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Di cosa parliamo quando parliamo di reti

Si discute molto dell’infrastruttura di rete di proprietà Telecom e del destino che potrebbe subire nell’eventualità dell’arrivo di At&t. Il controllo pubblico non sembra desiderabile proprio perché si tratta di un’infrastruttura complessa e “intelligente”, che condiziona il tipo di servizi erogabili. E perché si invoca ora una “soluzione inglese”? Gli interessi degli utenti e del sistema paese richiedono operatori che abbiano adeguati incentivi, know-how e risorse finanziarie per investire nello sviluppo delle componenti hardware e software di rete.

Il dibattito, spesso concitato, che nell’ultima settimana si è sviluppato sulla vicenda Telecom ha visto intrecciarsi molte proposte e affermazioni il cui crocevia è l’infrastruttura di rete di proprietà Telecom e il destino che questa potrebbe subire nell’eventualità di un controllo da parte di At&t. Abbiamo letto che “la rete deve rimanere italiana”, che “l’infrastruttura è un pezzo importante del servizio pubblico” e che occorre ispirarsi “all’esperienza inglese”. È forse utile mettere un po’d’ordine su questi temi, anche per verificare quali siano gli eventuali pericoli e sviluppi da attendersi dal cambio nel controllo della principale società di telecomunicazioni italiana.

L’infrastruttura e la concorrenza

La rete di telecomunicazione è una infrastruttura estremamente complessa e in continua evoluzione. Il primo tratto, che collega il cliente alla prima centralina e allo stadio di linea, è il cosiddetto “ultimo miglio” (local loop): nella gran parte dei casi è realizzato in doppino di rame ed è economicamente molto costoso da duplicare per le opere di scavo e posa di infrastrutture alternative. Dallo stadio di linea la rete si sviluppa per livelli gerarchici con nodi di commutazione (SGU, SGT) e dorsali (rete backbone). Una chiamata viene raccolta, instradata e terminata attraversando questa complessa architettura. Una rete di telecomunicazione richiede componenti hardware (i cavi, le centraline, ecc.) e software (le procedure informatiche che trattano la commutazione e la realizzazione dei diversi servizi), e in questo senso è una infrastruttura molto più complessa e connaturata alla natura dei servizi di quanto non siano le infrastrutture di trasporto elettriche o del gas.
I processi di liberalizzazione nelle telecomunicazioni in Europa hanno oscillato nell’ultimo decennio tra due modelli: quello della concorrenza tra reti, realizzabile qualora gli operatori costruiscano proprie infrastrutture alternative a quelle dell’incumbent (in Italia, seguita nella sua prima fase di sviluppo da Fastweb), e quello della concorrenza tra servizi, dove i concorrenti utilizzano (parte del)le infrastrutture dell’incumbent per realizzare i servizi venduti al pubblico. Il modello, in qualche modo intermedio, che oggi prevale anche in Italia, è l’unbundling del local loop: il concorrente affitta dall’incumbent la rete locale che collega il cliente al più basso nodo dell’architettura di rete (stadio di linea), pagando all’incumbent un canone, e si collega con una propria rete alla stadio di linea sviluppando quindi “quasi per intero” una propria rete alternativa. Il cliente cessa di pagare il canone all’incumbent e tratta solamente con il concorrente. In questo modo si evita la duplicazione di quelle componenti di rete (local loop) troppo costose da costruire, ma si spingono i concorrenti a sviluppare proprie infrastrutture alternative meglio disegnate alle esigenze dei servizi erogati.
La sfida che il settore delle telecomunicazioni ha di fronte nei prossimi anni è il potenziamento delle reti per un adeguato sviluppo dei servizi (di fonia, internet, video) che richiedono una elevata velocità di trasmissione (banda larga). L’innovazione tecnologica è da questo punto di vista cruciale, e porta in pochi anni a modificare fortemente le prospettive. Dire oggi quali soluzioni saranno tecnologicamente migliori per gli ulteriori sviluppi della banda larga è difficile, e l’approccio più desiderabile è quello di politiche pubbliche tecnologicamente neutrali, che diano spazio in egual modo a tutte le opzioni lasciando che il mercato selezioni di volta in volta quelle migliori.

