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Le nebbie inglesi di Valentino Rossi

A prima vista, il sistema fiscale britannico non sembra particolarmente vantaggioso, con un’aliquota marginale dell’imposta sui redditi del 40 per cento. Fondamentale è però la distinzione tra residenti e residenti non domiciliati. I primi sono soggetti a imposta sui redditi ovunque prodotti, i secondi sono tassati sui soli redditi realizzati nel Regno Unito o prodotti altrove e rimpatriati. Tutti gli altri restano sottratti a tassazione. Ed è vero che il Fisco italiano può contestare il trasferimento di residenza, se fittizio, come ha fatto con il campione delle due ruote. Ma ha l’onere della prova.

Londra è una città affascinante. Non sarà un posto esotico come Bahamas, o soleggiato come Monaco, ma è comoda da raggiungere e offre tutto quello che si può desiderare, in termini di vita sociale e divertimenti. Forse è per questo che è diventata la meta privilegiata dei magnati russi, e non solo. Ma, forse, è anche perché nel Regno Unito si possono pagare poche tasse.
Le cronache di stampa hanno dato notevole risalto al contenzioso tra il Fisco italiano e Valentino Rossi. La vicenda è così diventata, come sempre più spesso accade nei mass media, argomento da gossip, mentre invece dovrebbe indurre a riflettere sulle nuove modalità di pianificazione fiscale all’interno dell’Unione Europea. In sostanza, perché proprio il Regno Unito?

Conviene ancora emigrare in un paradiso fiscale?

Nel sistema fiscale italiano, l’imposta sui redditi delle persone fisiche è applicata in modo distinto a seconda che il contribuente sia o meno residente: nel primo caso è tassato sui redditi ovunque prodotti (cosiddetto world wide taxation principle), mentre nel secondo solo su quelli realizzati nel territorio dello Stato.
Per sfuggire all’imposizione in Italia, una forma tradizionale quanto rudimentale di pianificazione è rappresentata dallo spostamento della residenza in un paese “a bassa fiscalità“. In questo modo, diventano tassabili nel paese originario di residenza (l’Italia) solo i redditi ivi prodotti (1), mentre sfuggono quelli (tutti gli altri) realizzati al di fuori. A questi ultimi, sarà applicabile solo la bassa (oppure nulla) imposizione vigente nel paradiso fiscale di nuova residenza.
Un tale espediente risulta però oggi di difficile attuazione per effetto della disciplina, introdotta all’articolo 2, comma 2-bis del Tuir, che, invertito l’onere della prova circa la residenza di un soggetto, ha stabilito che spetta al soggetto trasferito provare che effettivamente il centro dei propri affetti e dei propri affari (nozione sostanziale di residenza) non è più localizzato in Italia bensì nel paradiso fiscale. In difetto di tale prova, difficile da fornire nei trasferimenti fittizi, l’amministrazione finanziaria può continuare a considerare i soggetti residenti e tassarli di conseguenza. Sennonché, questa particolare presunzione opera solo nei casi di trasferimento della residenza verso taluni paesi, caratterizzati da imposizione sui redditi con aliquote particolarmente basse o nulle, espressamente individuati con un decreto ministeriale. (2) Tra questi, non è annoverato il Regno Unito.

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O è meglio la nebbia di Londra?

