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Il muro di gomma del bilancio locale

In alcuni casi, vincoli costituzionali impongono allo Stato di intervenire per salvare un governo locale in crisi finanziaria. Il rischio è che si generi un’irresponsabilità diffusa. E’ perciò necessario che gli interventi siano accompagnati da forti sanzioni per gli enti locali coinvolti, che incidano sia sugli amministratori sia sui cittadini stessi, “colpevoli” di aver eletto governanti incompetenti. E per i politici locali, la sanzione ultima non può che essere la soppressione della propria sovranità, almeno per un periodo di tempo determinato.

Il muro di gomma del bilancio locale, Massimo Bordignon e Gilberto Turati

Recenti vicende, come la crisi finanziaria di Taranto o il ripiano dei debiti sanitari della Regione Lazio, deciso proprio in questi giorni, ripropongono con forza un’annosa questione, centrale per gli sviluppi successivi dello sgangherato decentramento italiano. Deve o non deve il governo centrale intervenire per salvare un governo locale in crisi finanziaria irreversibile?
La nostra stessa Costituzione sembra escluderlo, tant’è che all’articolo 119 recita: “è esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti contratti (dagli enti territoriali)”. Ma la risposta onesta è che in molti casi lo Stato non può farne a meno, per la presenza di altri vincoli costituzionali, non meno pregnanti , e di proprie specifiche responsabilità nella vicenda. Ma azioni di salvataggio possono generare aspettative pericolose di bailing out generalizzato per tutti gli enti locali, con il rischio di scatenare un’irresponsabilità finanziaria diffusa. È perciò necessario che questi interventi, quando si fanno, siano accompagnati da forti sanzioni per gli enti locali coinvolti, che incidano sia sugli amministratori che sui cittadini stessi, “colpevoli” di aver eletto governanti incompetenti. E per i politici locali, la sanzione ultima non può che essere la soppressione della propria sovranità, almeno per un tempo determinato.

La difficoltà

Ma perché non lasciare semplicemente che i governi locali si facciano carico da sé dei propri problemi, e se non lo fanno, che “falliscano”, come le imprese private? Intanto, perché non è ovvio che un governo locale possa davvero fallire. Per esempio, un comune è obbligato per legge a offrire i “servizi indispensabili” ai propri cittadini, che devono essere garantiti anche in caso di “fallimento”. Un comune non può dunque semplicemente “uscire dal mercato“. Inoltre, mentre si possono certamente liquidare alcune proprietà di un ente locale per far fronte ai debiti, questo non è possibile per tutte: si può davvero “vendere” un parco, un ospedale, o una strada? Certo, mercati più flessibili, per esempio per quanto riguarda l’impiego pubblico locale, potrebbero rendere più facile affrontare le crisi finanziarie. Ma perfino negli Stati Uniti, i vincoli legislativi relativi al fallimento degli enti locali sono più restrittivi che nel caso delle imprese private, o sono così interpretati dalla giurisprudenza.
Questi problemi sono aggravati nel caso in cui le responsabilità tra enti di governo non siano ben definite. La sanità italiana è un esempio di scuola. In teoria, il finanziamento del Ssn dovrebbe essere definito in modo da garantire i “livelli essenziali di assistenza” in ogni Regione e lo Stato dovrebbe limitarsi alla legislazione di cornice. In realtà, nessuna quantificazione precisa dei Lea è mai stata fatta, la definizione dei fabbisogni sanitari è il risultato di una contrattazione continua tra Stato e Regioni, e la legislazione statale continua a interferire pesantemente su quella regionale. Per di più, la garanzia dei livelli essenziali dei servizi sanitari per tutti i cittadini viene percepito come un obbligo costituzionale per il governo centrale. Non è dunque sorprendente che la storia della sanità pubblica nel nostro paese sia essenzialmente una storia di interventi continui di ripiano dei debiti sanitari delle Regioni.

