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Chi vuole mandare le donne in pensione più tardi

L’ipotesi di elevare l’età della pensione di vecchiaia delle donne è osteggiata dai sindacati, ma vale la pena fare alcune considerazioni. Portarla gradualmente a 62-63 anni, in cambio di un ripristino della pensione di anzianità a 57 anni avvantaggerebbe solo una minoranza. Infatti le lavoratrici per lo più non riescono a maturare i 35 anni di contribuzione e accedono al trattamento di vecchiaia. Senza innalzare i limiti dell’anzianità, dunque, si determinerebbe il paradosso per cui gli uomini andrebbero in pensione a 57-58 anni (potendo raggiungere, entro quella soglia, i requisiti contributivi), mentre le donne dovrebbero attendere i 62-63.

Nell’ambito del dibattito senza fine (e, sovente, pure senza capo né coda) che accompagna l’affaire pensioni, ha fatto capolino una proposta che non ha alcuna concreta possibilità di trovare posto in una legge di riordino (vista la posizione contraria dei sindacati), ma che merita alcune considerazioni ulteriori rispetto a quelle svolte fino ad ora. Si tratta dell’elevazione graduale dell’età pensionabile di vecchiaia delle donne, in vista dell’equiparazione alle regole previste per gli uomini. L’ipotesi, insieme a tante altre, è contenuta in un documento riservato predisposto dall’Inps ed inviato al ministro del Lavoro allo scopo di suggerire un pacchetto di misure compensative del c.d. superamento dello “scalone” (la norma che prevede l’elevazione – da 57 a 60 anni – dell’età minima per conseguire il trattamento di anzianità a partire dal 1° gennaio 2008) che, a regime nel 2011, è in grado di procurare una riduzione di spesa pari a 9 miliardi di euro. Così, il graduale incremento (da 60 a 62-63 anni) del requisito anagrafico di vecchiaia delle donne, in un mix con altri provvedimenti, sarebbe in grado di recuperare parte del minor risparmio derivante dal ripristino del limite di 57 anni (le cronache di palazzo sostengono che la Cgil era disponibile ad arrivare a 58, ma prima delle proteste dei lavoratori Fiat) per il trattamento di anzianità, magari accompagnato da un (inutile ed inefficace, ad avviso di chi scrive) sistema di incentivazione.

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Possibili nuovi requisiti per l’accesso alla pensione di vecchiaia delle donne (dipendenti ed autonomi)

Dal 1° gennaio 2008 al 31.12.2013 61 anni

Dal 1° gennaio 2014 62 anni

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Effetti dell’ipotesi di innalzamento graduale a 62 anni del requisito minimo di età per la pensione di vecchiaia delle donne (importi in milioni di euro correnti)

FPLD e Gestioni lavoratori autonomi (rate di pensione)

2008

2009

2010

2011

2012

2013

2014

2015

2020

2025

2030

2035*

2040*

2045*

2050*

– 488

– 974

– 959

-990

– 963

– 973

-1.587

-2.187

-2.480

-2.856

-1.671

+1.450

+4.601

+4.773

+3.192

*l’inversione di tendenza è da attribuire agli effetti della maggiore età pensionabile nel calcolo contributivo

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2. In astratto, l’elevazione del requisito anagrafico per le lavoratrici potrebbe sembrare corretta in considerazione dell’aspettativa di vita delle donne che è maggiore di quella degli uomini. Nella maggioranza dei sistemi europei l’età pensionabile è ormai equiparata per uomini e donne. Nel modello contributivo, prefigurato dalla riforma Dini del 1995, il problema era stato risolto con un’unica scala di pensionamento flessibile in un range compreso tra 57 e 65 anni, a cui corrispondevano dei coefficienti di trasformazione finalizzati (anche attraverso la revisione periodica) ad incentivare la permanenza al lavoro e a penalizzare l’esodo prematuro. La legge n.243/2004 ha in parte manomesso tale impostazione, che il Governo Prodi intende ripristinare. Il problema, però, si pone nel prossimo decennio durante il quale i nuovi pensionati di anzianità si avvarranno ancora delle regole del metodo retributivo, con i vantaggi che ne derivano. Secondo le valutazioni della Commissione Brambilla che nel 2001 ha compiuto il monitoraggio della legge Dini, un lavoratore dipendente privato che vada in pensione di anzianità a 58 anni l’anno prossimo, avrà coperto col proprio montante contributivo soltanto 15,4 anni rispetto ad tempo di vita residua (e di riscossione dell’assegno pensionistico) di 25,3 anni. Nel caso di un lavoratore autonomo di quella stessa età, la differenza è quasi di 20 anni. Nel 2015 lo scostamento sarà rispettivamente di 8,1 e di 13,8 anni. E’ su quanto rimane della fase di transizione, allora, che occorre agire. Del resto è su questo punto che si concentra tutta l’asprezza del dibattito politico e sindacale. Chi scrive è dell’avviso che un intervento sull’età di vecchiaia delle donne in cambio di un ripristino dei 57 anni per l’anzianità, sarebbe un errore. E non certamente a causa dei soliti ragionamenti (peraltro non privi di fondamento) che si fanno in questi casi e che riguardano la particolare condizione della donna nel lavoro e nella famiglia. Una norma siffatta introdurrebbe soltanto un tasso di iniquità più elevato nel sistema unicamente da un punto di vista previdenziale, almeno nel settore privato dipendente e autonomo, dove è assolutamente minoritario il numero delle lavoratrici in grado di maturare, in conseguenza delle loro storie lavorative, i requisiti contributivi (35 anni di versamenti) indispensabili per aver diritto alla pensione di anzianità. E’ più agevole per le donne varcare la soglia dei 60 anni di età ed accedere al trattamento di vecchiaia (per il quale bastano 20 anni di contributi). Senza innalzare i limiti dell’anzianità, dunque, si determinerebbe il paradosso per cui gli uomini andrebbero in pensione a 57-58 anni (potendo raggiungere, entro quella soglia, i relativi requisiti contributivi), mentre le donne dovrebbero attendere i 62-63.

