibilità (ad esempio: l’avvenuto versamento della somma in un conto opportunamente vincolato). Il governo potrebbe allora cominciare a utilizzare questo canale con un approccio sperimentale: una piccola quota di autosponsorizzati da seguire, nel loro percorso di ricerca di lavoro, con un attento monitoraggio. In caso di successo dell’esperimento, potrebbe via via ampliare la quota o rilassare i criteri. Ma potrebbe anche, successivamente, adottare una linea più restrittiva se questo fosse richiesto dalle circostanze. Senza dovere, per questo, ricorrere all’ennesima riforma legislativa.

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Senza l’autosponsorizzazione

In assenza di un canale di ingresso per autosponsorizzazione e in attesa che Confindustria organizzi i famosi corsi di formazione all’estero, allo straniero che aspiri a migrare in Italia non resterebbe che aspettare nel proprio paese una chiamata da parte di un datore di lavoro o di uno sponsor (privato o istituzionale che sia) qui residenti . Trascorso senza risultati qualche anno, lo straniero capirebbe che la chiamata non arriverà mai, a meno di non venirsela a conquistare, nell’illegalità. Farebbe allora quello che i lavoratori stranieri hanno fatto finora: tenterebbe di inserirsi nel nostro mercato del lavoro da clandestino o da overstayer. Lo farebbe senza che per lui si apra un file in questura con impronte e passaporto, senza che alcuno si preoccupi di sapere se si è inserito (in nero) nel mercato del lavoro o se, invece, ha finito per inserirsi in attività criminali o, come nel caso prospettato da Amato, ne è diventato vittima. Nel primo caso (lavoro nero), lo straniero tenterebbe di emergere alla prima sanatoria utile o al primo decreto flussi sufficientemente ampio, contribuendo però, nell’attesa, a perturbare in modo non trascurabile il corretto andamento del mercato. Nel secondo caso (attività criminale), cercherebbe, con successo scontato, di nascondersi, con la minoranza degli invisibili pericolosi, nella maggioranza degli invisibili non pericolosi. Nel terzo (vittima), le possibilità, già remote, di trovare tutela nella giustizia italiana sarebbero ulteriormente limitate dal timore di finire espulso.

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