Quanto detto, non risponde però ancora alla domanda: perché proprio Londra?
A prima vista, peraltro, il sistema fiscale britannico non sembra così vantaggioso, se si considera che l’aliquota marginale dell’imposta sui redditi è del 40 per cento: non proprio un’aliquota di favore.
Il discorso tuttavia cambia se dall’aliquota si passa a considerare i redditi tassabili, perché la particolarità (o, meglio, la convenienza) del regime britannico sta proprio nella loro individuazione.
Fondamentale è la distinzione tra residenti e residenti non domiciliati. Se, per regola generale, i residenti sono soggetti a imposta sui redditi ovunque prodotti, i residenti non domiciliati sono tassati sui soli redditi realizzati nel Regno Unito nonché su quelli prodotti altrove e rimpatriati. (3) Nel caso di residenti non domiciliati, pertanto, i redditi prodotti all’estero e non fatti rifluire nel Regno Unito restano sottratti a tassazione. (4)
Per un’integrale soggezione all’imposta sui redditi britannica, insomma, non basta essere residenti nel paese; occorre esservi anche domiciliati. E – semplificando il discorso – se la residenza è relativamente facile da acquisire (ad esempio, con la permanenza per almeno 183 giorni; o con un periodo di permanenza medio di 91 giorni su quattro anni; o con l’acquisto di un’abitazione), anche evitare di prendere il domicilio non risulta poi così complesso: per essere domiciliati nel Regno Unito occorre manifestare (anche su appositi moduli) l’intenzione (animus manendi) di restare nel paese indefinitamente. (5) Diversamente, non si è considerati domiciliati, senza che ciò comprometta la questione della residenza.
Appare insomma relativamente semplice acquisire lo status di residente non domiciliato. La convenienza di tale status, tuttavia, si apprezza in particolare per coloro che realizzano ingenti redditi all’estero e che possono evitare di farli confluire nel Regno Unito. E così, discriminando i residenti domiciliati (in primis i cittadini britannici) (6) da quelli non domiciliati, ecco realizzate le condizioni per un regime estremamente appetibile per immigrati facoltosi: un regime, a ben vedere, da vero e proprio paradiso fiscale. (7)

Ma il Fisco sta a guardare?

La quadratura del cerchio, per colui che intende spostare la propria residenza per ragioni fiscali, sembra realizzata: una sostanziale detassazione dei redditi prodotti, senza che si renda applicabile alcuna disposizione antielusiva. Il gioco non è però così semplice.
Il fatto che il Regno Unito non rientri tra i paesi cui è applicabile l’articolo 2 comma 2-bis del Tuir, non significa che il Fisco (italiano) sia privo di strumenti di controllo. Se l’amministrazione finanziaria prova che di fatto, e per almeno 183 giorni nell’anno, il centro principale degli affari e interessi oppure dei rapporti morali, sociali e familiari è situato in Italia, il soggetto può essere considerato fiscalmente residente in Italia, nonostante lo status di residente, non domiciliato, britannico. Il trasferimento di residenza, se fittizio, resta insomma contrastabile. Rimane però il fatto che l’onere della prova incombe qui sul Fisco e ciò, indubbiamente, rende più difficoltoso avversare trasferimenti meramente fittizi di residenza.
Ed è per questo, forse, che le nebbie di Londra appaiono preferibili al sole dei Caraibi. Il modo migliore per nascondere qualcosa è lasciarlo in bella mostra sul tavolo; ma se c’è anche la nebbia, è meglio: la nebbia confonde le forme, perché nella nebbia “nessun essere conosce l’altro”. (8) Almeno fino al momento in cui l’efficiente funzionario fiscale, riesce, nella nebbia, a penetrare.

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(1)
Come è il caso dei redditi degli immobili presenti sul territorio.
(2) Dm 4 maggio 1999.
(3) Cosiddetta Taxation on the remittance basis.
(4) Ma anche questa regola è eludibile (Cfr. G. Clarke, “Offshore tax planning”, 2004, pag. 125).
(5) Per coloro che non lo sono dalla nascita.
(6) Nel 1997, Gordon Brown, allora Cancelliere, aveva annunciato come imminente un cambiamento delle regole sul domicilio ai fini fiscali. Di tale cambiamento, tuttavia, sembra essersi persa traccia.
(7) Emblematica la voce Taxation in the United Kingdom su Wikipedia: “for individuals resident but not domiciled in the UK (…) the UK is sometimes called a tax haven” (http://en.wikipedia.org/wiki/Taxation_in_the_United_Kingdom).
(8) H. Hesse, Nella nebbia.

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10 commenti

  1. AC

    Credo che il ns. eroe su due ruote (malgrado le recenti difficoltà, resta pur sempre un mito delle corse) abbia la possibilità di dimostrare che veramente il suo centro principale di business non è in Italia per più di sei mesi l’anno, non fosse altro che per motivi di lavoro.
    Giusto o non giusto che sia…

    Il problema, però, non è Valentino, né chi come lui approfitta delle norme in essere, ma è della mancanza di coordinamento fiscale internazionale.

