Tre reazioni alla interessante proposta di Tito Boeri di sfruttare i tempi lunghi della formazione del nuovo Governo per definire sin da subito il programma dell’esecutivo, non escludendo un dialogo con l’opposizione su alcune priorità condivise.

La situazione di finanza pubblica

Le previsioni di febbraio della Commissione europea e quelle più recenti del Fondo monetario internazionale confermano la necessità di un importante aggiustamento sui conti 2007 (dunque nella Finanziaria di ottobre), in quanto il deficit stimato per quell’anno, a bocce ferme, è del 4,6 per cento (stima Eurostat). Il punto chiave, ovviamente, è la dimensione di tale aggiustamento. Dobbiamo o no impegnarci a rispettare il vincolo europeo concordato nel 2005 dal precedente Governo di un rapporto deficit/Pil non superiore al 3 per cento nel 2007? (1) O meglio, possiamo permetterci di non rispettare tale vincolo?
A questo proposito il paragrafo 1.4 del nuovo accordo sul Patto di Stabilità, ricordato nel contributo qui sopra di Andrea Montanino propone sì che un Governo di fresca nomina stili un nuovo “Programma di stabilità di legislatura”, ma, continua il testo, “mostrando continuità rispetto agli obiettivi di bilancio approvati dal Consiglio“, cioè 3,6 per cento nel 2006 e 3 per cento nel 2007. Ne consegue che il nuovo Governo dovrà sin da subito avviare contatti, magari già attraverso il candidato ministro dell’Economia, con Commissione e Consiglio per capire i margini negoziali di cui si dispone, ed impostare correttamente il Dpef. Il rischio che si corre, altrimenti, in una situazione di tassi di interesse in aumento e debito pubblico in crescita, è quello di mandare segnali negativi alle agenzie di rating internazionali, con conseguenze di potenziale instabilità per la finanza pubblica.

Il rilancio della competitività

Una seconda priorità di politica economica riguarda invece l’impostazione complessiva del rilancio della competitività per il sistema paese. Vari contributi (per esempio, quelli di Francesco Daveri ) hanno ormai chiarito che il principale problema è quello di contrastare il preoccupante calo di produttività (misurata come output per ora lavorata) che da ormai qualche anno caratterizza l’economia italiana. Rispetto a questa esigenza, occorre nel breve periodo fare due scelte fondamentali, una di politica industriale, l’altra relativa al mercato del lavoro. Per quanto riguarda la politica industriale, l’impostazione che sembra emergere è quella di concentrare i fondi di ricerca e sviluppo in pochi settori strategici (da individuare) e aiutare da subito le imprese a innovare per contrastare il calo di produttività, attraverso vari strumenti, tra cui la riduzione del cuneo fiscale. Tuttavia, privilegiare alcuni settori “di punta”, dove la competitività si fonda su una maggiore innovazione tecnologica, potrebbe rischiare di distogliere le energie da altri settori “tradizionali” (alimentare, moda, design, arredamento), dove il capitale umano e la competitività sono basate non tanto sull’innovazione, quanto piuttosto sull’accumulazione di conoscenze a carattere spesso artigianale. Occorre dunque evitare scelte che rischino di “spiazzare” tali settori, che hanno invece ancora molte potenzialità se sapranno operare una variazione del mix di prodotti verso le fasce elevate di domanda, in forte espansione grazie alla crescita dei consumatori ad alto reddito nei paesi emergenti.

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Il mercato del lavoro

Infine, occorre salvaguardare le esperienze positive della legge Biagi. Occorre ricordare che la produttività aggregata di un paese è calcolata come una media ponderata, in cui le singole osservazioni derivano dalla produttività delle singole imprese, pesate per la loro quota di mercato o occupazionale. La produttività aggregata potrebbe dunque crescere in corrispondenza di un’innovazione tecnologica che renda tutte le imprese mediamente più produttive (produttività “strutturale”, o media semplice); o potrebbe crescere anche in assenza di innovazione, o addirittura con tecnologia che diventa obsoleta, per effetto di una riallocazione di forza lavoro intra-settoriale (i pesi della media) che vada a premiare con maggiori quote occupazionali le imprese più produttive del settore. Le moderne tecniche di analisi microeconometrica consentono di decomporre in tale senso la produttività aggregata identificando dunque le fonti della variazione. (2)
Facendo questo esercizio per un campione rappresentativo (non bilanciato, per tenere conto delle dinamiche di entrata ed uscita) di circa 50mila imprese manifatturiere italiane per il periodo 1996-2003, si nota che nei primi anni del campione la produttività strutturale tende a crescere, ma l’allocazione del lavoro penalizza le imprese più efficienti, deprimendo quindi la dinamica di produttività aggregata. A partire dal 2001, tuttavia, dopo le riforme del mercato del lavoro si denota in Italia un miglioramento nell’efficienza allocativa, mentre si registra una brusca decrescita del termine di produttività strutturale, che determina una complessiva perdita di produttività aggregata nel settore manifatturiero italiano. In altri termini, se è vero che il sistema economico italiano inizia a mostrare una preoccupante incapacità di generare innovazione tecnologica, è altrettanto vero che il miglioramento dell’efficienza allocativa del fattore lavoro, conseguito grazie alle recenti riforme, è riuscito in parte ad alleviare gli effetti negativi sulla produttività aggregata. È nell’interesse del paese che tale benefico effetto sia salvaguardato dalle scelte del prossimo Governo.

(1) Per inciso, i termini dell’accordo, stipulato dopo la riforma del Patto di Stabilità del marzo 2005, erano di un deficit pari al 4,2 per cento nel 2005 (impegno rispettato), del 3,6 per cento nel 2006 e non superiore al 3 per cento nel 2007. Il Consiglio europeo nel febbraio 2006 ha dato via libera alla ultima Finanziaria del Governo Berlusconi, in quanto coerente con l’obiettivo del 3,6 per cento per il 2006. I dati della Trimestrale di cassa 2006 sembrano però in parte smentire la possibilità del rispetto di questo obiettivo (il Fondo stima un deficit nel 2006 pari al 4 per cento), anche se occorreranno maggiori informazioni prima di poter ipotizzare la necessità di una manovra correttiva già sui conti 2006.
(2) Vedi Olley e Pakes, 1996.

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