Il dissesto finanziario

Come si esce da questa situazione? Controlli più sensati sull’accesso al credito da parte degli enti locali sono parte della soluzione, perché in qualche caso possono evitare che i problemi si formino alla radice. Ma più in generale, se è impossibile evitare del tutto il bailing out, è necessario almeno renderlo sufficientemente costoso da scoraggiare comportamenti opportunistici. Ci vuole una normativa precisa che definisca condizioni e limiti degli interventi di salvataggio, inclusivi di sanzioni appropriate. Per gli enti locali, questa normativa in qualche misura esiste. In presenza di una crisi finanziaria irreversibile, lo Stato garantisce una rete di protezione, facendosi carico della mobilità dei dipendenti pubblici in eccesso e di qualche soldo in più. In cambio, l’ente locale in dissesto è sottoposto a una sorta di amministrazione controllata, come negli Usa; una commissione di liquidazione si fa carico della ristrutturazione del debito e della vendita delle attività patrimoniali alienabili, e mentre la giunta comunale resta in carica per gli affari correnti, è sottoposta a stretto controllo da parte del ministero degli Interni, che può licenziarla. Tariffe e imposte locali vengono portate ai massimi livelli, e tutte le spese non indispensabili devono essere ridotte fino a riportare in equilibrio il bilancio.
Nonostante alcuni palesi limiti, nel complesso la normativa sembra aver funzionato. La tabella 1 mostra che dal 1989, anno di introduzione della prima normativa sul dissesto con la legge 144/89, al 2006, solo il 5,3 per cento degli enti locali vi ha fatto ricorso e in generale quelli sottoposti alla disciplina del dissesto ne sono poi usciti rafforzati. (1) L’andamento nel tempo mostra una concentrazione del 90 per cento dei casi prima del 1995, segno che la normativa ha fatto emergere le situazioni di dissesto “latenti” e che la procedura riguarda comunque casi eccezionali.
Casomai, c’è da chiedersi se la struttura delle sanzioni sia totalmente adeguata; come si osserva dalla tabella, la maggior parte degli enti locali dissestati è di piccolissime dimensioni, una scala inadeguata per una gestione efficiente del bilancio e probabile concausa del dissesto stesso. Perché non approfittare della crisi per raggiungere una dimensione più efficiente? Se i servizi indispensabili devono essere offerti ai cittadini, non è detto che debba essere quel particolare ente locale a farlo. Un comune può essere accorpato a un altro, o le sue funzioni trasferite a un organo di livello superiore.

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Tabella 1. Comuni dissestati tra il 1989 e il 2006

Classi di popolazione

Enti locali dissestati tra il 1989 e il 2006

Totale Comuni

% sul totale di riga

% sul totale dei dissestati

< 499

29

846

3,4

6,8

500 – 999

48

1128

4,3

11,2

1000 – 1999

110

1679

6,6

25,8

2000 – 2999

47

977

4,8

11,0

3000 – 4999

76

1206

6,3

17,8

5000 – 9999

62

1153

5,4

14,5

10000 – 19999

30

639

4,7

7,0

20000 – 59999

21

377

5,6

4,9

60000 – 99999

2

54

3,7

0,5

100000 – 249999

0

29

0,0

0,0

250000 – 499999

0

7

0,0

0,0

> 500000

1 (*)

6

16,7

0,5

Totale

426

8101

5,3

100,0

Fonte: Danielli e Pittalis (2006) e nostre elaborazioni
(*) Esclude la provincia di Napoli

