A pochi giorni dal richiamo del governatore sui pericoli dell’isolamento della Borsa italiana, arriva la notizia dell’imminente aggregazione tra le piazze finanziarie di Milano e Londra. Se l’accordo consente a Borsa italiana di essere valorizzata, è conveniente anche per Lse, in particolare per il suo management. Un aspetto delicato dell’operazione è però costituito dall’impatto sulla concorrenza tra mercati. E se per gli investitori i benefici derivano dalla maggiore liquidità di un mercato integrato, resta il punto di domanda degli effetti sui costi di transazione.

A pochi giorni dal richiamo del governatore sui pericoli dell’isolamento della Borsa italiana, arriva la notizia dell’imminente aggregazione tra il mercato di Milano e quello di Londra. Durante la scorsa settimana, i consigli di amministrazione delle due società-mercato hanno dato il loro benestare all’operazione, che dovrà passare al vaglio delle rispettive assemblee in agosto. La risposta alla sollecitazione di Mario Draghi non avrebbe potuto essere più tempestiva e spettacolare, dato il prestigio e il crescente ruolo internazionale della piazza londinese. Occorre però chiedersi quali siano i reali fattori di successo dell’operazione, quali gli eventuali ostacoli e – soprattutto – chi ne trarrà i benefici.

I vantaggi dell’aggregazione

Sulla necessità che la Borsa italiana trovasse un partner in tempi rapidi non vi sono dubbi. Vanno in questa direzione le indicazioni della teoria economica, che vede i vantaggi del consolidamento tra borse nelle economie di scala dal lato dell’offerta (contenimento dei costi) e dal lato della domanda (maggiore liquidità, grazie alla partecipazione di un maggiore numero di traders allo stesso mercato). Vanno nella stessa direzione le evidenze accumulate di recente, tra le quali: l’alleanza di alcuni mercati europei (Parigi, Amsterdam, Bruxelles e Lisbona) prima tra di loro e poi con quello di New York, dando luogo a Nyse-Euronext; l’aggregazione tra i mercati nordici (Stoccolma, Helsinki, Copenaghen e altri minori) in Omx e ora con il Nasdaq. Di fronte a questi movimenti, un mercato che resti isolato rischia la progressiva emarginazione, come insegna la storia di alcuni mercati regionali statunitensi (quali Boston e Detroit). (1)
Se l’accordo tra Lse e Borsa Italiana consente a quest’ultima di uscire dall’isolamento e di essere valorizzata, è conveniente anche per Londra, in particolare per il suo management. L’abile Clara Furse, amministratore delegato del Lse, riesce a mettere una “pillola avvelenata” nel piatto del Nasdaq, protagonista di un’Opa ostile sul mercato londinese, fallita alcuni mesi fa: la partecipazione azionaria del mercato americano in Lse risulterà diluita a seguito dell’operazione, e il costo di un’eventuale altra Opa sarà ancora maggiore rispetto a quella passata. È possibile che, nell’assemblea di agosto, il Nasdaq riesca a mettere qualche bastone tra le ruote al progetto, che nella versione attuale lo esclude dalla governance della nuova società-mercato.

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L’impatto sulla concorrenza tra mercati

Un aspetto delicato dell’operazione è costituito dall’impatto sulla concorrenza tra mercati. Al contrario della Borsa di Londra, quella di Milano presenta un forte grado di integrazione verticale: le società che gestiscono gli scambi e le fasi successive allo scambio (Cassa di compensazione e garanzia e Monte titoli) appartengono allo stesso gruppo. Questa è una caratteristica del mercato italiano che non piacerà alle autorità antitrust inglesi, e per buoni motivi. I legami verticali si prestano a un utilizzo anticoncorrenziale: ad esempio, una società-mercato può indurre le sue strutture di post-trading a penalizzare altri mercati che volessero utilizzare quelle strutture per farle concorrenza – offrendo servizi di scambio sugli stessi titoli. Già in occasione dei progetti di fusione tra Lse e la Borsa di Francoforte o quella di Parigi (poi finite in nulla), la Competition Commission si era espressa in via preventiva molto chiaramente: il benestare alle operazioni era subordinato all’allentamento dei legami verticali, sia attraverso una riduzione della partecipazione azionaria delle società di trading in quelle di post-trading, sia riducendo la presenza della prime nei cda delle seconde, sia grazie a impegni a non utilizzare in modo discriminatorio le strutture di post-trading. (2) Se la Competition Commission dovesse intervenire ed essere altrettanto esigente con la Borsa italiana, qualche caratteristica rilevante del progetto d’integrazione con Londra dovrà essere meglio definita.
Infine, chi si gioverà dell’operazione? Gli azionisti e i manager delle società-mercato sono chiaramente interessati all’accordo. Per gli investitori vi sono i benefici che derivano dalla maggiore liquidità di un mercato integrato, grazie all’opportunità di accesso reciproco Milano-Londra per gli intermediari.
Resta il punto di domanda dell’impatto sui costi di transazione: sotto questo profilo, la Borsa italiana è attualmente tra le migliori in Europa, mentre lo stesso non si può dire per il Lse. Qualche operatore ha già intravisto la minaccia di un aumento dei costi: se ciò avvenisse, una parte del mercato – gli utenti – resterebbe delusa da un’operazione all’apparenza brillante. Il rischio che i clienti siano sacrificati è elevato, in un settore caratterizzato da una struttura industriale monopolistica.

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(1)
Si veda “Merging markets”, di Arnold e altri, Journal of Finance, giugno 1999.
(2) Si veda: http://www.competition-commission.org.uk/rep_pub/reports/2005/504lse.htm.

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