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ABOLIAMO I MINISTERI

La Finanziaria approvata dal Senato ripristina la legge Bassanini e riporta a dodici il numero dei dicasteri. Ma modificare la struttura dell’amministrazione ha un costo, soprattutto perché la costruzione di organizzazioni efficaci ed efficienti è un processo lungo e faticoso. Va perciò evitato il ripetersi di trasformazioni dettate da contingenze politiche. La soluzione migliore potrebbe essere l’abolizione dei ministeri come organi di amministrazione attiva, trasformandoli in piccole organizzazioni di supporto all’attività dei ministri.

All’articolo 8bis della Finanziaria approvata la scorsa settimana dal Senato viene ripristinata la legge Bassanini, il decreto legislativo 300 del 1999, con la riduzione a dodici degli attuali diciannove ministeri. Il ministro per il Commercio internazionale Emma Bonino ha dichiarato che si tratta di una “stronzata pazzesca”, sulla base di due argomenti molto differenti.

Una decisione politica

In primo luogo, Bonino ha rivendicato che la composizione del governo è una decisione politica del presidente del Consiglio. Il che è assolutamente vero, ma non c’entra quasi nulla con il numero di ministeri. La Costituzione non pone nessun limite al numero dei ministri, ma prevede che i ministeri possano essere istituiti solo per legge. Si tratta quindi di una decisione del Parlamento, e non del presidente del Consiglio. In verità molti ritengono che un gabinetto composto da ventinove persone come l’attuale (il presidente, i 19 ministri con portafoglio, gli 8 ministri senza portafoglio e il sottosegretario alla presidenza) sia un organismo pletorico, nel quale discutere seriamente è quasi impossibile e che sarebbe meglio ridurlo di almeno un terzo.
L’esperienza internazionale è contraddittoria: in Germania i membri del governo sono sedici e in Spagna diciassette. In Gran Bretagna, invece, ai ventitre membri del cabinet si aggiungono altri sette partecipanti obbligati, e in Francia il numero totale è di trentatre.
La numerosità dei ministri incide sui “costi della politica”, uno dei temi che più sembrano appassionare i commentatori, sulla funzionalità del Consiglio e sulla coerenza dell’indirizzo politico. Tuttavia, molto dipende da fattori contingenti (la personalità del primo ministro, la compattezza programmatica della coalizione, e così via) ed è difficile affermare con certezza che avere pochi ministri sia necessariamente meglio che averne tanti.

La struttura dell’amministrazione

Un discorso differente vale per la questione dei ministeri. “Vi rendete conto – ha detto il ministro Emma Bonino – che stiamo solo adesso completando gli atti amministrativi conseguenti alla separazione dall’ex ministero delle Attività produttive? Ricominciare questo processo al contrario è assolutamente demenziale”.
L’argomento ha un suo peso, ma va rovesciato: modificare la struttura dell’amministrazione per risolvere problemi prettamente politici è un’operazione dannosa. Non solo perché le trasformazioni hanno un costo, ma soprattutto perché la costruzione di organizzazioni efficaci ed efficienti è un processo lungo e faticoso, che non deve essere deviato da “esigenze politiche” (leggasi appetiti individuali o di partito) contingenti. E quindi Bonino sembra affermare che, se la composizione del gabinetto è una decisione politica, la struttura dell’amministrazione pubblica a tutti i livelli – nello Stato, ma anche nelle regioni e nei comuni – non può e non deve esserlo.
Se, come tutti sembrano a parole riconoscere, uno dei problemi chiave del nostro paese è la scarsa efficienza del suo apparato amministrativo, che si traduce nella bassa produttività della spesa pubblica, una delle prime cose da fare sarebbe quella di mettere al sicuro i processi di ristrutturazione dalla necessità di soddisfare questo o quel partito, questa o quella corrente, questa o quella personalità.