3. Nel FPLD -Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti- (al netto degli ex fondi incorporati) le pensioni anticipate vigenti nel 2006, in numero di 1.482.811, sono erogate agli uomini mentre 313.558 vengono corrisposte alle donne. Tra gli ex gestioni incorporate è clamoroso il dato dell’anzianità dell’ex Inpdai: 57.736 maschi e 1.213 femmine. Nel caso degli artigiani si tratta di 468.708 prestazioni di anzianità riservate agli uomini contro appena 37.021 alle donne. Nella gestione dei commercianti vi sono 221.750 trattamenti di anzianità per i maschi e 46.601 per le femmine. Per i coltivatori diretti i rapporti di genere sono meno squilibrati (324.995 maschi e 151.725 femmine), ma pur sempre evidenti. In generale, non è solo una questione di stock: anno dopo anno le nuove pensioni liquidate alle lavoratrici sono circa un quarto di quelle degli uomini, se non ancora meno. Tutto il contrario accade nel caso della vecchiaia dove hanno una netta prevalenza i trattamenti al femminile. Nel FPLD sono 2.243.839 le pensioni di vecchiaia corrisposte a donne contro 1.509.225 a uomini (sono inclusi i prepensionamenti). Nella gestione dei coltivatori 478.023 trattamenti riguardano le donne contro 142.621 riservate agli uomini. Negli artigiani sono rispettivamente 232.735 contro 190.375 e negli esercenti attività commerciali 386.211 contro 183.613.

INPS: Pensioni vigenti al 1° gennaio 2006

Fondo pensioni lavoratori dipendenti

 

Maschi

Femmine

Totale

Vecchiaia e prepensionamenti

1.509.225 (40,2%)

2.243.839 (59,8%)

3.753.064

Anzianità

1.482.811 (82,5%)

313.558 (17,5%)

1.796.369

Coltivatori diretti (Cdcm)

 

Maschi

Femmine

Totale

Vecchiaia

142.621

478.023

620.644

Anzianità

324.995

151.725

476.720

Artigiani

 

Maschi

Femmine

Totale

Vecchiaia

190.375

232.735

423.110

Anzianità

468.708

37.021

505.729

Commercianti

 

Maschi

Femmine

Totale

Vecchiaia

183.613

386.211

569.824

Anzianità

221.750

46.601

268.351

 

Fonte: Indicazioni di carattere statistico (allegate al Bilancio preventivo Inps per il 2007)

 

4. Che fare, dunque ? La via da seguire sembra essere una sola, anche nel caso in cui il Governo insista per rivedere lo “scalone”. Sia pure raggiungendoli in un arco di tempo più lungo devono restare confermati i limiti finali per l’età minima, previsti dalla riforma Maroni: 61/62 per i dipendenti e 62/63 per gli autonomi. In questo modo si risolverebbe anche la questione dell’età delle donne. Del resto, il Governo ha rovesciato la frittata: i minori tagli di spesa derivanti dal “superamento” dello scalone sono stati recuperati sul lato delle entrate. Dalla sventagliata di incrementi contributivi, stabiliti nella Finanziaria, entreranno, nel 2007, nelle casse del sistema pensionistico la bellezza di 5,5 miliardi (e rotti) in più.

