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E’ una questione di metodo. Contributivo

Il presidente del Consiglio presenta la “sua” proposta sulla riforma delle pensioni. Sarebbe un vero peccato se vertesse soltanto sullo scalone, che pure si può ammorbidire. A patto di saper progettare il futuro e di riaffermare il metodo contributivo, il punto forte della riforma del 1995. E l’unico in grado di garantire al tempo stesso sostenibilità finanziaria ed equità tra le generazioni. Essenziale perciò approvare subito i nuovi coefficienti di trasformazione. Altrimenti si torna a un sistema pensionistico governato dalla discrezionalità politica.

Oggi si vedrà se il governo Prodi è ancora in grado di progettare il futuro del paese, oppure se – costretto dalle divisioni interne alla sua maggioranza – si limiterà a “navigare a vista”. Il presidente del Consiglio presenterà infatti la “sua” proposta sulla riforma delle pensioni. Sarebbe un vero peccato se vertesse soltanto sulla questione del cosiddetto “scalone“, ossia sull’attenuazione del brusco innalzamento dell’età pensionabile (da 57 a 60 anni per i lavoratori dipendenti, da 58 a 61 per i lavoratori autonomi) introdotto dal precedente governo. Lungi dal configurare una riforma, limitare l’intervento al solo scalone costituirebbe invece un cedimento a quelle parti della maggioranza e del sindacato meno sensibili a progetti e visioni di lungo periodo.
Mentre ammorbidire lo scalone è possibile, il modo in cui l’attenuazione viene effettuata deve essere compatibile con la riaffermazione del metodo contributivo di calcolo della pensione, il punto forte della riforma del 1995, oggi a rischio.

Perché è importante dare attuazione al metodo contributivo

Il metodo contributivo, propriamente applicato, è l’unico in grado di garantire al tempo stesso sostenibilità finanziaria (cioè sostanziale equilibrio tra entrate e uscite) ed equità tra le generazioni, ossia di evitare che le pensioni corrisposte a una generazione siano basate sulla formazione di nuovo debito a scapito di quelle future. Il sistema è inoltre perfettamente compatibile con l’equità entro le generazioni, nel senso che ciascun lavoratore riceve una pensione corrispondente all’equivalente attuariale dei contributi versati, con eccezioni ispirate soltanto alla solidarietà e non alla creazione di privilegi. Per definizione, le eccezioni debbono essere trasparenti e limitate ai lavoratori meno fortunati.
Il metodo presenta anche un altro vantaggio, oggi oscurato dalla discussione sullo “scalone”, ossia la flessibilità nell’età di pensionamento, stabilita dalla riforma del 1995 all’interno della fascia di età 57-65, con un limite inferiore che coincideva, per i lavoratori dipendenti, con l’età minima richiesta (in combinazione con i trentacinque anni di contribuzione) per la pensione di anzianità.
L’alternativa al metodo contributivo è un sistema pensionistico governato dalla discrezionalità politica, ciò che in passato ha prodotto debito, inefficienza, iniquità.
Riaffermare oggi il metodo contributivo, quand’esso appare lontano e poco credibile, sarebbe una scelta forte, in contrasto con la pratica delle contrattazioni di piccolo cabotaggio tese a favorire le coorti vicine al pensionamento. Per fare ciò è essenziale approvare senza indugi i nuovi coefficienti di trasformazione.

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Il ruolo dei coefficienti per l’equilibrio e l’equità del sistema

