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Quando la redistribuzione passa per l’addizionale

La Finanziaria 2007 consente agli enti locali di incrementare le addizionali Irpef e Irap. Che interessano anche i redditi più bassi. Chi le adotta, dunque, minerebbe l’azione redistributiva decisa dal governo. Non è così. Perché l’Irpef come strumento redistributivo ha molti limiti. E perché non è solo con il prelievo che si attua la redistribuzione. Buona parte della spesa comunale ha finalità dichiaratamente sociali. Bisogna quindi considerare come i comuni utilizzano le risorse aggiuntive e le possibili alternative per reperirle.

Con l’approvazione della legge Finanziaria per il 2007, sono entrate in vigore le nuove regole finanziarie previste per Regioni e enti locali. Tra queste, accanto a criteri più ristrettivi sui saldi di bilancio e a una sostanziale riduzione dei trasferimenti erariali, c’è la possibilità per gli enti locali di rimettere in moto la propria autonomia tributaria sulle addizionali Irpef e Irap, rimasta bloccata dal 2003 a seguito di un intervento d’imperio deciso dal governo di allora. Di più, il gioco complesso della rimodulazione degli scaglioni e della sostituzione delle deduzioni dall’imponibile con detrazioni dalle imposte sui redditi personali, deciso con la stessa legge Finanziaria, ha determinato “naturalmente” un incremento delle addizionali regionali e locali sull’Irpef: le detrazioni dall’imposta erariale non riducono la base di calcolo per l’addizionale, mentre le deduzioni sì.

L’effetto “addizionale”

Ciò ha generato un aggravio dell’imposizione fiscale sui redditi personali, che in qualche caso, per il combinato disposto dell’incremento automatico dell’addizionale e degli aumenti delle aliquote autonomamente decisi da Regioni e comuni, ha condotto a una totale eliminazione dei vantaggi fiscali decisi in Finanziaria per i redditi di fascia bassa. (1)
L’addizionale Irpef locale è appunto un’addizionale, non una sovrimposta, e in quanto tale non può essere discriminata più di tanto per scaglioni di reddito, nonostante la possibilità di introdurre qualche soglia esente.
Esemplare il caso di Bologna, dove il sindaco, ex segretario della Cgil, è sotto attacco da parte della sua stessa ex organizzazione per aver deciso, in alternativa all’incremento dell’Ici, un aumento dell’addizionale Irpef.
L’argomento dei critici, implicito o esplicito, è che in questo modo si determina un intervento distributivo in senso contrario all’azione redistributiva decisa dal governo con la rimodulazione delle aliquote, degli scaglioni e delle detrazioni dell’Irpef, interventi strenuamente difesi dai sindacati e da componenti della stessa maggioranza (il famoso “che piangano anche i ricchi”).

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Quali strumenti per la redistribuzione