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  1. carlo d'ippoliti

    Gentile Dott. Cazzola,
    Nel suo interessante articolo documenta dettagliatamente gli aspetti finanziari legati ai requisiti minimi dell’etù di pensionamento di vecchiaia e anzianità di uomini e donne, concludendo giustamente che dal punto di vista della spesa previdenziale esistono soluzioni migliori.
    Ignora totalmente, però, il mio precedente contributo pubblicato su questo sito, in cui sostengo che la politica previdenziale è parte della politica sociale, e che più in generale contribuisce come tutte le politiche pubbliche a generare e modificare aspettative e dinamiche culturali.
    Un recente studio finanziato dalla Commisione Europea e realizzato dalla Fondazione Brodolini, comparando i differenziali di genere sul mercato del lavoro delle diverse Regioni italiane, fornisce ulteriormente -se ce ne fosse stato bisogno- prova dell’importanza che fattori culturali hanno nel determinare l’occupazione femminile: è per questo che la cultura della parità deve inspirare ogni politica pubblica, anche quella previdenziale. E’ per questo che io -in favore delle donne- scrivo decisamente per la parificazione della loro età di pensionamento a quella maschile.
    La ringrazio dell’attenzione, e di aver nuovamente sollevato il tema.
    Carlo D’Ippoliti

  2. ettore, torino

    Gentile dott. Cazzola,
    io non sostengo che bisogna mantenere i 57 anni per la pensione contributiva degli uomini, ma bensi ritengo inevitabile e giusto alzarla a 60 anni, ma parallelamente ritengo anche che le donne devono andare in pensione di vecchiaia a 65 anni come accade in tutta europa (tranne che in italia, e in gran bretagna; in gran bretagna mi risulta che stanno per rivedere questa norma di favore). Pur leggendo il suo articolo, e avendo apprezzato le sue considerazioni di carattere tecnico, rimango della mia idea: non ha alcun senso logico mantenere questa agevolazione nel momento in cui l’aspettativa di vita media delle donne è di 7 anni più elevata. L’argomentazione che le donne lavorano più degli uomini non ha alcun senso perchè ammesso e non concesso che questo fosse vero, tale aspetto non avrebbe nulla a che vedere con l’età di pensionamento che, lei mi insegna, è basato unicamente su presupposti attuariali di aspettativa di vita. Secondo me questa norma di favore è anche incostituzionale (viola l’art. 3 della Costituzione Repubblicana).

  3. Paola Bosi

    Alle corrette considerazioni già fatte sullo svantaggio femminile nell’accesso al lavoro, occorre aggiungere, poichè bisogna elencarne tutte le cause, che tutti gli studi indicano che le differenze sulle aspettative di vita si vanno riducendo, le donne sono sempre risentono di patologie da stress e affaticamento psico-fisico, e sono soggette a discriminazioni proprio perchè, pur impegnate nel mercato del lavoro e nelle carriere, continuano a farsi carico del lavoro domestico e di cura (come mamme e come nonne) non pagato nè pensionabile (quando non è esclusivo). Oltre a pagare un prezzo personale per il disimpegno maschile, le donne costano meno alle casse previdenziali e fanno risparmiare il sistema di welfare erogando servizi gratuiti. Quanto meno a uguali doveri dovrebbero corrispondere uguali diritti, ma il problema del riconoscimento del lavoro di cura è ancora una volta ignorato. Spero che questo Governo si distingua per senso di equità di genere.

  4. zorro

    Si tratta di equità. Nel 1995 noi con meno di 18 anni di contributi siamo stati penalizzati con il contributivo. Ancora oggi le “vecchie” generazioni continuano ad andare in pensione con il retributivo a 57 anni di età. Allora dico, perchè dobbiamo continuare a prendere le mazzate in testa sempre noi ? Non solo condannati al contributivo (prenderemo se tutto va bene il 60% dello stipendio), non solo a rinunciare al TFR per devolverlo alla previdenza complementare, non solo dovremmo arrivare a 60 se non a 65 ani per prendere la pensione di anzianità….Tutto questo perchè non si è voluto incidere da subito su TUTTI. Allora:

    1) Contributivo per tutti da SUBITO;
    2) Equiparazione al regime tra uomini e donne;
    3) STOP ai regimi previdenziali speciali (compresi quelli scandalosi dei Parlamentari).

    Per ciò che ci riguarda dopo 35 anni di contributi abbiamo DIRITTO alla pensione. E non si parli di equità inter-generazionale quando ci vediamo circondati da 55enni belli pimpanti che se la godono alle nostre spalle con ricche pensioni.

  5. Max 60

    Ora tutti parlano dello “scalone”, ma la riforma Dini
    ha inserito anche lo “scalino” tra coloro che mantengono il regime retributivo e quelli che andranno in pensione col sistema misto.
    Credo che prima d’intervenire sulla correzzione dei coefficenti di conversione, dobbiamo estendere a tutti, nessuno escluso, il sistema contributivo pro quota. I risparmi e l’equita’ introdotta, renderanno plausibile il mantenimento dell’eta’ pensionabile pre riforma Maroni.

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