Fare a meno dei ministeri

A questo punto, le alternative sono due. La prima è “blindare” la struttura amministrativa. Oggi il pendolo si è di nuovo diretto verso la riduzione dei ministeri riprendendo una tendenza che si era affermata con il governo Ciampi dei primi anni Novanta e si era interrotta con il governo Berlusconi e il governo Prodi. Ma nessuno può garantire che domani le difficoltà di formare una coalizione non inducano a ripetere il precedente del 2006, quando la trasformazione è stata decisa con un decreto legge all’atto della formazione del governo. Occorrerebbe allora affermare, in sede di revisione costituzionale, che questo genere di decisioni debbono essere prese in modo meditato, ad esempio prevedendo che sia una delle materie sulle quali si deve pronunciare il Senato federale.
Oppure si potrebbe cambiare impostazione e semplicemente abolire i ministeri, trasferendo ad agenzie esterne, legate allo Stato da contratti di servizio, le attività amministrative in senso stretto, vale a dire il rilascio di tutte le autorizzazioni, la gestione di tutti i servizi, la stipula di tutti i contratti e l’erogazione di tutti i trasferimenti finanziari.
L’amministrazione svedese è interamente basata su questo modello, e lo stesso vale in larga misura per quella britannica dopo il rapporto “Next Steps” della seconda metà degli anni Ottanta. In Italia il modello adottato per le agenzie fiscali non è dissimile e sembra aver dato buona prova di sé anche nella transizione da Visco a Tremonti e ritorno. In Francia una delle raccomandazioni della commissione Attali va in questa direzione.
Abolire i ministeri come organi di amministrazione attiva, trasformandoli in piccole organizzazioni di supporto all’attività dei ministri, comporta una serie di vantaggi significativi:
1.       viene resa ancora più flessibile la composizione del governo dal momento che il numero delle agenzie sarebbe certamente superiore a quello degli attuali ministeri;
2.       viene data una sanzione organizzativa alla distinzione tra politica e amministrazione, soprattutto se al vertice delle agenzie venissero messi manager scelti con una procedura trasparente e possibilmente bi-partisan (advice and consent parlamentare, ad esempio);
3.       si costruirebbero organizzazioni nelle quali da un lato la trasparenza delle risorse impiegate sarebbe assoluta in ragione del contratto di servizio e dall’altro la responsabilità per i risultati si congiungerebbe a quella per l’uso delle risorse stesse;
4.       si evita il gigantismo di alcune amministrazioni pubbliche, uno dei principali argomenti contro la fusione dei ministeri, senza contemporaneamente essere obbligati alla moltiplicazione del personale politico.

Ciò non vuol dire, ovviamente, che la diminuzione dei ministeri decisa dalla Finanziaria sia inutile o dannosa. Qualsiasi rilancio della stagione delle riforme amministrative degli anni Novanta è più che auspicabile, dato il penoso stato del dibattito corrente. Il punto è che il puro e semplice risparmio in termini di stipendi dei ministri e del personale di supporto, se forse soddisfa il moralismo corrente, non può certamente migliorare efficacia ed efficienza delle politiche pubbliche. Un ripensamento del modello organizzativo e istituzionale delle amministrazioni, al contrario, potrebbe far fare qualche passo avanti alle trasformazioni necessarie.

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13 commenti

  1. Stefano Sotgiu

    Caro Prof. Dente, sono felice che finalmente il dibattito si arricchisca delle posizioni di chi dice che riorganizzare non significa necessariamente tagliare il numero dei ministeri (ma il criterio è valido per ogni organizzazione). Sarebbe più utile porre un tetto, un budget massimo oltre il quale il governo non può andare. In questo senso, la proposta delle agenzie è quanto mai utile. Nel contratto di servizio il costo potrebbe essere contrattato, ferma restando la possibilità dell’agenzia di organizzare il servizio come meglio crede, sotto la supervisione del pubblico e nell’interesse dell’efficacia delle politiche. In più si supererebbe il problema del ricorso alla legge come strumento di organizzazione, che ingessa la capacità di cambiamento e adattamento della P.A.