Questo argomento non è però corretto, o quanto meno dovrebbe essere pesantemente qualificato. Deriva da un doppio assunto, non si sa quanto dovuto a un pregiudizio ideologico o a una scarsa conoscenza dei fatti, così riassumibile: 1) la redistribuzione si attua e si misura solo sul lato del prelievo, e non su quello della spesa; 2) la redistribuzione si attua e si misura solo con riferimento all’Irpef. Entrambi gli assunti sono palesemente infondati.
In particolare, come strumento distributivo, l’Irpef è fortemente limitata da due considerazioni. In primo luogo, e ovviamente, azioni redistributive attuate tramite l’Irpef non possono avvantaggiare chi l’Iperf non la paga perché troppo povero, i famosi incapienti. Si tratta di circa il 20 per cento della popolazione dei contribuenti con un imponibile positivo. In secondo luogo, lungi dall’essere basata su una definizione onnicomprensiva dei redditi, la base imponibile dell’Irpef è composta solo da una loro parte assai limitata, per oltre il 75 per cento redditi da lavoro dipendente o assimilati. Molti redditi sono legalmente esclusi dalla base imponibile dell’Irpef (tutti i redditi da capitale) o assoggettati a una tassazione volutamente bassa (tutti i redditi catastalizzati). Oppure, notoriamente, evasi o elusi. Inoltre, al di là delle correzioni introdotte dalle detrazioni per carichi familiari, l’Irpef è basata su un’imposizione di tipo individuale, che non consente di capire qual è la effettiva situazione economica del percettore di quei redditi. Per spiegarsi meglio: anche se possiamo osservare il reddito per fini Irpef di un certo contribuente, non sappiamo se questo individuo, per esempio, possiede altri redditi non assoggettati a Irpef e quindi tassati ad aliquote più basse. Oppure è inserito in un nucleo familiare ricco o può contare su altri trasferimenti da parte di altri componenti familiari. Il “povero” contribuente Irpef potrebbe benissimo essere il figlio o il coniuge di un facoltoso altro contribuente, il quale magari a sua volta percepisce redditi in larga misura non soggetti a imposizione Irpef.
Queste considerazioni dovrebbero indurre a qualche cautela nell’assegnare un peso eccessivo all’Irpef come strumento redistributivo. E, viceversa, a rivalutare la redistribuzione effettuata sul lato della spesa.
Si dà appunto il caso che molte delle attività svolte dai comuni italiani abbiano un forte impatto redistributivo: circa il 20 per cento in media della spesa comunale è destinata al finanziamento di attività con finalità dichiaratamente sociali, ma ha un’impronta più o meno marcatamente redistributiva una larga parte di interventi dell’ente locale.
Non solo, ma proprio alla luce delle precedenti considerazioni, nell’elargizione dei servizi, molti comuni italiani sono attenti all’effettiva condizione economica dei possibili beneficiari. Per esempio, è diffuso l’uso di indicatori, come l’Isee, che tengono conto di altri aspetti oltre al reddito per fini Irpef: in particolare, indicatori di bisogno e indicatori relativi alla ricchezza posseduta dal cittadino. Si può anche argomentare che è efficiente che la definizione della platea dei potenziali beneficiari avvenga a livello locale, e non sia svolta dallo Stato: il governo locale ha gli incentivi e le informazioni migliori per parametrizzare gli indicatori di bisogno alle condizioni locali.
Prima di concludere che un aumento delle addizionali comunali Irpef conduce inevitabilmente a un impatto redistributivo negativo, bisogna quindi considerare quali spese questo incremento finanzia e quali alternative in termini di risorse erano a disposizione dello stesso comune. Un supplemento di istruttoria è come minimo necessario.

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(1) Si veda per esempio Il Sole 24 Ore del 17/1/2007.

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Sommario 20 gennario 2007

  1. v.muscatelli

    l’argomento non fa altro che porre un ulteriore accento sulle storture e sempre maggiore allontanamento dello strumento fiscale dalle necessità di una società che invece a sempre più bisogno di una gestione pubblica ma la poni in grado di competere una realtà glonbalizzata.
    Anzichè percorrere la strada indicata da tempo di snellimento, semplifacazione , chiara individuazione di quanto è effettivamente il carico fiscale su ogni realtà produttiva( che sia persona fisica o giuridica) da anni si sta percorrendo una strada al contrario.
    Va da se che con l’aumento del proliferare delle voci di prelievo fiscale aumentano sia i costi e le eventuali storture. E’ una legge matematica, più aumenti le variabili e la complessità del sistema e più aumentano le probabilità di generare poblema di qualsiasi tipo.
    Il problema di fondo rimane una corretta gestione di quella attività o realtà per cui un sistema che sia pubblico o privatato è stato creato.