La sanità

Per le Regioni non esiste una normativa simile. Ma la legislazione sui patti di stabilità interna ha progressivamente introdotto procedure e sanzioni più pressanti per l’elargizione di aiuti finanziari, riprendendo in qualche misura i contenuti della legislazione relativa agli enti locali. Nell’ultima versione, la Finanziaria 2007, non solo i tributi regionali per le Regioni che presentano disavanzi superiori a una certa soglia devono essere portati al livello massimo, ma possono essere ulteriormente aumentati, fino a coprire interamente i disavanzi, se la Regione continua ad accumulare deficit. E condizione per ottenere l’aiuto finanziario, è che la Regione definisca un piano di rientro in accordo con lo Stato, da questo direttamente monitorato, tramite l’”affiancamento” di funzionari ministeriali a quelli regionali.
È su questa base per esempio che il Lazio ha ottenuto l’aiuto finanziario richiesto. Dopo l’operazione di trasparenza effettuata dalla nuova giunta, che ha fatto emergere debiti sanitari per quasi 10 miliardi di euro, lo Stato è intervenuto con un “prestito” alla Regione per 5,8 miliardi di euro, da restituirsi in 30 anni, probabilmente tramite una riduzione di 310 milioni di euro l’anno dei trasferimenti futuri alla Regione (la stessa durata e tasso dei Btp), e con ulteriori trasferimenti per circa 2,3 miliardi di euro. In cambio, la Regione ha stipulato un piano di rientro, si è impegnata a contribuire con ulteriori 250 milioni di euro di proprie entrate all’anno per il finanziamento del debito pregresso, e ha portato le aliquote regionali al massimo consentito dalla legge per il prossimo triennio. Il problema qui, più che l’intervento stesso, comunque di dimensioni mostruose, è se i vincoli verranno rispettati per il futuro, gli interessi sul “prestito” veramente pagati e le penalità previste effettivamente imposte nel caso di ulteriori sfondamenti. Se così non fosse, i rischi di scollamento del sistema, come testimoniato dalle reazioni inferocite delle Regioni “virtuose”, sono molto elevati.
Ma il caso del Lazio solleva altri due interrogativi di carattere più generale. In primo luogo, se è giusto che i cittadini stessi siano colpiti direttamente con l’innalzamento dei tributi. Questo mantiene sotto pressione gli amministratori locali e insegna agli stessi cittadini a scegliere con maggior oculatezza i propri governanti. È ovvio, però, che le sanzioni dovrebbero colpire duramente soprattutto gli amministratori e i politici responsabili del disastro. Possibile che non ci sia alcun responsabile per l’accumulo di un debito così mostruoso? Nel Lazio, risulta addirittura che durante la precedente amministrazione, alcune Asl non abbiano neppure mai presentato i bilanci. Ci sono dunque tutti gli estremi per invocare il danno erariale nei confronti dello Stato, a cui questi amministratori potrebbero essere richiesti rispondere per legge con i propri patrimoni personali. Perché la Corte dei conti non interviene in questo senso? Sarebbe un segnale assai importante per il futuro.
In secondo luogo, va anche osservato che il problema dei deficit sanitari per alcune Regioni appare in realtà strutturale, non l’episodio contingente di una giunta regionale particolarmente incompetente. Tre sole Regioni sono attualmente responsabili di oltre il 70 per cento dei debiti complessivi. Tutte le Regioni hanno avuto problemi finanziari in passato, molte sono anche riuscite a riportare i deficit a livelli tollerabili, mentre altre continuano a presentare una situazione disastrata.
Di fronte a problemi strutturali di questa natura ci sono solo due spiegazioni possibili, e dunque due sole soluzioni. O il finanziamento è palesemente insufficiente per l’offerta efficiente dei servizi in queste Regioni, e allora deve essere aumentato. Per deciderlo, è necessario introdurre quella standardizzazione dei costi per la sanità, a cui legare i trasferimenti, che finora è sempre mancata. Oppure, c’è una situazione di inefficienza strutturale, che deve essere risolta alla radice. In questo caso, la “punizione” adeguata per i politici e gli amministratori locali non può essere che la perdita della sovranità, cioè il ri-accentramento della funzione nelle mani dello Stato centrale, che se ne assume direttamente la responsabilità, un’azione molto più incisiva del semplice “affiancamento”. Si osservi, a proposito, che l’articolo 120 della Costituzione esattamente questo sembra imporre.