  2. mirco

    Sono completamente in accordo con l’articolo con alcuni suggerimenti: 1) la ristrutturazione in agenzia non vale per le forze di polizia. Non mi va che gli organi di controllo e sicurezza vengano privatizzati sia a livello cetrale che periferico ( ci pensate alle prigioni private o alla polizia privata? e i diritti costituzionali dove li mettiamo? poi io sono assolutamente contrario alla scuola pubblica ridotta come privata la laicità e alla neutralità della formazione è un diritto irrinunciabile. Per una vera riforma amministrativa anche degli enti locali invece si potrebbe adottare il sistema cantonale. Molti microcomuni non hanno ragione di esistere occorre accorparli ai comuni piu grandi e creare un " Cantone" con tutti i poteri dell’atuale comune ma con grandezza al minimo di 100.000 abitanti con un apparato funzionante ed autonomo con un senato cantonale in cui possano sedereanche i sindaci dei comuni soppressi che avrebbero la stessa rappresentatività dei presidenti dei quartieri del comune grande inglobante..questi "cantoni" potrebbero a loro volta assorbire le funzioni della provincia rispetto alla loro porzione territoriale .Le province andrebbero abolite

  3. Elio Gullo

    Il prof. Dente suggerisce qualcosa di decente e percorribile. Da tempo i ministeri sono strutture diverse da quelle che immaginano i giornalisti e i cittadini, è sensato intervenire. Tra l’altro la difficoltà di applicazione della 15-ennale tentativo di separazione tra politica e amministrazione si è finora scontrato con la scarsità di regole e strutture "stabili" che ne marcassero i confini rispettivi. Un problema di minor profilo: dato per nota una certa non facilità ad adottare l’agencification, potremmo trovarci nella ulteriore difficoltà di collocare opportunamente il personale tra i compiti più operativi delle agenzie e quelli di governo dei ministeri. E prevedere – probabilmente – meccanismi salariali che facilitino lo svuotamento dei ministeri, pur conservando al centro un nucleo di competenze qualificato. Di certo non sarebbe male se anche il PD facesse sentire la sua voce su un tema così complesso. Dopo 15 anni ci ritroviamo una amministrazione non molto diversa da quella del dopoguerra. Non penso si possa ancora utilizzarla come parcheggio privilegiato di bassa manovalanza o amici. La proposta di Dente merita di essere colta. Chi può, si faccia avanti.

  4. Daniele Ferretti

    Caro Professore, ritornare a parlare e a riprendere il filo delle riforme degli anni novanta è sicuramente un grosso passo avanti rispetto alla deriva restauratrice che si è sviluppata nel corso di questi ultimi anni e che ci ha riportati indietro di alcuni decenni nel funzionamento dell’apparato burocratico sia a livello centrale che di EELL. E’ vero che dare efficienza a certi sistemi è un lavoro lungo e faticoso, ed è altrettanto vero che serve stabilità politica per poterlo fare (cosa che è mancata nonostante teoricamente l’obiettivo sia comune a forze della maggioranza e dell’opposizione). Alcuni esempi di esternalizzazione ad agenzie di funzioni statali però – per problemi di carenza di regole e responsabilità di management: vedi ARCUS o Sviluppo Italia – hanno lasciato strascichi negativi in Italia in questo senso, che possono dar voce ai sostenitori del "tutto dentro", che anche se funziona peggio si vede meno e i partiti occultano meglio. La domanda è: a chi affidare compiti di modernizzazione e snellimento in una fase politica di transizione come questa?

  5. Franco Ferrara

    L’articolo di Bruno Dente è molto importante e credo che non vada sottovalutato. La struttura dello stato va ripensata, è una questione aperta dagli anni ’70, più gli anni passano più si appesantisce. E’ indubbio che l’abolizione dei Ministeri sugnifica dare valore alla politica. Al contrario mantenere strtture che "regnano ma non governano" costa notevolmente. e’ necessario procedere a una distribuzione organizzattiva sia a livello comunale, regionale e centrale. La confusione attuale non regge. L’articolazione attraverso strutture come le Agenzie rispondono ai criteri di interventi efficienti ed efficaci ma devono essere raccordate con l’organizzazione comunale e regionale. E’ un processo che trova nella legge delega del 1975 (artefice prof. Giannini) il primo passo in questa direzione. E’ bene quindi far ripartire la discussione.

