La necessità di contenere i gruppi piramidali appare difficilmente discutibile. Ma come? Se una soluzione per legge del problema è alquanto difficile da attuare, l’alternativa è utilizzare la via fiscale. Che sembra in grado di condurre spontaneamente verso equilibri più rispettosi degli interessi delle minoranze. Anche perché è sempre più impellente dare una risposta all’interrogativo su che cosa effettivamente possa giustificare il trattamento fiscale di favore da sempre riservato alle piramidi societarie nel nostro paese.
Dal recente convegno di Courmayeur su "Rapporto tra proprietà e controllo nell’impresa", sono emerse diverse critiche alla proposta di legge del senatore Zanda volta a contenere le piramidi societarie di Piazza Affari. (1) Le principali obiezioni riguardano, da una parte, l’"incertezza" che si verrebbe a creare relativamente alle quote effettivamente necessarie in assemblea al fine di acquisire il controllo di una società quotata; dall’altra, l’indesiderato e non trascurabile appesantimento dell’attività della Consob.
Obiettivi e metodi
Il dibattito sembra in realtà caratterizzato da un’ambiguità di fondo che tende a confondere obiettivi dell’intervento e metodo da seguirsi. L’obiettivo, ossia la necessità di contenere i gruppi piramidali, appare difficilmente discutibile, alla luce del fatto che il nostro contesto inverosimilmente potrà caratterizzarsi, almeno nel breve periodo, da un’elevata tutela delle minoranze azionarie e da un’effettiva applicazione delle leggi.
Il problema sembra spostarsi quindi sul metodo. Concordiamo con le obiettive difficoltà già sollevate da giuristi ed economisti che potrebbero derivare da una soluzione "per legge" del problema, e un rapido esame delle esperienze maturate in altri paesi suggerisce una via alternativa alquanto più efficace: la via fiscale.
Questa alternativa è in grado di condurre spontaneamente verso equilibri più rispettosi degli interessi delle minoranze.
L’esempio di Italcementi
Per facilitare l’articolarsi del ragionamento ricorriamo a un esempio concreto. Mediante estrazione casuale dalla popolazione di società quotate che controllano almeno un’altra società quotata, la scelta è ricaduta su Italmobiliare, holdingdel gruppo Pesenti, e sulla sua controllata Italcementi, attraverso una partecipazione del 58,7 per cento del capitale con diritto di voto (fonte: Consob), anch’essa quotata a Piazza Affari.
Un rapido sguardo al sito di Borsa Italiana evidenzia come quest’ultima, con 177 milioni di azioni in circolazione, abbia distribuito a maggio di quest’anno un dividendo per azione pari a 0,36 euro, che comporta un dividendo a livello aggregato pari a poco meno di 64 milioni di euro (177×0.36). Di questa cifra, il 58,7 per cento (circa 37 milioni) è confluita nelle casse della holding del gruppo.
Innanzitutto, è ovvio rammentare come su questi redditi Italcementi abbia già sopportato una prima tassazione a livello d’impresa. D’altro canto, in questa sede si intende spostare l’attenzione sulla tassazione sopportata a livello di gruppo in seguito alla tipica configurazione piramidale. Un breve excursus storico e l’aiuto della tabella riportata consentirà di confrontare l’effetto delle varie alternative di tassazione su tale onere.
Prima della Riforma Tremonti: il sollievo del credito d’imposta
Prima della Riforma Tremonti, il controllante finale (Pesenti) si sarebbe trovato in una situazione estremamente favorevole. Italmobiliare (controllante) sarebbe sì stata nuovamente sottoposta a tassazione sul dividendo percepito da Italcementi (controllata) ma avrebbe al contempo beneficiato del riconoscimento del credito d’imposta per la somma già versata all’Erario dalla controllata. La legge "Pandolfi", la n. 904 del 1977, si poneva proprio questa finalità evitando il doppio prelievo sulla stessa materia imponibile. Come è facile intuire, tale disposto contribuì significativamente, insieme a altre agevolazioni riconosciute sui conferimenti (2), alla costituzione di gruppi piramidali: i dividendi infra-gruppo potevano ora agevolmente transitare attraverso i vari livelli della piramide societaria senza alcun onere aggiuntivo per il controllante. D’altra parte, a seguito dell’annoso conflitto tra principio di libera circolazione dei capitali e riconoscimento del credito d’imposta esclusivamente sui dividendi erogati da parte di società residenti (3), il credito d’imposta avrebbe dovuto essere abolito. Tale provvedimento fu preso in occasione della riforma Tremonti.