  2. MT

    Premetto che ho grande simpatia per Valentino,che probabilmente ha l’unica “colpa” di essersi affidato a consulenti fiscali un po’ disinvolti. Detto questo, se è vero che non può essere applicato l’art. 2 comma 2 bis, non essendo l’Inghilterra un paradiso fiscale, come ricordato nell’articolo può comunque essere applicato l’art. 2 comma 2 del TUIR. Forse la mia è una domanda banale ma…”se Rossi non era domiciliato in Inghilterra, qual’era il suo domicilio in quel periodo?” un domicilio l’avrà pur avuto….

    • La redazione

      Il problema, come abbiamo cercato di evidenziare, è appunto di individuare l’effettivo domicilio del contribuente. Nel momento in cui non è applicabile la presunzione di cui all’art. 2, comma 2-bis, spetta però all’amministrazione dimostrare che il domicilio (che è uno dei criteri con cui la legge italiana determina la residenza ai fini fiscali) è an-cora nello Stato. Piuttosto, cogliamo l’occasione per chiari-re che nel nostro articolo non abbiamo voluto (ne potuto) e-sprimere alcun giudizio sulla vicenda di Rossi. Il suo caso ci ha offerto solo lo spunto per discutere di un fenomeno (cambio della residenza in GB per beneficiare del regime dei residenti non domiciliati) che ha trovato adepti: non siamo però ovviamente nelle condizioni di esprimere alcuna valuta-zione sulla specifica vicenda di Rossi.

  3. FB

    A mio avviso il vero problema è che uno come Valentino Rossi, che guadagna milioni di Euro, che fa pubblicità in Italia, che ha un’immagine positiva, invece di dare il buon esempio ritiene “normale” fare il furbo e non pagare le tasse.
    E’ sbagliato il principio, l’idea, anche solo l’intenzione di cercare un modo per non pagare.
    Inutile considerare prioritario l’obiettivo di combattere l’evasione se tutti noi non ci sentiamo indignati da un comportamento del genere.
    Invece in fondo pensiamo che lui abbia fatto bene a fare il furbo e continuiamo a fare il tifo per lui anche in questa battaglia contro il fisco.

  4. DM

    Il caso di Valentino è solo la punta dell’iceberg. In ragione di ciò andrebbero fatte indagini ben più mirate ed efficaci e non intorbidare le acque quando si sa oggi che è prassi diffusa l’utilizzo di certe macchinazioni finanziare artificiose tanto quanto ineluttabilmente pregiudizievoli per il fisco nostrano.

  5. tobia desalvo

    Domanda: nell’articolo si dice che ‘Nel sistema fiscale italiano, l’imposta sui redditi delle persone fisiche è applicata in modo distinto a seconda che il contribuente sia o meno residente: nel primo caso è tassato sui redditi ovunque prodotti (cosiddetto world wide taxation principle), mentre nel secondo solo su quelli realizzati nel territorio dello Stato.’ Cioè chi è residente all’estero e paga tutto all’estero deve all’Italia le tasse sui redditi prodotti in Italia? In cirtù di che cosa si ritiene una persona ‘contribuente verso il fisco italiano’? Grazie, tobia

    • La redazione

      La regola generale, formulata dall’art. 2 del Tuir, è proprio quella per cui, se un soggetto è residente, paga le imposte sui redditi ovunque prodotti, mentre se non è residente le paga (in Italia) solo sui redditi prodotti nel territorio dello Stato (all’art. 23 del Tuir sono poi elencate le condizioni per cui un reddito si considera prodotto nel territorio dello Stato).
      Si pone, evidentemente, il problema di stabilire quando un soggetto va considerato residente. Al riguardo, interviene ancora l’art. 2, che ci dice che si considera residente in Italia chi ha in Italia, per la maggior parte del periodo d’imposta (183 giorni), alternativamente: l’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente; la residenza (ci-vilistica e quindi, ex art. 43 del c.c. il luogo di dimora abituale) oppure il domicilio (ex art. 43 del c.c. il luogo dove si è stabilita la sede principale degli affari ed inte-ressi). Basta uno solo di questi tre indici, purché di durata non inferiore al periodo predetto.
      Questa regola, però, è una regola nazionale, nel senso che gli altri Paesi a loro volta hanno poi regole proprie su se e come tassare i residenti ed i non residenti nonché sulla no-zione di residente. Nasce, da qui, il problema della possibi-le doppia imposizione, come pure quello della non imposizio-ne, sui redditi prodotti in un Paese da un soggetto residente in un altro. Per scongiurare questi problemi vengono stipula-te, tra i diversi Stati, delle cd. Convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni, che cercano, dove possibile, di stabilire quale Stato firmatario della Convenzione può tassa-re e come un dato reddito prodotto in uno Stato da un sogget-to residente nell’altro.