  6. Luca Taglietti

    I ministeri vanno certamente accorpati per grandi famiglie, e non spacchettati in maniera così indecente e comica. Tuttavia c’è un ministero che andrebbe diviso per trasparenza ed è quello dell’economia e delle finanze. Per trasparenza, in Italia, debbono essere ben distinti il Ministero che provvede a reperire le risorse, cioè quello delle Finanze, da quello che provvede alla distribuzione delle medesime, cioè quello dell’Economia. Una volta era così e si vedevano meglio i passaggi di denaro. Oggi non c’è trasparenza, essendo tutto nelle mani dello stesso soggetto.

  7. Carlo D'Orta

    Difficile non concordare con Bruno Dente, su almeno due punti. Primo: non è possibile continuare a montare e smontare l’organizzazione dei ministeri ad ogni cambio di legislatura, come hanno fatto tutti i Governi dal 1999 ad oggi, perché costa e distrugge la funzionalità degli apparati. Il grande costituzionalista e costituente Costantino Mortati insegnava, nel 1974, che la fluidità del numero dei ministri senza portafoglio serve anche a soddisfare ragioni di equilibrio politico in governi di coalizione: ebbene, questa fluidità deve rimanere al livello politico, senza estendersi alle strutture dei ministeri. Secondo motivo di accordo con Dente: la separazione di funzioni tra politica e amministrazione all’interno di una medesima struttura (il ministero) funziona poco e male: le agenzie rafforzerebbero la separazione, trasferendola al livello strutturale. Su entrambe queste opinioni c’è stata la convergenza dell’ADIGE (Associazione dei dirigenti pubblici) nel convegno che la stessa ha organizzato al Senato nel gennaio 2007 (si veda la relazione "5 proposte per una reale riforma della PA" in http://www.adigeonline.it.) Carlo D’Orta

  8. franco benincà

    Non condivido l’abolizione dei ministeri. Essi sono l’ossatura principale della P.A.. A mio giudizio l’analisi va rovesciata sulle norme e legislative e regolamentari che disciplinano il loro funzionamento. Inoltre gli alti dirigenti di Stato, nell’attuale contesto socio economico che sono chiamati a gestire, devono avere una formazione non solo giuridica ma anche economica attraverso la quale gli obiettivi programmatici si inseriscano nel quadro di costi/benefici a carico della comunità. E’ indispensabile una lean administration normativa che già le leggi Bassanini hanno affrontato, abolire le iperfetazioni formalistiche ed affidare alle cosiddette risorse umane, professionalità le cui utilità siano correlate non al rispetto pedissequo di norme antiquate, ma al raggiungimento dell’obiettivo programmatico. Riforma dei sistemi di contabilità di stato, delle relazioni contrattuali, adeguamento ed aggiornamento dei software di gestione, analisi e studio dei problemi: giungere al problem solving in termini rapidi (evitando i costi sociali delle attese indecisionali). I ministeri devono essere aziende sociali proiettate verso la collettività, e non piegati su se stessi.

  9. Raffaele Mannelli

    Abolire i ministeri è un’idea su cui lavorare. Con essa Bruno Dente ci prospetta un opzione, quella delle agenzie, in grado di favorire il contenimento dei costi della struttura amministrativa dello Stato. Un via che potrebbe far ripartire il precorso di separazione tra gestione amministrativa e indirizzo politico, avviato in modo egregio dal ministro Sabino Cassese negli anni ’90. Ma Dente ci avvisa che la sua idea potrebbe funzionare soprattutto se al vertice delle agenzie esterne venissero messi manager qualificati bi-partisan. Questo è a mio avviso il punto su cui si sono infrante le politiche di riforma della P.A. Perché allora non considerare questo aspetto, che caratterizza da sempre la vita politica della ns. Repubblica. Non sarebbe forse più utile iniziare a riformare il sistema di rappresentanza politica oggi molto frammentato dal punto di vista territoriale? Un quadro istituzionale più compatto garantirebbe un migliore governo del paese. Il sistema delle agenzie adottato in costanza dell’attuale quadro politico istituzionale potrebbe portare ad una proliferazione di agenzie per ogni livello di governo. Si tratta di un timore che trova già oggi un suo riscontro.