L’illegittimità del credito d’imposta: verso la doppia imposizione?
Se da una parte la necessità di eliminare il credito d’imposta divenne impellente, un intervento in questa direzione avrebbe introdotto un onere particolarmente gravoso per l’industria italiana caratterizzata da imprese che nella stragrande maggioranza appartenevano a gruppi. Come si evince dalla seconda colonna della tabella, nel nostro caso il costo di tale modifica si sarebbe tradotto in un onere aggiuntivo di 12 milioni di euro l’anno: una volta entrati nelle casse di Italmobilare infatti, i 37 milioni di euro sarebbero stati ri-sottoposti ad aliquota Ires del 33 percento (37×33%) senza alcun diritto al riconoscimento del credito d’imposta aggiuntivo. Tale costo sarebbe poi dovuto essere ri-sostenuto a ogni passaggio di dividendo da una società all’altra, con ulteriore aggravio di costo per il controllante finale. Applicando un semplice modello di Gordon (4) al caso considerato, il valore bruciato si sarebbe attestato intorno ai 311 milioni di Euro (riportato nell’ultima riga della tabella). Tale ammontare non appare certo irrilevante considerando: i) che il dividendo pagato da Italcementi è inferiore al dividend yield medio pagato dalle società quotate nel 2007; ii) che la società capitalizza intorno ai 2,8 miliardi di euro e che quindi verrebbe bruciato più del 10 per cento dalla capitalizzazione complessiva; iii) che tale costo verrebbe a configurarsi a ogni passaggio societario.
Un’attenuazione alla doppia imposizione
Abbiamo utilizzato il condizionale perché in realtà, al fine di evitare questo doppio prelievo (che potrebbe persino diventare triplo o quadruplo a seconda del numero di società interposte), la riforma Tremonti ha quasi annullato tale onere, riconoscendo ai dividendi erogati a favore di società una esenzione pari al 95 per cento degli stessi. Nel caso in esame, questo implicherebbe che dei 37 milioni percepiti da Italmobiliare solo il 5 per cento costituirebbe reddito imponibile in capo alla holding, ossia circa 1,9 milioni di euro, e che quindi solamente 617mila euro (33%x1.9), rispetto ai 12 milioni precedenti, rappresenterebbero un costo originato dalla piramide societaria. In termini di valore attuale, dunque, l’onere si ridurrebbe a 16 milioni di euro rispetto ai 312 precedenti.
Se ciò non fosse sufficiente a costituire almeno una prova indiziaria del favore rivolto dal legislatore fiscale nei confronti delle piramidi societarie, si potrebbe aggiungere un’ulteriore considerazione. Sempre nel nostro caso, Italcementi e Italmobiliare, usufruiscono di un’ulteriore agevolazione prevista dalla riforma, avendo optato per il consolidato fiscale. Alle società è infatti riconosciuta l’opportunità, in quanto legate da una partecipazione superiore al 50 per cento, di presentare un’unica dichiarazione fiscale congiunta in cui far confluire gli imponibili di tutte le società rientranti nell’area di consolidamento. È ovvio che l’imponibile determinato a livello complessivo di gruppo piuttosto che di singola impresa comporta un vantaggio fiscale per i gruppi. L’imposta pagata è determinata in un unico momento e non si devono sopportare oneri aggiuntivi in occasione di transiti di dividendi da una società all’altra. In sostanza, si viene a ricadere nello scenario di neutralità di tassazione che caratterizzava il credito d’imposta.
Come si evince dall’ultima riga della tabella, il burning money generato dai dividendi intersocietari nei vari scenari risulta altamente disperso a seconda del regime di tassazione previsto dalla normativa. Questa considerazione suggerisce come la leva fiscale possa rappresentare uno strumento efficace e relativamente semplice al fine di far evolvere spontaneamente verso strutture proprietarie maggiormente rispondenti alle finalità del policy maker. A corroborare tale conclusione si aggiunga il fatto che quest’ultimo, avendo avuto storicamente un occhio di riguardo per il fenomeno dei gruppi, abbia sempre prestato particolare attenzione a non penalizzarli eccessivamente, incentivandoli dapprima e poi mai osteggiandoli in seguito.
Cosa accade negli altri paesi?