I coefficienti indicano, per ciascuna età compresa nella fascia del pensionamento flessibile, l’importo della pensione per ogni euro di contributi maturati al pensionamento. Il capitale complessivo accumulato dipende, a sua volta, da tutti i contributi versati nel corso della vita lavorativa, e dalla loro “capitalizzazione” (un po’ come se fossero soldi depositati in banca), a un tasso che, anziché essere finanziario, coincide con la media quinquennale del tasso di variazione del prodotto lordo interno.
Il ruolo dei coefficienti è semplice. Si supponga che all’età 57 la vita attesa residua sia di venti anni (come media tra uomini e donne); in tal caso, il coefficiente potrebbe corrispondere a un ventesimo di ogni euro accumulato, e quindi sarebbe pari al 5 per cento. In realtà, i coefficienti incorporano anche un tasso di rendimento prefissato dell’1,5 per cento (come se il capitale accumulato, che viene corrisposto mese dopo mese in forma di pensione, fruttasse un rendimento) e quindi sono un po’ più alti di quelli che deriverebbero dalla semplice divisione del capitale per la vita residua al pensionamento. Tenendo conto che le pensioni sono poi indicizzate ai prezzi, questo metodo di calcolo anticipa ai pensionati un rendimento reale dell’1,5 per cento.
Il punto fondamentale dei coefficienti è che non sono costanti per età, ma si alzano all’aumentare dell’età di pensionamento, a riflettere la minore vita attesa residua. È questo un principio fondamentale di equità dal quale il sistema pensionistico non può prescindere.
Se si accetta questo principio base, ne discende immediatamente un corollario. La demografia non è costante; in particolare, la vita si allunga e le persone che oggi hanno 57 anni, o 60 o 65 vivono in media oltre due anni in più di coloro che avevano le stesse età nel 1995. Per questo la legge aveva previsto la revisione decennale dei coefficienti (già peccando di eccessiva timidezza, perché dieci anni sono un periodo troppo lungo, soprattutto in presenza di cambiamenti molto rapidi nella longevità). La prima revisione dei coefficienti era infatti prevista per il 2005, ma – nonostante l’Istat avesse fornito il dato e il Nucleo di valutazione della spesa pensionistica approvato la correttezza del procedimento di revisione – fu rinviata dal governo Berlusconi, il quale evidentemente riteneva di avere già “pagato” in impopolarità con l’approvazione, sia pure a effetto ritardato, dello “scalone” sull’età.
Da notare che mentre la revisione dei coefficienti in relazione all’accresciuta longevità è “dovuta” perché parte integrante della legge, variazioni del rendimento reale possono essere decise solo discrezionalmente. Non esiste nessun “adeguamento automatico” del rendimento reale e non c’è nessun legame con la crescita del Pil che insista sui coefficienti se non nella scelta di un rendimento a priori condivisibile.

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Perché rinviare ulteriormente è “costoso”

Il costo di un ulteriore rinvio non è però dato da un incremento di spesa previdenziale. Oggi le pensioni che contengono, pro rata, una quota contributiva sono molto poche: il periodo di inizio delle pensioni miste è all’incirca intorno al 2015. Il costo è piuttosto l’ulteriore perdita di credibilità della riforma del 1995, che molti già considerano sorpassata, con l’inevitabile ritorno alla discrezionalità politica del passato.
È vero: una frazione di pensioni contributive o miste potranno risultare troppo basse, ma non è alzando artificiosamente le pensioni di tutti che si risolve il problema. Anzi, l’impostazione può essere rovesciata: tanto più il sistema pensionistico è in equilibrio, tanto più facile sarà trovare le risorse per proteggere i futuri pensionati i cui redditi saranno al di sotto una certa soglia. L’aggiustamento del sistema pensionistico può, in altre parole, permettere di trovare strumenti più efficaci a copertura del rischio povertà, senza le forzature del passato, in gran parte responsabili degli squilibri presenti e futuri del sistema stesso. Non soltanto: l’aggiustamento immediato non è incompatibile con l’insediamento di una commissione tecnica che studi il dettaglio del metodo contributivo e proponga accorgimenti per migliorarne il funzionamento, mentre l’opposto (ossia aspettare i lavori della commissione per approvare i nuovi coefficienti) non può che essere considerato un escamotage per affossare il metodo.

Come è possibile ammorbidire lo scalone coerentemente con il metodo contributivo

La revisione dei coefficienti offre anche una soluzione coerente e sostenibile per l’attenuazione dello scalone. Si è detto che la fascia di età prevista nel 1995 era compresa tra 57 e 65, e che l’aspettativa di vita a queste età è aumentata di oltre due anni nel periodo. Ciò significa che la fascia va alzata di due anni, e quindi portata a coincidere con le età 59 – 67 a partire dal 2008. In coerenza con la “filosofia” della riforma del 1995, l’età minima per la pensione di anzianità dovrebbe essere quindi portata anch’essa a 59. I risparmi di spesa che si perderebbero sarebbero a nostro avviso più che compensati dall’aumento di credibilità, e dalla maggiore sicurezza sulle spese future, che si avrebbe con il rinnovato sostegno a un disegno pensionistico equo ed equilibrato.

