L’internazionalizzazione dell’attività delle imprese è passaggio necessario per il loro sviluppo e la loro affermazione nella competizione globalizzata. In Italia la sua forma più diffusa è la delocalizzazione, attuata soprattutto dalle aziende medio grandi dei settori tipici del made in Italy. Dai dati 2007 emerge che delocalizzare in aree più lontane, in senso logistico o geopolitico, favorisce la recisione dei precedenti legami di subfornitura. Un effetto che la politica industriale non può ignorare per le ripercussioni sull’occupazione nel nostro paese.

L’internazionalizzazione dell’attività delle imprese è ormai costantemente richiamata nei documenti di policy come passaggio necessario per il loro sviluppo e la loro affermazione nella competizione globalizzata. Se approvata nei termini attuali, la Finanziaria per il 2008 mira soprattutto (articolo 41) a razionalizzare alcuni strumenti di sostegno a tale strategia, quali la sostituzione del progetto Sportelli Italia all’estero con interventi di promozione dell’eccellenza del made in Italy. Il Dpef varato qualche mese fa, confermava, tra le principali preoccupazioni di politica economica, lo stimolo all’internazionalizzazione come veicolo per la crescita dimensionale delle Pmi. E sulla delocalizzazione, la forma di internazionalizzazione produttiva più diffusa in Italia, utili indicazioni sulle linee di tendenza del fenomeno emergono dai risultati di tre indagini ad hoc dell’Isae per il 2003, 2005 e 2007 su un campione di circa quattromila imprese manifatturiere, il comparto che include la stragrande maggioranza delle delocalizzatrici. (1)

Il quadro generale

I dati sul 2007 indicano che la delocalizzazione è un fenomeno ancora quantitativamente limitato: coinvolge circa il 4 per cento delle imprese manifatturiere,per lo più medio-grandi, perché la presenza di sunk costs agevola tale strategia per le imprese maggiori. Tuttavia, nell’ultimo quinquennio il fenomeno va lentamente intensificandosi e consolidandosi, e gli esempi di delocalizzazione in più paesi sono in aumento (+14 per cento). Ciò avviene soprattutto per le imprese che hanno da più tempo capacità produttiva all’estero (prima del 2003).
Persiste un divario territoriale tra Centro-Nord e Sud, sebbene il fenomeno risulti in (lieve) crescita anche nelle regioni meridionali e insulari. Tra le regioni centrali e settentrionali, invece, si osserva una maggiore omogeneità rispetto all’indagine del 2005.
I settori più interessati dalla delocalizzazione sono tuttora quelli tipici del made in Italy: tessile-abbigliamento, pelli-cuoio-calzature, meccanica.
L’analisi delle aree di destinazione delle delocalizzazioni (vedi tabella 1) fornisce indicazioni utili su almeno due aspetti:

a) motivazioni: le imprese delocalizzano prevalentemente nei paesi a basso reddito, confermando un modello di decentramento produttivo basato più sulla riduzione dei costi di produzione (in risposta alla concorrenza dei paesi emergenti) che sul presidio dei mercati di sbocco. In particolare, tra le destinazioni spiccano ancora la Romania e i paesi dell’Europa centro-orientale, e va affermandosi la Cina;
b) differenze strategiche tra gli strati: con l’eccezione del caso cinese, la tendenza generale vede le imprese operanti a valle dei processi produttivi (produzione finale) delocalizzare più delle altre nei paesi a basso reddito, mentre la graduatoria si inverte nel caso della delocalizzazione nei paesi ricchi, che ha come principali protagoniste le aziende attive nella progettazione. La differenza è poi amplificata se si guarda a chi delocalizza esclusivamente nell’uno o nell’altro insieme di paesi. Rispetto alla rilevazione del 2005, si registra una sostanziale tenuta dell’Unione a 15 e della Romania, nonostante un aumento della delocalizzazione in Cina, nei restanti paesi dell’Europa centro-orientale, compresi quelli di più recente ingresso nell’Unione Europea, e in Turchia. In questi ultimi due casi, in particolare, l’aumento si osserva soprattutto per le imprese più a valle della catena produttiva.
Si può notare incidentalmente come il fenomeno appaia coerente con le tesi di Paul Krugman: è caratteristica di questi anni che le fasi produttive più specializzate, come la progettazione, siano delocalizzate in paesi avanzati con salari alti, mentre le altre migrino nei paesi a basso reddito.

