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LA CLASS ACTION NASCE ORFANA

Il Senato ha approvato la class action in un modo rocambolesco e abbastanza inaspettato. La norma presenta rilevanti criticità giuridiche e di efficienza del sistema giustizia. Le associazioni dei consumatori hanno un forte incentivo alla proposizione di cause collettive anche pretestuose. E resta comunque il diritto del singolo cittadino ad agire in giudizio per la medesima controversia. Per i processi non è prevista alcuna corsia preferenziale, né un giudice particolarmente qualificato. Non bastano modifiche in corsa, serve una più ampia riflessione.

Il Senato della Repubblica ha approvato giovedì scorso la class action in un modo rocambolesco e abbastanza inaspettato. L’errore decisivo di un senatore dell’opposizione ha dato via libera a un testo che non sembra tenere conto del precedente dibattito sull’argomento riassumibile nei nove progetti di legge presentati alle Camere, negli studi dei servizi, nella copiosa e ottima letteratura, anche sul generale stato di crisi della nostra giustizia civile.
La norma presenta rilevanti criticità giuridiche e di efficienza del sistema giustizia. Vale la pena di esaminarne alcune

Associazioni dei consumatori, un nuovo centro di potere

Si rafforza un ulteriore centro di potere nel nostro paese: le associazioni dei consumatori. Sono attualmente legittimate a chiedere rimedi e inibitorie di atti e comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori, ma non possono essere portatori di vere e proprie pretese economiche. Possono cioè agire contro una pubblicità ingannevole o chiedere un rimedio contro un prodotto difettoso.
La class action dà invece a un numero definito di esse (anche se ancora non precisamente determinato) la possibilità di agire per il risarcimento dei danni o la restituzione di somme dovute ai singoli. Viene stabilito inoltre che in caso di loro vittoria, anche parziale, l’impresa riconosciuta colpevole debba essere condannata al pagamento delle loro spese e che "il compenso dei difensori del promotore dell’azione collettiva" non possa "superare" il 10 per cento del valore della controversia. Se si tiene a mente il quantum complessivo dei danni potenzialmente risarcibili in questi tipi di cause, che coinvolgono potenzialmente migliaia di consumatori o utenti, si capisce che il 10 per cento può rappresentare una somma considerevole, anche se il risarcimento per singolo consumatore è irrisorio. Vi sono perciò forti incentivi per le associazioni e i loro difensori a intentare (e a transigere) la vertenza e incassare i compensi senza eccessivo interesse al quantum effettivamente elargito ai singoli danneggiati. Va anche rilevato che il costo che l’associazione di consumatori sopporta per intentare una causa collettiva sembra minimo, come lo sono le conseguenze in caso di insuccesso, mentre ampi sembrano i "ricavi", oltre a quelli strettamente monetari, in termini di pubblicità e consenso sociale.
Con questa legge, le associazioni riconosciute dal ministro della Giustizia consolidano solo nelle loro mani la legittimazione nella proposizione di cause collettive. La totale assenza di filtro della bontà di queste azioni nella fase introduttiva del giudizio, e di scrutinio della loro effettiva rappresentanza di un congruo numero di danneggiati, legittima a pensare a un forte incentivo alla proposizione di cause collettive, anche pretestuose, dato il forte potere di contrattazione nei confronti delle imprese convenute, dei consumatori stessi e dei politici. Il meccanismo che deriva da questa legge porta alle associazioni riconosciute uno strumento di potere che si può facilmente tradurre in una lucrosa fonte di reddito, una sorta di scommessa giudiziale con una puntata bassa e un avversario che difficilmente può parare i colpi, in termini di esposizione alle cause e di danni di reputazione alla sua solidità finanziaria (si noti che le possibili perdite nelle cause civili vanno "stimate" in base anche al valore della domanda di risarcimento e iscritte regolarmente in bilancio).
I consumatori danneggiati, se auto organizzarti in comitati, non possono invece utilizzare la class action, né scegliere un avvocato di loro fiducia che li rappresenti. In altre parole, creato un centro di potere, si crea altresì una contrattazione sul suo esercizio e si perdono i vantaggi che la legittimazione di un indefinito numero di soggetti può portare, ad esempio, per la scoperta di nuovi casi. Se invece si fosse previsto un filtro da parte di un giudice qualificato nella fase introduttiva dell’azione che non rendesse esclusivo il ruolo delle associazioni riconosciute, tutto ciò si sarebbe potuto evitare, non riservando uno strumento di tutela dei diritti nelle mani di pochi.