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Incentivare gli investimenti

Da questa breve e sommaria ricostruzione emergono alcune implicazioni importanti per le politiche di regolazione e per il dibattito sul futuro delle telecomunicazioni in Italia. La prima è che gli interessi degli utenti e del sistema paese richiedono operatori che abbiano adeguati incentivi, know-how e risorse finanziarie per investire nello sviluppo delle componenti hardware e software di rete. Questo sforzo grava in primo luogo sull’incumbent, ma coinvolge anche gli altri operatori, che con l’unbundling del local loop sono chiamati a sviluppare proprie infrastrutture fino ai livelli più bassi. La domanda da porsi di fronte alla prospettiva di un controllo di At&t non è se il nuovo socio voglia “smembrare la rete italiana”, affermazione senza alcun senso, ma se abbia mezzi e incentivi per investire per un suo sviluppo. La nazionalità degli operatori difficilmente rappresenta un elemento cruciale in questo senso e il desiderio di veder realizzate in Italia le attività di ricerca e progettazione dipende in buona misura dalla disponibilità in loco di risorse ad alta specializzazione.
In secondo luogo, la rete di telecomunicazione è una infrastruttura per sua natura complessa e “intelligente”, che condiziona il tipo di servizi erogabili. Una completa separazione proprietaria di questa infrastruttura da quanti invece operano nei servizi di telecomunicazione, magari con un intervento pubblico nella proprietà, rischia di recidere o rendere molto complessa l’interazione tra quanti progettano gli sviluppi della rete e quanti sviluppano i nuovi servizi. La soluzione di un controllo pubblico sulla rete di telecomunicazioni non appare da questo punto di vista desiderabile.
Infine, l’accesso su basi non discriminatorie dei concorrenti al local loop e la piena realizzazione dell’unbundling sono una condizione cruciale per l’adeguato sviluppo della concorrenza, cui oggi sono chiamate a vigilare l’Autorità antitrust e quella di garanzia delle comunicazioni. La soluzione inglese di una separazione societaria (e non proprietaria) della rete locale nasce a sua volta da questo obiettivo. Appare tuttavia difficile capire per quale ragione si invochi proprio oggi una misura di questo genere di fronte alla possibilità che società straniere acquisiscano il controllo di Telecom Italia, quasi che i pericoli allo sviluppo della concorrenza nascano con l’arrivo del “socio americano”. Se invece questa misura vuole essere solamente una pillola avvelenata per frenare gli entusiasmi degli investitori stranieri, allora viene da dire che, con Autostrade-Abertis, abbiamo già dato.

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Sommario 6 Aprile 2007

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Ma a Telecom serve una strategia industriale

  1. andrea camanzi

    Condivido buona parte dell’articolo. due commenti:
    1. il cosiddetto “modello inglese” non prevede alcuna separazione societaria, ma solo una separazione funzionale sufficiente a garantire la “equivalence of input” nell’accesso e uso dei soli “enduring economic bottlenecks”;
    2. la garanzia di un accesso “equivalente” agli enduring economic bottlenecks è dovuta in osservanza del generale principio antitrust che impone l’obbligo di non discriminazione sui mercati a valle alle imprese dominanti e integrate verticalmente. si tratta quindi di una classica misura procompetitiva.

    Sorprende che in Italia qualcuno pensi di usare una misura procompetitiva per finalità di protezione del national champion.