  2. Giordano D'Innocenzo

    Sono d’accordo col Prof. Bordignon (i cui lavori riguardo la tassazione d’impresa mi sono stati cari all’epoca della tesi di laurea…): si attribuisce troppa importanza al potere redistributivo dell’Irpef. La fallibilità dello strumento (evasione, elusione, incapienti, ecc.) è stata brillantemente illustrata nell’articolo in commento.
    Mi permetto di aggiungere che la continua voglia di re-distribuire ricchezza distoglie attenzione dalla fase a monte, ossia la produzione di ricchezza. E’ questa che dovrebbe essere incentivata, ma non mi sembra si sia fatto molto in tal senso. Tra l’altro, resta chiaro che neanche il governo di centrosinistra ha trovato (o voluto trovare) il modo di recuperare il “nero” dove si annida, ossia sui patrimoni (immobili in primis, ma anche auto costose, barche…). Anzi, si veda il caso del comune di Roma, dove si è stabilito di abbassare l’ICI ed innalzare l’addizionale Irpef (da 0,2 a 0,5), provvedimento dall’impatto decisamente regressivo. Ancora una volta, si privilegia il patrimonio: paradossalmente, chi è al margine (che può benissimo avere un reddito medio senza potersi permettere l’acquisto di una casa, con i prezzi attuali) sarà sempre più escluso.
    Alla faccia della politica di sinistra!
    Cordiali saluti e complimenti alla Voce.

  3. Andrea Paltrinieri

    Le precisazioni del Prof. Bordignon sono un giusto richiamo alla ragione indirizzate a coloro, in primo luogo le organizzazioni sindacali, che hanno criticato pesantemente l’applicazione dell’addizionale Irpef da parte delle amministrazioni comunali. Non sono però sufficienti per mettere il cuore in pace degli amministratori locali (di centrosinistra), specie a cui appartengo. Volendo mantenere o addirittura sviluppare i servizi ai cittadini (es. più posti all’asilo nido per fronteggiare la crescita della natalità) l’applicazione dell’addizionale irpef è praticamente una scelta obbligata. La decisione, pertanto, non è se applicarla, ma come applicarla – con riferimento alla possibilità prevista per la prima volta con la legge finanziaria 2007 di introdurre una soglia di esenzione (evidentemente per i redditi più bassi). In provincia di Modena, che io sappia, questa opportunità è stata sfruttata solo in due comuni: Sassuolo e Spilamberto. Pur riconoscendo che l’Irpef è uno strumento grossolano ai fini redistributivi, che è rilevante il profilo della spesa e che una soglia di esenzione sull’addizionale è pure essa uno strumento alquanto grossolano (un mini-“scalone”!), mi sembra che quest’ultima, se applicata, aiuterebbe comunque ad aumentare il grado di equità delle manovre comunali complessivamente intese.

  4. Giordano D'Innocenzo

    Il punto di vista del Sig. Paltrinieri è rispettabile. Se ho capito correttamente, egli sostiene che lo strumento Irpef (e sue derive addizionali), per quanto grossolano, può servire a compiere le famose redistribuzioni di reddito.
    Io non credo che l’Irpef sia uno strumento grossolano, anzi, sta diventando sempre più sofisticato e “pressante”, andando a pescare, però, sempre sui “soliti noti”! Questo è, secondo me, il punto: come si fa a puntare ancora sulla redistribuzione tra “poveri”?!
    Individuando ancora nei redditi dichiarati lo strumento redistributivo, rischiamo di rimanere prigionieri di un evidente (voluto?) equivoco: sappiamo, cioè, che i redditi dichiarati fino in fondo sono solo quelli da lavoro dipendente, ma facciamo finta che lo siano tutti!
    Parlando di comuni, torno a Roma. Invece di aumentare l’addizionale (mentre si abbassa l’ICI, tra l’altro), basterebbe riclassificare gli immobili delle zone centrali e semicentrali della Capitale (appartamenti da sogno conosciuti al fisco come alloggi di fortuna con bagno esterno in comune!) per garantire molto più gettito.
    Non sarebbe forse un segnale forte di politica equa (e di sinistra, aggiungo) fare in modo che chi abita a piazza di Spagna paghi più ICI a mq di chi abita a Centocelle?!
    Cordiali saluti.

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