Un diritto che non si prescrive

Sia l’articolo 140 che il 141 bis del codice del consumo, introdotto da questa norma, fanno salvo il diritto del singolo cittadino (e di terzi) ad agire in giudizio per la medesima controversia.
Ciò vuol dire che è preferibile per un consumatore non aderire alla azione collettiva. Se questa va bene, può incamerarne i benefici in una fase successiva, presentando una istanza alla camera di conciliazione. Se va male, può comunque provarci nuovamente sia singolarmente sia, così pare, attraverso un’altra associazione, perché il suo diritto non si prescrive. La definizione del giudizio rende infatti improcedibile ogni altra azione solo nei confronti dei medesimi soggetti, non di terzi. Le imprese citate in causa possono perciò subire ripetute chiamate in giudizio per danni colossali, a mercati aperti, anche se sono innocenti e magari vincono l’azione collettiva. Se invece sono colpevoli, le imprese non hanno assolutamente idea di quanti consumatori presenteranno, a giudizio definito, una effettiva richiesta di rimborso: con quali basi si può contrattare una conciliazione?

Nessuna corsia preferenziale

La procedura evidenzia quattro giudizi: l’azione collettiva, la successiva camera di conciliazione, l’eventuale decreto ingiuntivo, il processo esecutivo. In più ci sono le eventuali azioni individuali e di terzi. Attualmente nei nostri tribunali civili una causa dura in media cinque anni e abbiamo un enorme volume di contenzioso. Nelle azioni collettive sembra chiaro che più dura la lite, più si causano danni alla impresa accusata, la cui reputazione finanziaria si gioca su ben altre dimensioni temporali, ma ciononostante non si prevede alcuna "corsia preferenziale" per questi processi, né un giudice particolarmente qualificato.

Criticità specifiche

L’azione collettiva è dichiaratamente uno strumento "generale di tutela" che, però, analizzata per ogni singolo settore, presenta notevoli e specifiche criticità.
Ad esempio, per quanto concerne la concorrenza, non si capisce più quale sia il giudice competente, se il tribunale del luogo ove ha sede il convenuto, come è scritto in questa legge, o la Corte di appello in unico grado di merito, che è legittimata, sia dalla legge sulla concorrenza nazionale (287/90, art. 33), sia dalle sezioni unite della Cassazione (22305/2007), a conoscere delle azioni di nullità e risarcimento del danno antitrust. Inoltre, tutta la legislazione comunitaria e nazionale incentiva il pentitismo delle imprese colluse garantendo una protezione dalle sanzioni in caso di confessione, ma poi se la stessa impresa può essere citata in giudizio a rispondere dei danni civili, quale incentivo resta per l’auto denuncia?
Rischiano poi di rimanere scoperti, ennesimo paradosso, tutti quei soggetti che non agiscono per scopi estranei alla loro attività professionale, ma che ciononostante avrebbero tratto beneficio da una azione collettiva in determinati casi. Si pensi soltanto agli intermediari e ai distributori più o meno indipendenti vincolati da reti di contratti simili.
Tutti, governo compreso, dichiarano già che la norma va modificata "in corsa", ma forse le modifiche alla class action richiederebbero più tempo e più riflessione.

