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DOLLARO, ANATOMIA DI UN DEPREZZAMENTO*

Il dollaro debole è la conseguenza della lunga serie di deficit di bilancia dei pagamenti accumulata dagli Stati Uniti negli ultimi anni. E infatti dal 2002 a oggi la moneta americana ha perso il 25 per cento del suo valore in termini reali. L’analisi economica classica dice che il dollaro deve cadere ancora e di molto. Ma alcune nuove simulazioni suggeriscono che il commercio Usa potrebbe rispondere in modo inaspettato, favorendo le esportazioni di merci statunitensi. Allora il dollaro si sarebbe già deprezzato abbastanza.

Il dollaro debole è la conseguenza della lunga serie di deficit di bilancia dei pagamenti accumulata dagli Stati Uniti in passato. Già nel 2000, importanti economisti come Obstfeld and Rogoff avevano indicato la necessità di una svalutazione del dollaro nell’ordine del 35-50 per cento su base multilaterale. (1) Dal suo picco nel 2002 a ottobre 2007, su base multilaterale, il dollaro è sceso di circa il 28 per cento in termini nominali e del 25 per cento in termini reali.
Potevamo aspettarci questo deprezzamento reale del dollaro e, più importante, in che misura la caduta del dollaro sarà accompagnata da un riallineamento complessivo delle valute asiatiche, presumibilmente alleggerendo la pressione sull’euro? Sono domande importanti, e tuttavia il forte interesse per le previsioni sui tassi di cambio (per inciso, forse una ricerca senza speranza) non dovrebbe far dimenticare la necessità di comprendere i meccanismi specifici attraverso i quali il deprezzamento reale del dollaro diviene un passo essenziale verso un aggiustamento a livello mondiale. Dopo tutto, è questo meccanismo che plasmerà le prospettive macroeconomiche dei prossimi anni.

L’abc del deprezzamento del dollaro

Il tasso di cambio del dollaro in termini reali è definito come il prezzo del paniere di consumo Usa in termini di paniere di consumo all’estero. È normalmente misurato moltiplicando il tasso di cambio nominale per il rapporto degli indici dei prezzi al consumo all’estero e negli Stati Uniti. Tasso di cambio nominale e reale variano contemporaneamente, ma in modo molto schematico si può dire che i cambiamenti nel tasso di cambio reale possono essere suddivisi in: (i) mutamenti dei prezzi delle importazioni Usa in termini di esportazioni Usa – normalmente indicati come ragione di scambio – e in (ii) mutamenti dei prezzi interni relativi dei beni statunitensi che normalmente non sono scambiati con l’estero (i beni non commerciabili) in termini di beni che sono scambiati con l’estero (i beni commerciabili).
Per pareggiare il disavanzo di parte corrente degli Stati Uniti può essere necessario una variazione in entrambi i tipi di prezzi relativi: le merci statunitensi esportate all’estero dovrebbero divenire meno costose dei loro rivali stranieri per rilanciare le esportazioni Usa – un aggiustamento della ragione di scambio. Ma anche all’interno degli Stati Uniti, il prezzo dei beni che non sono normalmente esportati (i beni non commerciabili) dovrebbe scendere relativamente ai prezzi dei beni commerciabili, per indurre i consumatori statunitensi a rinunciare alla domanda di importazioni – un aggiustamento nei prezzi interni relativi.
Nel loro celebre lavoro, Obstfeld and Rogoff propongono questo scenario: portare il disavanzo estero degli Stati Uniti al di sotto del 5 per cento del Pil americano richiede una caduta della ragione di scambio tra il 5 e il 15 per cento – una variazione sorprendentemente contenuta. Viceversa, il calo dei prezzi interni relativi dovrebbe essere da tre a cinque volte maggiore, e in particolare il prezzo relativo dei beni non commerciabili all’interno degli Stati Uniti dovrebbe scendere del 20-30 per cento.
Per tradurre questi numeri nella situazione macroeconomica attuale, bisogna tenere presente che, nel corso del tempo, l’aumento della produttività è più veloce nel settore manifatturiero (che produce i beni commerciabili) che nei servizi (essenzialmente beni non commerciabili). E i differenziali di produttività tra i settori vogliono dire che i prezzi industriali scendono costantemente rispetto a quelli dei servizi. Sulla base di queste tendenze di lungo periodo, dovremmo assistere negli Stati Uniti a una caduta dei prezzi dei servizi di circa un terzo in termini dei prezzi industriali qualora gli Stati Uniti pareggiassero il loro deficit di parte corrente. Naturalmente, sono possibili altri scenari: per esempio, i prezzi dei beni non commerciabili potrebbero aggiustarsi nel resto del mondo invece che negli Stati Uniti. Tuttavia, da queste considerazioni deriva un’interessante questione.