  2. franco benoffi gambarova

    Condivido l’articolo, in buona sostanza. Non condivido assolutamente il commento fatto da unlettore.
    Ai danni di Telecom e quindi dei suoi azionisti si sta applicando una teoria della concorrenza molto vecchia e datata. Una teoria che non guarda agli interessi dei consumatori come voleva mr Sherman quando nel 1890 diede vita allo Sherman Act, ma piuttosoto al Clayton Act del 1914 e/o al Robinson Patman Act, il cui scopo era la potezione dei piccoli negozi americani nei confronti dei supermercati, alla faccia dei consumatori.
    E’ una filosofia “passata”, la quale diede, fra l’altro, origine, ad una condanna dell’Alcoa prechè teneva i prezzi troppo bassi (tra le due guerre mondiali) così creando vantaggio ai consumatori ma barriere all’entrata di concorrenti. E’ la teoria dei predaory prices che è un nonsenso, come molti (fra cui
    Pascal Salin), hanno dimostrato.
    Quindi, vittime di un pessimo antitrust sono i consumatori che hanno visto bocciare offerte a prezzi bassi di Telecom Italia, offerte anche basate sulla convergenza fisso-mobile, e vittime
    sono gli azionisti Teocom e Pirelli.
    Questo è il risultato del populismo di bassa lega applicato all’antitrust. Complimenti all’Authority, con la speranza che i nuovi poteri non creino alla stessa il delirio di onnipotenza (quello di onniscienza non è certo confacente).

    Franco Benoffi Gambarova

  3. Vittorio Carlini

    La domanda da porsi è una sola: è strategico per il Paese avere una nuova rete ultraveloce che arrivi nelle case degli italiani? La risposta può anche essere no e, in questo caso, il discorso si esaurisce. Se invece, come io credo, lo sviluppo del network è fondamentale; se si pensa alla rete come un “ambiente” essenziale per la crescita di un’economia allora il discorso cambia. E, visto che un’azienda privata (che ha obiettivi di breve-medio periodo e deve soddisfare esigenze immediate dei suoi clienti) non potrà mai remunerare gli investimenti della Next generation network, la soluzione non può che essere la separazione della rete. Insomma, non è una questione (o non solamente) di identikit e nazionalità del gestore del network ma di modelli di business. Anche perché il network è uno solo, e la sua evoluzione non può prescindere dalle migliaia di kilometri di rame già presenti in Italia. Di questo se ne ha una riprova guardando, per esempio, al fatturato di Fastweb, il secondo carrier di telefonia fissa in Italia. Gran parte dei suoi ricavi non arrivano dalla rete proprietaria in fibra, bensì dalla banda larga (total access in unbundling) che si appoggia alla struttura di Telecom. Se così stanno le cose, è chiaro che il peso dell’ammodernamento è tutto sulle spalle del’ex incumbent. Il quale, al di là dal fatto che dal 1999 al 2006 su 12,3 miliardi di utili realizzati ne ha distribuiti ben 15,6 in dividendi, non ha “oggettiva” convenienza ad investire miliardi di euro per un progetto di lungo periodo. In tal senso non deve stupire che, a fronte di investimenti “promessi” attorno 6,5 miliardi, nella recente presentazione alla comunità finanziaria Riccardo Ruggero abbia indicato (per la Ngn2 wireless e wireline) un Capex di 20 milioni nel 2007 e di 175 nel 2008. Come dire, insomma che la realtà (dei numeri) spesso è diversa da quella dei desiderata. La via, quindi, è la separazione struturale. Il one network (magari gestito come public company).

  4. Luigi Marengo

    Secondo voi se un’impresa poniamo cinese o saudita, ma anche francese o tedesca scalasse la AT&T o la British Telecom i governi Bush e Blair resterebbero a gaurdare ammirando le straordinarie virtù del mercato oppure interverrebero pesantamente, magari appellandosi alla sicurezza nazionale in modo da mettere tutti d’accordo? Io scommetterei sulla seconda, anche vedendo cosa ha fatto recentemente Bush per proteggere porti e petrolio americani…

  5. Alberto Varignana

    La chiarezza dell’articolo pubblicato sottointende l’aspetto piu’ importante dei mercati delle TLC e ICT : l’alto tasso di innovazione tecnologica.

    La progressiva diffusione dell’accesso a Radiofrequenza ( WLAN, RLAN) e l’introduzione
    del PLC (accesso a Intenet tramite rete elettrica)
    svalutano il valore di un asset come la rete telefonica fissa.

    Inoltre sotto l’asppetto strettamnete microeconomico le esternalità ed il potere di mercato degli attori
    nelle economia a rete (Network economics) sono
    difficilmente limitabili dalle attuali Authority perchè
    hanno responsabilità di carattere settoriale vincolante.