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  1. Elena Pasquini

    Non sono pienamente d’accordo con la sua analisi, non credo che la class action in questi termini leda così tanto le imprese, piuttosto il consumatore. Non è facile argomentare in soli 2000 caratteri. Certamente la normativa in questione attribuisce un potere esorbitante e fuori luogo alle associazioni dei consumatori. E’ vero che la mancanza di un filtro all’origine potrebbe determinare una proliferazione di cause, di class actions, ma ciò che sconvolge è la camera di conciliazione per come è stata concepita, per la possibilità di rendere vana qualunque sentenza di condanna e dunque stimolare eventuali ricorsi individuali, sempre più deboli di qualunque azione collettiva. Quanti? Non credo che siano molti i singoli disposti ad affrontare un lungo, estenuante e costoso iter giudiziario per risarcimenti che spesso sono irrisori. Piuttosto è probabile che il fallimento della conciliazione vada a vantaggio delle imprese e delle associazioni. Per quanto concerne la prescrizione è presumile che anche per questo tipo di risarcimenti valgano le regole generali del diritto civile. Ciascuno ha giustamente e costituzionalmente diritto a perseguire i propri interessi, se mai sarebbe necessario coordinare, come negli Usa con l’Mdl, i procedimenti pendenti davanti a giudici diversi. Ovviamente il nostro è un sistema differente. Certo ci vuole un giudice qualificato in grado di vagliare, ma anche di emettere una sentenza che stabilisca il quantum del risarcimento. Per quanto riguarda l’impossibilità di quantificare il numero di richieste di rimborso a giudizio definito, non sarei così perentoria: la lettera del comma 7 è piuttosto ambigua e il giudizio non è affatto definito con la sentenza di condanna che non stabilisce il quantum e dunque non ha nessun valore. E’ vero, il singolo può andare davanti ad un altro giudice…passeranno vent’anni? Pochi consumatori possono permettersi processi tanto lunghi ed è più probabile che desistano. Cordiali saluti.

    • La redazione

      Credo anch’io che purtroppo il consumatore non tragga evidente beneficio da questa legislazione, e mi pare di poter dire che spesso neppure il consumatore americano abbia tratto notevoli vantaggi dalla class action americana, nonostante i danni puntivi. Molto frequentemente il "risarcimento" individuale si è risolto in un buono sconto per l’acquisto di nuovi beni della stessa impresa colpevole ed è stato quindi occasione di nuovi profitti. Le imprese invece da noi posso subire ingenti danni e pressioni anche perché l’azione collettiva non definisce il perimetro delle pretese risarcitorie. Le segnalo che nel nostro Paese i consumatori, o meglio i loro solerti difensori, si sono mostrati molto attivi nel reclamare supposti danni da illecito concorrenziale. In seguito alla condanna del cartello delle compagnie assicurative sulle r.c. auto da parte della Autorità della concorrenza, più di centomila assicurati hanno citato in giudizio dinanzi ai giudici di pace le compagnie per vedersi corrisposto il 20% dei premi pagati, in media una trentina di euro, senza dimostrare il loro nocumento e con atti fotocopia. Mai i loro difensori hanno trascurato di chiedere il rimborso delle spese (cioè i loro compensi, circa 500€ per giudizio). Anche dopo che la Suprema Corte ha sancito la competenza della C. di Appello (ove pendono circa 30.000 giudizi –
      principalmente in meridione -) solerti avvocati hanno continuato a chiedere risarcimenti per gli assicurati davanti ai giudici di pace. È perciò evidente che queste cause rappresentano un’occasione di lucro soprattutto per gli addetti ai lavori a danno delle imprese, trascurando i reali interessi dei consumatori. Abbiamo perciò bisogno di uno strumento processuale collettivo che migliori l’efficienza del nostro sistema, ma deve essere meglio ponderato ed adeguato alla disastrosa situazione della nostra giustizia civile.
      In questa legge la prescrizione non segue le regole del giudizio civile, ma l’azione del singolo non si prescrive durante l’esercizio dell’azione collettiva. Grazie

  2. Stefano Bonato

    La mia cultura sul tema class action é molto hollywoodiana, basata sul film “Erin Brokovich”: rimasi molto colpito dagli aspetti “legali” del film, in particolare dalla centralitá dell’ininziativa dello studio legale nel definire una classe, dal fatto che chi scegliesse di non rientrare nella classe doveva farlo prima di sapere l’esito e non prendere nulla dal risarcimento, e dalla conclusione tramite un arbitraggio senza giudizio, salvo quello del giudice di accettare la definizione della classe proposta dallo studio legale. Tutte cose che, da quanto ho capito, di sicuro non vedremo con la proposta in finanziaria.