I prezzi negli Stati Uniti

Un caso importante di deprezzamento del dollaro e di aggiustamento delle partite correnti si ebbe negli anni Ottanta. Il dollaro iniziò a deprezzarsi nel 1985, seguito con qualche ritardo da un moderato miglioramento della bilancia commerciale Usa. Ma l’evidenza per quegli anni è sorprendentemente lontana dalle considerazioni precedenti: le variazioni dei prezzi interni relativi dei beni non commerciabili furono in realtà molto ridotte. I prezzi relativi non scesero in modo significativo, e in ogni caso meno delle ragioni di scambio.
In tre anni, dal 1985 al 1988, il dollaro si deprezzò di circa il 35 per cento, contro un apprezzamento complessivo nei tre anni precedenti del 20 per cento. Lungo tutto il periodo, i prezzi interni relativi dei beni commerciabili rispetto ai non commerciabili (approssimati dal rapporto tra l’indice dei prezzi alla produzione e l’indice dei prezzi al consumo dei servizi) scesero costantemente. In realtà, il calo è stato più forte dopo il 1985 e non prima, quando il dollaro si apprezzava: 9 contro 7 per cento. Naturalmente, l’andamento ciclico può aver influenzato pesantemente questi numeri. Tuttavia, è ragionevole sostenere che non c’è nessuna seria evidenza di un significativo deprezzamento interno dei beni non commerciabili. Un altro modo per dire la stessa cosa è sottolineare che il tasso di cambio reale è rimasto fortemente correlato alle ragioni di scambio statunitensi per tutto il periodo dell’aggiustamento. Tra il 1985 e il 1987, la ragione di scambio degli Stati Uniti (basata sui deflatori delle esportazioni) si riduce di circa il 40 per cento rispetto agli altri paesi Ocse.
Così l’evidenza degli anni Ottanta suggerisce che il pareggio del disavanzo della bilancia commerciale Usa potrebbe avvenire senza forti variazioni dei prezzi interni. Vorrei sottolineare che tutto ciò è ancora coerente con la teoria sottostante alle considerazioni di Obstfeld e Rogoff, anche se richiede una modifica di una caratteristica specifica del loro modello, ma è una discussione che ci porterebbe troppo lontano.
È possibile che nei prossimi anni vedremo alcuni effetti del deprezzamento del dollaro sul tasso relativo di inflazione nei servizi e nell’industria, con i primi che si faranno in qualche modo superare dai secondi. Tuttavia sarebbe davvero sorprendente se i differenziali di inflazione settoriale cambiassero in modo drastico rispetto alle attuali tendenze.

La ragione di scambio nel medio periodo

Senza forti mutamenti dei prezzi interni relativi, l’aggiustamento ricadrà sui prezzi alle esportazioni. Avrà dunque ripercussioni dirette sulle aziende europee e mondiali – perché le esportazioni statunitensi diventeranno più competitive. Ma anche sui consumatori europei e mondiali, perché le merci Usa diventeranno meno care. Ma di quanto? In definitiva, dopo che si saranno calmate le fluttuazioni cicliche di breve periodo o altri, e più preoccupanti e tuttavia possibili aggravamenti del mercato del credito, la caduta dei prezzi potrà essere significativa, ma non necessariamente vicina al 50 per cento.
I risultati di un mio lavoro con Martin e Pesenti (2) suggeriscono che il pareggio del deficit Usa di parte corrente (portandolo dal 5 per cento del Pil a 0) potrebbe portare a una combinazione di più bassi consumi negli Stati Uniti (-6 per cento) e maggiore occupazione (+3 per cento), rispetto ai valori tendenziali. Corrisponderebbe a un tasso di deprezzamento reale del dollaro nell’ordine del 20 per cento, vicino a quello che abbiamo registrato finora. Inoltre, considerati gli ingressi e le uscite di nuove aziende e le varietà di prodotti nel mercato all’esportazione nel corso del tempo, il tasso di deprezzamento reale del dollaro potrebbe essere anche significativamente inferiore al 20 per cento. Ma è tuttavia probabile che l’aggiustamento per consumi e occupazione rimarrebbe dello stesso ordine di grandezza: – 6 e +3%, rispettivamente.
Vorrei sottolineare che queste cifre non vogliono essere una previsione. È probabile che nei prossimi mesi il mondo assista a oscillazioni consistenti nel mercato delle valute. Tuttavia, quello che conta per gli Stati Uniti è raggiungere un saldo sostenibile di bilancia estera: un calo di circa il 20 per cento nei prezzi relativi, potrebbe essere tutto ciò che serve.