Anche negli Stati Uniti, questo tema è stato al centro di un annoso dibattito ripreso recentemente in occasione della riforma Bush (28 maggio 2003). Per rilanciare l’economia, l’intervento è stato rivolto a contenere la doppia tassazione che colpiva i redditi prodotti dalle imprese prima in capo alla società e poi in capo alle persone fisiche che venivano a percepirli. Il contenimento è stato ottenuto riducendo la tassazione per le persone fisiche. Non è un caso il fatto che la stessa facilitazione non sia stata riconosciuta ai dividendi percepiti dalle società, proprio al fine di disincentivare il ricorso alle piramidi particolarmente osteggiate nel paese. Più in particolare, l’esenzione totale è stata prevista unicamente se la società a monte controlla una quota piuttosto elevata del capitale della partecipata, maggiore dell’80 per cento. L’esenzione è invece pari solamente all’80 per cento del dividendo percepito, se la quota di controllo è superiore al 20 per cento, o al 70 per cento dello stesso, se la quota di controllo è inferiore. In genere la quota esente è comunque alquanto inferiore a quella italiana (95 per cento) indicando il trattamento di sfavore riservato ai dividendi intra-societari statunitensi. Questo fattore è probabilmente una delle principali cause della marginalità del fenomeno negli Stati Uniti.
Riprendendo il nostro caso e immergendolo nel contesto statunitense, si evince che il dividendo infragruppo verrebbe tassato al 7 per cento (la quota non esente è infatti del 20 per cento e l’aliquota societaria statunitense del 35 per cento) in quanto la quota di controllo (59 per cento) si attesta tra il 20 e l’80 per cento. Si sosterrebbe dunque un onere aggiuntivo di 2,6 milioni di euro annuo che si tradurrebbe in termini di valore attuale bruciato in 66 milioni di euro, pari ad almeno quattro volte quanto verrebbe sopportato in Italia nella situazione attualmente più sfavorevole per il gruppo (tassazione al 5 per cento).
Gli Stati Uniti rappresentano un caso limite, ma l’analisi comparata potrebbe essere estesa ad altri paesi, per citarne alcuni Canada, Svizzera, Giappone e Australia: la situazione non sembra sostanzialmente cambiare in quanto le percentuali di esenzione si attestano su valori più contenuti, generalmente compresi tra l’80 e il 90 per cento, rispetto a quelle italiane.
La necessità di una risposta all’interrogativo su cosa effettivamente possa giustificare il trattamento fiscale di favore da sempre riservato alle piramidi societarie nel nostro paese sembra diventare sempre più impellente.
(1)Si veda Il Sole-24 Ore del 6/10/07
(2)Alle società conferitarie veniva riconosciuta la possibilità di contabilizzare i cespiti e quindi gli ammortamenti fiscalmente deducibili al valore corrente, mentre alle società conferenti non veniva fatto obbligo di pagare immediatamente le imposte sulle plusvalenze che potevano invece venire congelate ed eventualmente evitate nel caso si fossero realizzate determinate condizioni.
(3)Sentenza della Corte di giustizia della Comunità europea del 6 giugno 2000, causa C-5/98
(4)I valori sono stati ottenuti ipotizzando una crescita dei dividendi (g) del 2 percento, un costo del capitale intorno al 6 percento. Quest’ultimo dato è stato ottenuto attraverso il CAPM utilizzando un premio per il rischio di mercato del 4 percento, un beta dello 0.741 come risultava da nostre elaborazioni sulla base dei rendimenti ottenuti da Thomson Financial ed un tasso privo di rischio del 3 percento.
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FRANCESCO COSTANZO
L’articolo affronta un argomento molto tecnico in modo semplice. Mi ricollego al mio commento all’articolo di Cavazzuti solo per ricordare che le "scatole cinesi" vengono spesso utilizzate in un’ottica "transnazionale", cioè inserendo nella piramide una società estera, possibilmente in un paese a fiscalità privilegiata, il che rende più complicata la tesi sostenuta dall’articolo. Secondo me, l’utilizzo della leva fiscale per modificare gli assetti societari è importantissimo, purchè non ci si limiti solamente ad un profilo di tassazione del dividendo: esistono anche altre imposte sulle quali è possibile agire, al fine di evitare "arbitraggi" tra tipologie di imposta. Una volta trovata la soluzione servono adeguati controlli per far rispettare le norme, non basta soltanto il rischio di una pesante sanzione. E’ difficile capire come mai nel nostro paese ci sia sempre una "scappatoia" per aggirare le regole, e quali interessi questa "scappatoia" vuole difendere. Se risolvessimo una volta per tutte questo difficile quesito, credo che faremmo enormi passi in avanti.