(1)
Si vedano Danielli E. K. e Pittalis M. G. (2006), Il dissesto degli enti locali alla luce del nuovo assetto normativo, Roma, ministero dell’Interno. Si osservi inoltre che molte delle disposizioni relative al dissesto degli enti locali, contenute nel testo unico sugli enti locali del 2000, sono poi state bloccate nel 2003 a seguito della riforma costituzionale del 2001 e attendono una revisione legislativa.

La risposta ai commenti degli autori

Grazie dei commenti, rispondiamo collettivamente.
Il problema su cui si basa l’articolo è quello dei “vincoli di bilancio soffici”: se un governo locale sa che non potrà “fallire”, perché offre servizi così essenziali (come la sanità) e lo Stato interverrà comunque in suo soccorso, può avere un incentivo a spendere di più (e male?) le risorse che ha a disposizione, contando poi sull’aiuto di Pantalone. E i suoi cittadini, a votare per candidati locali spendaccioni: tanto non saranno loro a pagare per eventuali crisi, ma la collettività nazionale. Sfortunatamente, si tratta di una storia assai comune nel contesto italiano, che può condurre a diffuse irresponsabilità finanziarie. Particolarmente pericolose ora che con il decentramento questi governi locali hanno assunto ampie funzioni di spesa. Per contrastare questi incentivi, come argomentato nell’articolo, è necessario che questi interventi di salvataggio – molto spesso inevitabili – siano accompagnati da pesanti sanzioni su tutti i soggetti interessati: cittadini, amministratori, politici. E per i politici, la perdita della sovranità è la peggiore sanzione che si possa immaginare. Il punto non è che lo Stato è più efficiente: il punto è che lo Stato non ha qualcun altro che sta “più in alto” su cui riversare i propri debiti ed è costretto dunque a “internalizzare” il costo dell’inefficienza. Starà poi all’elettorato nazionale decidere se vuole ancora sopportare tanta inefficienza o preferisce interventi più risolutivi. La nostra Costituzione, con la riforma del titolo V, consente questi interventi di ri-accentramento delle competenze.
Per gli amministratori locali, esistono già precise sanzioni di legge; il punto sta nell’applicarle, senza alcuna “caccia alle streghe”. E se fossero applicate sul serio, anche se gli amministratori sono di nomina politica presterebbero comunque una maggior cautela nell’obbedire ciecamente agli ordini di partito, se questi comportano rischi di sanzioni penali e amministrative. Ovviamente, non c’è ragione per cui tali sanzioni debbano essere limitate solo agli amministratori locali; anche per i funzionari statali esistono norme simili e anche qui dovrebbero essere applicate.
Infine, c’è un problema con l’idea di eliminare del tutto la politica dai governi dissestati. Può non essere colpa delle future giunte se quella situazione si è creata; e una volta risolta l’emergenza finanziaria è bene che la democrazia riprenda il suo corso. Se penalizzati sul serio dal dissesto precedente, i cittadini sarebbero probabilmente più attenti a chi affidano il mandato a governare (e se non lo fanno ne pagheranno di nuovo le conseguenze, continuando a sopportare tasse e tariffe più elevate per servizi peggiori).

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  1. Corrado Fontaneto

    La sottostima del fabbisogno caratterizza non solo la sanità , ma anche il settore del Trasporto Pubblico Locale contrassegnato da una violazione sistematica della normativa comunitaria. Secondo fonti ben informate vi sarebbe un rischio di recupero di aiuti di stato dai 10 ai 15 miliardi di euro.La gran parte delle aziende si regge grazie ad un meccanismo di sussidi incrociati che costano alla collettività,in via diretta ed indiretta,una vera enormità.Provi qualcuno a cimentarsi in questa analisi.Grazie