  10. enzo pace

    1.ragioni di democrazia:-proporzionale puro (le minoranze di oggi,raggiungendo consensi,saranno le maggioraneze di domani (alternanza): 2.ragioni di stabilità (-abbassare il quorum per il voto di fiducia rendendolo pari ai rappresentanti letti nel partito o formazione che ha riportato più voti -non sarà neccessario aggragare al Governo minoranze elette in altre formazioni ; il legislativo si distinguerà dall’azione di governo;il premier sarà espresso dalla formazione con più voti; il premier sceglierà i ministri) 3. per ragioni di efficienza (la burocrazia sarà inserita in più Agenzie; i Ministeri saranno aboliti; i ministri disporranno soltanto di una segreteria) 4. a livello regionale ( separazione governatore /assessori dalla burocrazia regionale

  11. sabrina cherubini

    E’ curioso come la proposta del Professore Bruno Dente appaia oggi di grande attualità, posto che già negli anni novanta lo stesso Dente esponeva le virtù del modello delle Agenzie. La spinta innovativa delle riforme di quegli anni si è consumata negli anni seguenti, e gli strumenti che allora dovevano fare dell’amministrazione pubblica un apparato efficiente sono rimasti bei progetti inattuati (come gli strumenti di controllo e valutazione). Tutto ciò è vero proprio nel modello ministeriale, mentre agenzie fiscali, enti pubblici non economici e autonomie locali hanno fatto passi avanti. Se almeno la storia e i mancati risultati di questi anni potessero essere esaminati per tornare al "laboratorio di riforme" degli anni novanta!

  12. Dario Quintavalle

    Un’esperienza concreta: nel 2001, dopo il corso biennale da dirigente alla SSPA, prestai servizio come END alla Commissione Europea, presso la DG Energia e Trasporti (DG TREN). Essa usciva allora da un lungo e faticoso processo di unificazione di due preesistenti Direzioni generali. Quando pochi anni più tardi per far posto ai paesi dell’Allargamento fu necessario nominare nuovi commissari europei, a nessuno venne in mente di ‘spacchettarla’. Oggi, dunque, esistono DUE Commissari, uno ai Trasporti e uno all’Energia, ma ancora UNA sola DG TREN. Separare l’organizzazione di governo (mutevole per esigenze politiche) da quella (necessariamente più stabile) dell’amministrazione è dunque possibile, e credo avrebbe numerosi pregi, a prescindere dalla forma da adottare. Soprattutto renderebbe effettivo il principio della separazione tra politica ed amministrazione, finora rimasto lettera morta. Quanto alle “piccole strutture di supporto ai Ministri”, esistono già: sono i gabinetti. Che spesso, però, tendono ad ingerirsi pesantemente nell’amministrazione attiva, e a diventare, talvolta, ministeri nei ministeri. (Dario Quintavalle, Dirigente del Ministero della Giustizia).

  13. Paoluccio

    Tutte le volte che si crea per legge un ente pubblico autonomo svincolato da ogni controllo politico sul merito, gli unici controlli possibili sugli atti di questo ente sono quelli giurisdizionali, e si costringe il cittadino leso dall’azione di questi enti a lamentarsi efficacemente solo “per bocca” di un avvocato, con cause costose e lunghe. Di fatto si crea una “quasi immunità” di questi enti autonomi nella loro azione amministrativa, basata sulla desistenza per “stanchezza economica” di chi voglia opporsi alle loro illegittimità. E’davvero questo che si vuole?

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