Effetti di filiera

Le differenze appena viste introducono ad altre considerazioni. Dai dati 2007 emerge che delocalizzare in aree più lontane, in senso logistico o geopolitico, favorisce la recisione dei precedenti legami di subfornitura da parte dell’impresa delocalizzatrice. Si osserva infatti che le imprese che delocalizzano in paesi relativamente prossimi o dove da più tempo ha preso piede il fenomeno, come la Romania, sono tra quelle che meno hanno cambiato fornitori, al contrario invece di chi si è diretto in India, in Cina o in paesi dove più recente è il decentramento produttivo delle imprese italiane.
Inoltre, la delocalizzazione interessa soprattutto le imprese nelle fasi più a monte e più a valle della filiera (dove del resto si trovano le aziende più grandi), e presso le quali è più frequente osservare l’interruzione degli originari rapporti di subfornitura.
Tutto ciò contribuisce a rafforzare l’ipotesi che, in un contesto produttivo come quello italiano, contrassegnato da estese reti di subfornitura, l’internazionalizzazione produttiva ha inevitabilmente effetti sull’intera filiera. I primi tentativi di verificare empiricamente l’esistenza di tale effetto  rilevano che, almeno nel breve periodo, conseguenze "indirette" di questo tipo possono deprimere l’occupazione. (2)
Se non opportunamente considerate in sede di politica industriale, le eventuali ripercussioni sfavorevoli sulle relazioni di subfornitura, assimilabili a una sorta di esternalità negativa della delocalizzazione, finirebbero per pesare a lungo (e spiacevolmente) nell’agenda di politica economica.

Per saperne di più

Barba Navaretti G. e A.J. Venables (2006), Le imprese multinazionali nell’economia mondiale, il Mulino, Bologna.

Mariotti S. e M. Mutinelli (2007), Italia Multinazionale, Ice, Roma.

(1) Per "delocalizzazione" si intende qui il possesso, da parte dell’impresa, di capacità produttiva all’estero.
(2) Costa S. e G. Ferri (2007) The determinants and employment effects of international outsourcing: the case of Italy, Dipartimento di Scienze Economiche – Università di Bari, SERIES W.P. No. 16, www.dse.uniba.it.

Tabella 1 – Talune caratteristiche delocalizzatrici per stadio della filiera (2007, percentuale sul totale dello strato)*

Strato % che delocalizza % che cambia fornitori Macroaree di destinazione
Europa centro-orientale Altri paesi a basso reddito Totale paesi a basso reddito Totale paesi ad alto reddito Solo paesi a basso reddito Solo paesi ad alto reddito
Progettazione 4.8 53,9 46,2 15,4 84,6 30,8 69,2 15,4
Produzione intermedia 3.7 35,4 69,4 12,2 91,8 18,4 81,6 8,2
Produzione finale 4.2 40,4 69,0 17,2 98,3 8,6 91,4 1,7
Totale 4.0 39,8 66,7 15,0 94,2 15,0 85,0 5,8
               
Strato Destinazioni principali
Cina India Romania Turchia Altri Europa Centro-orientale Nord America Centro e Sud America UE-15
Progettazione 46,2 7,7 23,0 7,6 22,9 7,7 7,8 23,1
Produzione intermedia 14,3 8,2 28,6 2,0 36,7 6,1 6,1 1,2
Produzione finale 31,0 1,8 41,4 13,8 25,9 1,7 5,2 6,9
Totale 25,8 10,8 34,2 8,3 30,0 4,2 5,8 10,8
                       

Fonte: elaborazioni su dati Isae.

* La somma delle percentuali per riga può essere diversa da 100 perché alcune imprese delocalizzano contemporaneamente in più aree o paesi.

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