  2. michele

    Questa sembra esser la conclusione un pò contraddittoria dell’intero articolo, nel quale gli autori propongono – in caso di sfascio della finanza di una Regione o di un Comune – il riaccentramento dei suoi poteri nelle mani dello Stato.
    Dubito della praticabilità della soluzione poichè è lo Stato stesso che, sovente, acconsente silente all’evoluzione di simili situazioni: come ricordano gli stessi autori, se volesse la Corte dei Conti avrebbe più di un motivo per intervenire.
    Verificato che causa dello sfascio non siano fattori come il dimensionamento o altri che gli stessi amministratori sono chiamati a subire, io penso occorrano più misure, compreso il fatto di chiamare non solo gli amministratori locali spendaccioni (questo la Corte dei conti lo può già fare) , ma i partiti o i movimenti di cui sono stati espressione a render conto, pagando con le relative proprietà ed escludendoli anche dalla possibilità di partecipare a qualsiasi competizione elettorale per un congruo periodo di tempo.
    Certo non sarebbe una opzione risolutiva, ma qualche freno lo metterebbe.

  3. francesco betti

    Nel caso del dissesto del comune di Taranto credo che la soluzione migliore sia quella di lasciare un commissario. Invece so che così non andrà perchè, se non sbaglio, là si svolgeranno regolarmente le elezioni amministrative. Ora mi domando: che tipo di campagna elettorale faranno gli aspiranti sindaci; che cosa possono offrire ai cittadini (colevoli) se non lacrime e sangue? Dovranno fare una campagna elettorale che avrà per destinatari dei cittadini che hanno finora premiato quei personaggi che hanno promesso di tutto e di più infischiandosene altamente delle compatibilità finanziarie. Sono d’accordo con l’autore; bisognerebbe in certi casi sospendere le elezioni per dar modo al commissario -libero dai ricatti politici e dalle pressioni delle clientele- di rimettere in sesto i conti.

  4. riccardo boero

    Anche a me come al sig. Michele, sembra un po
    troppo facile accanirsi sul singolo amministratore che dovendo al partito nomina e riconferma, e` tenuto poi a seguirne strettamente le direttive.
    Non mi riesce poi di capire perche’ non applicare allo Stato stesso le draconiane misure invocate per gli enti locali. I deficit statali non sono meno paurosi di quelli locali, quindi? Amministrazione controllata e perdita di sovranita` anche per i ministri generatori di deficit?
    Grazie per una cortese risposta

  5. michele

    Sono d’accordo su un eventuale sospensione delle elezioni per quei comuni in dissesto. Anche il mio comune si trova in identica situazione e nonostante lo scioglimento del Consiglio sia avvenuto in questi giorni ci si sta preparando alla tornata elettorale. Mi domando con quali prospettive si arriva a qiesta scadenza? visto che manaca un qualsivoglia progetto di risanamento e gli uscenti si stanno riproponendo in blocco? Un altro aspetto da tener conto è il sistema elettorale che favorisce il proliferare di liste dando la possibilità a candidati che pur non avendo competenza ma il sostegno di un ceppo familiare di essere nuovamente eletti.

  6. mario

    Non vanno sospese le elezioni nei casi di dissesto, ma dovrebbero essere previste da apposita legge alcune misure immediate tra le quali: dimezzamento del numero dei componenti il consiglio (comunale, regionale…), riduzione consistente delle indennità di carica degli amministratori locali, ineleggibilità per almeno un turno dei componenti le varie assemblee: infine il commissariamento delle amministrazioni per il disbrigo degli affari correnti nei periodi infraelettorali.

  7. Agostino

    Ad una comune disastrato applichiamo il principio della sussidiarietà orizzontale. Disautoriamo la propria potesta comunale inadempiente. Ad un comune limitrofe il compito di risolvere l’insolvenza anche imponendo tasse finalizzate ai cittadini che hanno eletto i politici incapaci. Risanati i bilanci il comune inadempiente riacquista lo status e a questo punto posso essere indette nuove elezioni amministrative.

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