(1) Obstfeld, M. e K. Rogoff (2005). "Global Current Account Imbalances and Exchange Rate Adjustments", Brookings Papers on Economics 1, 67-123. Vedi anche Obstfeld, M. and K. Rogoff, 2007, "The Unsustainable US Current Account Position Revisited," in R. Clarida (ed.), G7 Current Account Imbalances: Sustainability and Adjustment, Chicago, University of Chicago Press, forthcoming.
(2) Corsetti G., P. Martin e P. Pesenti (2007). "Varieties and the transfer problem: the extensive margin of current account adjustment". European University Institute, mimeo

* Testo in inglese disponibile su www.voxeu.com

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  1. federico bigongiari

    Apprezzo il commento, ma esso giunge MOLTO tardivamente ed è incompleto della ragioni complessive del fenomeno. Il dollaro cade, e tra poco crollerà, perchè è finito l’impero americano. Lei Dr. Corsetti, non tiene in dovuto conto che dalla denuncia unilaterale degli accordi di Bretton Woods, fatta da Nixon nel 1971 (rottura della parità aurea) il valore del dollaro si è basato sul recupero dei capitali effettuato dalla borsa di NY e dall’incredibile debito accumulato dalle famiglie, dalle imprese, dalle banche e dal Tesoro americano, cartolarizzato e trasferito all’estero. La bilancia dei pagamenti, in questo contesto, è marginale. Già nel 1971, a fronte del rapporto ufficiale di 35 dollari per un’oncia di oro, il mercato dava una valutazione di 750 dollari, cioè un ventesimo del suo valore nominale. Oggi stiamo viaggiando verso i 1.000 dollari per un’ocia. Il che significa che per un euro occorrerebbero, se anche la valuta europea non si fosse svalutata, all’incirca 15 dollari. Ponendo una svalutazione europea (del paniere che compone l’Euro) del 50% in 30 anni, siamo alla parità di 7,5 dollari per un euro. (molto dunque lontani da 1,47 raggiunto oggi). Il fatto è che i titoli americani di debito ed i dollari all’estero sono circa 50.000 miliardi di dollari, contro ad un PIL USA di 9.000 e NESSUNO vuole più mandare merci contro cartaccia negli USA. Iniziamo a dire queste cose, forse ci aiuteranno ad aprire gli ombrelli. Cordialità, Federico

  2. oribuz

    Seguendo alla lettera la teoria l’economia usa dovrebbe ricevere una spinta verso la ripresa a seguito del taglio dei tassi dovuta all’appetibilità delle esportazioni usa dovute al mini-dollaro. Nella realtà c’è però da considerare una certa vischiosità dei prezzi nel breve periodo e il fatto che i produttori/esportatori molto spesso fissano il prezzo dei beni esportati nella valuta locale (quella del consumatore estero)il cosiddetto local currency pricing. Cito al riguardo un articolo uscito sul sole 24 ore del 21-10-2007 "LENTE D’INGRANDIMENTO Trascurabile l’influenza sul deficit commerciale Il mini-dollaro non serve all’America IMPATTO SUI PROFITTI Una ricerca della Fed mostra che le vischiosità del mercato americano e il peso del deprezzamento ricadono sugli utili aziendali"

  3. Ticonzero

    Una domanda.
    Il Governo Americano ha più volte sollecitato la Cina a rivalutare la moneta.
    La FED in occasione della crisidei mutui non Ha esitato ad immettere liquidità sul mercato e ad abbassare i tassi svalutando ulterirmente il Dollaro ed infischiandosene delle conseguenze internazionali (ad esmpio :rafforzamento dell’euro).
    Come la mettiamo?

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