Con una recente sentenza, la Corte Suprema ha eliminato il divieto “per se” per il produttore di imporre un prezzo minimo al dettaglio al distributore, che pur con alterne vicende resisteva dal 1911. Si procederà d’ora in avanti con la logica del caso per caso. Eppure, la letteratura economica mette molto più l’accento sui rischi anticompetitivi che sui vantaggi sociali del prezzo minimo imposto. E dunque la vecchia regola avrebbe forse tutelato meglio i consumatori. Rimane adesso da vedere quale orientamento prenderà la Commissione europea.

Con la sentenza della Corte Suprema del 28 giugno 2007 sul caso Leegin è venuta meno una quasi secolare tradizione giurisprudenziale dell’Autorità antitrust Usa, avviata sin dal caso Dr. Miles del 1911: considerava tutte le varie forme di imposizione di prezzo al dettaglio fatte dal produttore al distributore, in primis il prezzo minimo, come vietate di per sé (per se rule). Si riteneva che le restrizioni non potessero che avere effetti anticoncorrenziali prevalenti. Tale regola viene ora abbandonata e sostituita dalla rule of reason, che abilita l’Autorità antitrust a procedere con la logica del caso per caso.

La differenza tra imposizione di prezzo massimo e prezzo minimo

È stata una decisione sofferta, quella della Corte Suprema, presa con quattro giudici dissenzienti. Si inserisce comunque in un trend consolidato e ultradecennale volto all’indebolimento, e in definitiva all’eliminazione, del divieto per se su tutte le restrizioni verticali in uso tra produttori e distributori, anche le più controverse. Si può infatti ricordare che dal 1937 al 1975 la legislazione antitrust americana ha sospeso il divieto per se del prezzo imposto dal produttore. (1)
Nel 1975 il principio applicato nel caso Dr. Miles è stato reintrodotto, ma subito dopo è stato indebolito con una serie di sentenze tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta. Nel 1977, ad esempio, nel caso Sylvania è stato eliminato il divieto per se sui contratti verticali “non di prezzo” come la distribuzione esclusiva e territoriale. Nel 1997 con il caso State Oil è stato tolto il divieto per se sul prezzo massimo imposto dal produttore. Rimaneva dunque il divieto per se solo sui casi più controversi: la fissazione di un prezzo minimo imposto o di un prezzo imposto tout court. Ora è saltato anche su questi.
Nell’analisi economica, tuttavia, se è condiviso che un prezzo massimo imposto dal produttore possa avere importanti effetti benefici per la società, in quanto limita l’abilità del distributore di applicare un proprio margine di profitto e quindi rende possibile tenere più bassi i prezzi per i consumatori, è molto più controverso il caso del prezzo minimo imposto dal produttore (o del prezzo imposto tout court). Mentre sembrano chiari e significativi i suoi effetti anticompetitivi, rimangono dubbi e di incerta quantificazione gli effetti positivi.
Tra gli effetti anticompetitivi, non vi è dubbio che un prezzo minimo imposto indebolisce la concorrenza tra i distributori (intrabrand competition) e quindi più che probabilmente rende più alti i prezzi ai consumatori. Inoltre, può costituire una leva per i produttori con cui aumentare il grado di stabilità e di tenuta dei propri cartelli. Tra i più importanti effetti positivi, si può annoverare l’essere uno strumento per impedire a un distributore di fare free riding sui servizi promozionali da erogare alla clientela prima della vendita. Si vuole impedire ad esempio che i clienti raccolgano informazioni sul prodotto (poniamo un pc) da un distributore tradizionale, per poi realizzare l’acquisto da un distributore online che non dà servizi informativi alla clientela, ma concede un robusto sconto. Un secondo vantaggio, rilevante soprattutto nel caso dei beni di lusso, è di impedire che i clienti inferiscano erroneamente da sconti osservati nel prezzo una riduzione della qualità del prodotto, a discapito della reputazione del produttore. Molto più dubbio è invece che il prezzo minimo imposto renda più effettiva la concorrenza tra i produttori (interbrand competition), come pure sostenuto dalla Corte Suprema. Perché mai questo dovrebbe accadere? Il ragionamento economico non viene esplicitato nella sentenza.

Leggi anche:  Paesi in via di sviluppo: quali politiche per le catene del valore

Il caso Leegin

Nel caso di specie, un produttore di articoli in pelle, Leegin, è stato accusato da un distributore texano di avergli imposto un prezzo minimo da praticare al consumatore su una linea di cinte da donna presente sul mercato con il marchio “Brighton”. Leegin voleva in tal modo lasciare un margine di profitto alto ai distributori in modo da favorire le piccole boutique specializzate, rispetto ai grandi magazzini, in grado di assicurare al cliente un servizio di assistenza pre-vendita più accurato e personalizzato, che aiutava a mettere maggiormente in risalto il brand. La denuncia parte allorché il distributore texano, che vende il prodotto con uno sconto del 20 per cento rispetto al prezzo minimo indicato da Leegin, si vede rifiutare, da parte di quest’ultima, ulteriori acquisti del prodotto. La Corte Suprema, in opposizione a quanto stabilito nei giudizi di grado più basso, ha ritenuto che non si dovesse applicare il divieto per se alla pratica, come chiedeva il distributore texano, ma che si dovesse entrare nel merito del caso.
È pur vero che un prezzo minimo imposto in cui siano prevalenti gli effetti anti-competitivi può ancora essere vietato con la rule of reason, ma come consumatore mi sarei sentito più tutelato con il divieto per se.

Cosa farà la Commissione europea?

Resta da vedere se la Commissione europea recepirà la decisione della Corte Suprema americana. Da un lato, potrebbe farlo, come già avvenuto per il prezzo massimo imposto con il regolamento n. 2790/99 all’articolo 4(a). Dall’altro tuttavia, il caso Leegin ha analogie con quello della distribuzione selettiva, esclusiva e territoriale dei produttori automobilistici, in cui poco tempo fa la Commissione, con il regolamento n. 1400/02, ha espresso un orientamento di maggiore severità volto a non permettere l’uso di qualsiasi forma di accordo verticale. (2) Anche i produttori di automobili, come Leegin, desideravano ridurre la concorrenza tra i distributori al fine di aumentare il loro margine di profitto e dargli così il giusto incentivo a fornire una buona assistenza al cliente sia pre- che post-vendita. La Commissione europea si mostrò molto preoccupata del fatto che l’eccessivo indebolimento della concorrenza tra i concessionari potesse contribuire in modo significativo a mantenere elevati i prezzi delle automobili e da questa preoccupazione nacque un regolamento di esenzione più severo del precedente. Tra l’altro, il regolamento all’articolo 4.1(a) afferma che l’esenzione non si applica agli accordi verticali in cui venisse utilizzato un prezzo minimo imposto dal produttore o un prezzo imposto tout court.
Si tratterebbe dunque, in caso di recepimento dell’orientamento americano, di una brusca virata rispetto agli orientamenti seguiti nel periodo in cui Mario Monti era commissario alla Concorrenza dell’Unione Europea.

Leggi anche:  Nel Mar Rosso non tutte le imprese sono sulla stessa barca

(1) È stato fatto questo attraverso il Miller-Tydings Resale Price Maintenance Act del 1937 e con il McGuire Act del 1952.
(2) Nel caso delle automobili si trattava della distribuzione selettiva con esclusiva territoriale e non di un prezzo minimo imposto.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Nel Mar Rosso non tutte le imprese sono sulla stessa barca