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Sommario 13 luglio 2007

  1. Giacomo Dorigo

    Io personalmente sono rimasto attonito quando ho letto le seguenti parole di colui che dovrebbe essere il nuovo leader di una delle due possibili formazioni alternative (ammesso che il sistema bipolare rimanga), Veltroni:

    “Pensate alla portata straordinaria dell’innovazione introdotta più di trent’anni fa nella previdenza pubblica dall’adozione del sistema cosiddetto a ripartizione, che sostituiva quello a capitalizzazione, nel quale ognuno versava i contributi “per sé”: io lavoratore in attività pago oggi i miei contributi, che vengono usati per pagare le pensioni ai pensionati di oggi, in nome del patto, garantito dallo Stato, che prevede che i lavoratori attivi di domani pagheranno a loro volta la mia pensione… e così via, in un sempre rinnovato rapporto di solidarietà tra le generazioni.”

  2. Calabresi Giorgio

    Il contributivo non basta a portare equilibrio.
    Tutti gli economisti non si stancano mai di lodare, peraltro giustamente, il sistema contributivo perché è l’unico, finora conosciuto, che garantisce il massimo dell’equità, per cui, ben venga l’aggiornamento dei coefficienti o lo spostamento in avanti dell’età pensionabile. Questi aggiustamenti però non bastano perché danno per scontato che il rapporto attivi/pensionati si mantenga sempre in equilibrio mentre la realtà è ben diversa. Il rapporto suddetto, nelle nostre società industrializzate che si avviano inesorabilmente verso il declino e l’invecchiamento, è in continua involuzione; tra 20 -30 anni il rapporto attivi/pensionati sarà grandemente deteriorato e i contributi versati dai lavoratori in attività non saranno sufficienti, a pagare le pensioni a quelli in quiescenza, in verità già oggi lo Stato interviene per sopperire alla mancanza di contribuzione, nel prossimo futuro, però, potrebbe non farcela. Quando ragioniamo di sistema contributivo pensiamo di essere in un sistema a capitalizzazione reale dove il lavoratore con i suoi contributi fa crescere un pacchetto finanziario che alla fine del periodo lavorativo gli fornirà la rendita con la quale potrà soddisfare le sue esigenze; facendo ciò, però, cadiamo in errore perché operando in un sistema a ripartizione che trova il suo fondamento nel patto generazionale, i suoi contributi servono solo per pagare le pensioni dei suoi genitori; se il lavoratore vuole la pensione deve necessariamente provvedere al ricambio, altrimenti non può vivere nel sistema a ripartizione; se vorrà la pensione la dovrà cercare nel sistema a capitalizzazione reale sottoscrivendo un fondo pensione. Il sistema contributivo serve solo per determinare il giusto importo della pensione; se vogliamo equilibrio nel sistema a ripartizione, occorre stornare dal medesimo tutte le posizioni di lavoratori senza figli.

  3. Antonio ORNELLO

    L’evidente disparità di trattamento tra lavoratori autonomi, lavoratori dipendenti e dipendenti donne, nel caso essi abbiano diritto a pensione alla stessa età, con medesima anzianità contributiva e di lavoro effettivo (pari o superiore a 40/41 anni), con uguale ultima retribuzione ed identico montante contributivo rivalutato finale, porta all’incostituzionalità del decreto in oggetto e della relativa legge di conversione n. 417 del 27/11/2001, laddove impedisce, ai soli dipendenti uomini, di accedere al pensionamento secondo il metodo ed il sistema di calcolo contributivo. Faccio l’esempio che mi riguarda: nel 2011, a 59 anni anagrafici e con 41 anni di contributi, avrei diritto ad una pensione contributiva di € 85.000 lordi annui (pari al 5% del montante di € 1.700.000), ma andrò a percepire € 47.560 lordi, cioè praticamente la metà (ma non era più favorevole il retributivo?). In alternativa alla dichiarazione d’incostituzionalità sono possibili, a mio parere, diverse strade, senza considerare, adesso, le pensioni di riversibilità: 1) la restituzione dei contributi versati in eccesso; 2) la riapertura dell’opzione di scelta tra contributivo e retributivo; 3) un extra-rendim..

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