  6. F. Ballarini

    Ho gioito incondizionatamente per le vittorie di Valentino Rossi fino a quando ho cominciato a pensare che un “sovrano illuminato” ( il Presidente della Repubblica ?, il Premier? ….) dovrebbe diffondere insistentemente tra gli italiani il concetto che essi formino una “comunità” ”(1) e che, pertanto, debbano essere, da noi tutti, lodati ed onorati gli italiani che si adoperano a favore della comunità nazionale e siano invece disapprovati e biasimati coloro che si comportano scorrettamente verso di essa.

    Valentino è italiano, è cresciuto in Italia, i suoi fan sono in larga parte italiani, l’abbiamo amato e coccolato, “addottorato” e lui che cosa ha fatto per la comunità degli italiani in segno di gratitudine ?

    Purtroppo, gli italiani hanno quella che chiamo “la sindrome del brigante” : quando nella Napoli dei Borboni il brigante assaliva la carrozza del nobile derubandolo, tutto il popolo lo applaudiva e si identificava in lui, come facciamo tuttora noi quando invidiamo chi deruba lo stato o gli altri italiani e fa il furbo.

    (1) [ Anche se mi rendo conto che Tony Blair aveva a che fare con un popolo diverso, non farebbe male anche alle istituzioni studiare come ha diffuso il concetto di comunità nel suo paese. Al governo di centrosinistra, farebbe bene studiare come il suo team ha impostato la comunicazione politica –si veda Lidia De Michelis, L’Isola e il Mondo. Intersezioni culturali nella Gran Bretagna d’oggi, Milano, Franco Angeli, 2005].

  7. LS

    Spiacente, ma non mi sento indignato nei confronti di Valentino Rossi. Il Valentino rischia la pelle per guadagnare molti soldi. Altri, nell’amministrazione pubblica e nell’ambito politico, sperperano i soldi delle nostre tasse. Lui si difende cercando il modo di non farsi fregare più del necessario. Il resto sono chiacchere. Il pesce comincia a puzzare dalla testa!

  8. Alessandro Sciamarelli

    Dichiaro la mia assoluta incredulità a leggere il commento del signor LS. Secondo lui il fatto di “rischiare la vita” in qualche modo avalla la possibilità di fregare il fisco (e dunque di non pagare scuole, ospedali, giustizia ecc. come fanno per forza di cose tutti i lavoratori dipendenti tassati alla fonte).
    Mi chiedo dove e come V.R. “rischiasse la vita” quando firmava contratti di sponsorizzazione con varie marche di birra altri brand per svariati milioni di euro di nascosto al fisco. Lo vada a dire ai tanti che, in silenzio, ogni giorno rischiano la vita per molto meno (nei cantieri ecc.ecc.). Quando si superano certe soglie di evasone (oltre i 100 mln) non si può parlare di evasione “veniale”. Per non parlare del solito populismo, come se il fatto di avere una classe politica sprecona e spendaccione sciogliesse i cittadini dall’obbligo morale di mostrarsi, almeno loro, più degni di dare l’esempio.
    Ma questo modo di pensare è sintomatico. Quando in un paese si diffonde l’idea per cui non esiste più alcun valore civile in cui valga la pena credere e che l’unica cosa che conta è fregare il prossimo (sia esso lo Stato, il fisco, oppure gli altri cittadini, vedi le prove selettive di medicina all’Università), siamo alla frutta o quasi.

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