    L’esempio inglese di OpenReach puo’ essere imitato in Italia solo in un ottica consorzile,
    pubblico e privato con investimenti condivisi dallo stessa prospettiva strategica a medio termine, e non con una ristatalizzazione, con la quale dovremmo ripagare completamnete come cittadini i mancati investimenti passati.

    Un dato che comunque emerge è il comportamento da free raider dell’imprenditoria privata rispetto alle infrastrutture pubbliche.

  6. Marco Marini

    Come e` gia` stato giustamente sottolineato la separazione funzionale e` una misura pro-competitiva e va detto che la competizione sul mercato tlc italiano e` abbastanza scarsa, se paragonata a quella dei paesi leader nell’ICT. Aggiungo che la separazione della rete e` in discussione almeno da meta` 2006. Non nego che alcuni politici lo abbiano utilizzato come spauracchio per gli stranieri, ma da qui a dire che l’authority delle comunicazioni (e non l’antitrust, AGCOM e AGCM in Italia sono cose diverse) cambia le regole in corsa ne passa.
    Sono pienamente d’accordo quando si dice che bisogna salvaguardare gli investimenti, ma gli investimenti su reti di nuova generazioni rendono la competizione sull’infrastruttura piu` difficilmente praticabile.
    Le spinte tecnologiche di lungo periodo tendono verso modelli competitivi orizzontali: l’IP separa infrastruttura e servizio.
    La separazione della rete, se fatta come si deve, non pregiudica la capacita` di competere, semplicemente la estende a tutti i competitors.
    La separazione della rete non danneggia ‘gli azionisti’ di telecom italia. Forse danneggia UN UNICO azionista che tenta di disfarsi di un investimento gestito male…
    segnalo un link al discorso di Gentiloni di oggi: http://www.key4biz.it/cgi-bin/key4biz/k4b.cgi?id_testo=42443851401293816069784711810868797817969927753470710&area_tematica=Telecomunicazioni&a_z=v_t

  7. Hiram

    Trattando questo argomento e ponendo l’attenzione sul local loop, bisogna considerare anche l’avvento del wi-max e la possibilità offerte dal 3G. Infatti con entrambe queste tecnologie il problema del incumbent che detiene il monopolio della rete viene sostanzialmente a cadere. Quindi la salvaguardia dell’infrastruttura di rete sembrerebbe essere un problema sollevato con qualche secondo fine (a voi la scelta).
    E’ anche vero, che per poter permettere alle società di telecomunicazioni di sfruttare le due sopra citate tecnologie, vanno fatte alcune scelte particolari.
    Per il 3G (o comunque gsm se si parla di servizi non a banda larga), va richiesto al garante di non bloccare eventuali offerte modello quella di Vodafone che cerca la portabilità del numero di rete fissa su rete mobile.
    Per il wi-max, bisogna risolvere il problema della spettro di frequenze radiotelevisivo saturo. Se non si libera spettro con un corretto passaggio al digitale terrestre, il wi-max in italia non ci sarà…..mai!!!!

  8. Vittorio Carlini

    Vorrei aggiungere qualche considerazione. Rispetto al Wi-Max, che è certo una bella tecnologia, la banda liberata attorno ai 3,5 ghz non offre una grande garanzia di funzionalità. In molti sostengono che sarà difficile riuscire a “penetrare” muri spessi oltre i 7-8 cm. Una situazione che, se vera, pone seri limiti al suo utilizzo (per lo meno nella grandi città).
    Ciò detto, vorrei aggiungere un altro aspetto interesante alla discussione. Secondo uno studio di Artur D Little, nel mercato della fixed broad band in Italia il Gap share tra il first runner (Telecom Italia) e il leading challenger (Fastweb) è oltre il 50%. In Francia poco sotto il 30 e in Uk praticamente zero. Come dire che, nonostante le lamentele di Telecom, la concorrenza nei fatti non c’è.
    Vittorio Carlini, caporedattore Borsa&Finanza

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