    • La redazione

      in effetti non molto del meccanismo della class action americana, che ha appreso da film di successo, sarebbe presente nel nostro Paese. In particolare non sarà presente la figura di un “avvocato eroe” che raccoglie da solo le prove e le porta davanti ad un giudice competente che le “certifica” (l’istituto processuale si chiama appunto certification) vagliandone la serietà, perchè solo le associazioni dei consumatori sono legittimate all’azione e non c’è alcun tipo di filtro. Non sarà poi certamente presente il meccanismo da Lei individuato di “opt in”, per cui il consumatore che rimane inattivo non può beneficiare della eventuale condanna. con tutta probabilità sarà invece presente la figura di avvocati delle associazioni che tentano in tutti modi di intentare azioni legali al solo scopo di porre in difficoltà le imprese e strappare vantaggiose (per loro) transazioni, indipendentemente dal beneficio dei consumatori. Sia chiaro che le istanze che motivano le azioni collettive a difesa dei diritti dei consumatori e utenti sono insopprimibili in una democrazia economica matura, ma un intervento tanto delicato meriterebbe una approfondita ponderazione. Se vuole prendere spunto da una esperienza estera molto interessante, potrebbe dare uno sguardo ai test case tedesco (Sammel or Musterklage; e Kapitalanleger-Musterverfahren). grazie

  3. stefano mannacio

    Come ho scritto in un post precedente il problema serio, della class action all’italiana è che il meccanismo è, per legge, soggetto al controllo politico. Infatti, incredibile dictu, ai sensi dell’art, 136 del codice del consumo il presidente del Consiglio Nazionale Consumatori ed Utenti, il parlamentino delle associazioni abilitate alla class action all’italiana, è il ministro dello Sviluppo Economico o un suo delegato. Attualmente tale ruolo è, per esempio, coperto dal vice ministro d’Antoni. E tale ruolo non è di rappresentanza ma di “indirizzo e controllo”. Basta vedere e osservare le politiche del CNCU degli ultimi anni e la sterminata serie di protocolli di intesa e accordi di conciliazione con banche e assicurazioni, per comprendre come la vera direzione del consumerismo in Italia sia del Ministro dello Sviluppo Economico di turno, da Bersani a Letta, da Marzano a Scajola per finire al Bersani di oggi. Tale assetto del consumerismo italiano è agli antipodi delle migliori esperienze anglosassoni e più simili ad un assetto dirigista teso più a conservare quell’assetto dell’economia italiana orientata alla produzione.

  4. rino ruggeri

    Che una democrazia economica evoluta debba avere una norma che permetta e disciplini le azioni collettive è evidente. Meno comprensibile che si debba inserire con un articolo di finanziaria altrimenti non la si sarebbe vista per chi sa quanti anni ancora. Nel merito di chi possa agire, mi sembra limitativo individuare solo le associazioni di consumatori proprio perchè si rischia la costituzione di un’altra lobby. Quanto ai singoli che si ritengono danneggiati, introdurrei la clausola della iscrizione alla azione da chiudersi prima dell’inizio del procedimento giudiziale. questo per evitare abusi ed anche per risarcire i consumatori più attenti ed in modo significativo. Chi non aderisce può sempre agire singolarmente. Infine il ruolo degli avvocati deve rimanere entro i limiti dell’azione e prevederei la remunerazione in percentuale del risarcimento, ma gli aderenti pagano una quota che serve a pagare la parcella. Il guaio è che non ci sarà ne la volontà ne il tempo per fare una buona legge degna di un mercato maturo a tutela delle imprese serie e significativa per i consumatori. Grazie

  5. Americo Marini

    Mi meraviglio che ancora una volta non venga estesa la possibilità delle cause collettive ai lavoratori in conflitto con le aziende che, di fatto, mantengono la loro posizione forza (economina e vessatoria) nei confronti dei loro dipendenti. Il nostro è uno strano paese in cui la parte datoriale può ignorare anche le sentenze passate in giudicato senza alcuna conseguenza e le Organizzazioni sindacali non possono intervenire legalmente per costringere le aziende a rispettare i contratti sottoscritti.

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