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PER CHI SUONA IL NO DELL’IRLANDA

Gli interessi economici sono stati uno dei fattori che hanno determinato l’esito del referendum irlandese sul Trattato di Lisbona. La distribuzione del voto mostra una larga maggioranza di sì nelle aree più ricche, mentre in quelle più povere ha prevalso il no. Come in Francia, i lavoratori non qualificati si sono sentiti minacciati dalla concorrenza e dall’immigrazione dai paesi dell’Est Europa. Ma se gli elettori della classe operaia e delle campagne votano sistematicamente contro una maggiore integrazione europea, i leader politici non possono far finta di niente.

Come molti miei compatrioti ho passato la serata di venerdì in un pub. Nel mio caso, il pub era nella bella regione francese dello Chartreuse ed era affollato di tifosi di Francia e Olanda, questi ultimi via via più rumorosi col procedere della serata. È stata una bella serata, molto europea, con i bambini del luogo, compresi i miei, che rispondevano ai canti degli olandesi con una vivace versione della Marsigliese. È stata anche una serata molto simbolica, almeno per me che sono irlandese, perché riuniva i cittadini dei tre paesi che hanno detto “no” alle ultime modifiche istituzionali europee.

RICCHI E POVERI AL VOTO

A prima vista, il no francese ha ben poco in comune con il rifiuto irlandese del Trattato di Lisbona. In Francia, gli allarmisti sostenevano che una maggiore integrazione avrebbe portato a una corsa al ribasso nella politiche di bilancio e avrebbe messo in pericolo la liberale legge francese sull’aborto. In Irlanda, gli allarmisti hanno detto che una maggiore integrazione avrebbe provocato una corsa al rialzo nella politica di bilancio e avrebbe imposto leggi liberali sull’aborto in quello che rimane un paese sostanzialmente cattolico. E tuttavia ci sono impressionanti similitudini socio-economiche tra i due voti: i politici europei faranno bene a non trascurarle.
Uno sguardo alla distribuzione territoriale del voto è sufficiente a confermare ciò che i sondaggi avevano già indicato: il voto irlandese si divide tra classi in modo netto e preoccupante. Nelle zone più ricche di Dublino come Dun Laoghaire, dove anche una casa modesta può arrivare a costare 1 milione di euro (sebbene le cose stiano cambiando), oltre il 60 per cento degli elettori ha votato in favore del Trattato. Nelle zone operaie delal città, è stato il no a superare il 60 per cento dei voti. Sylvain Brouard e Vincent Tiberi hanno mostrato che la stessa divisione tra ricchi e poveri, o tra lavoratori qualificati e non, si ritrova nel voto francese del 2005. (1)
Ci sono almeno due modi di interpretare questi risultati. Il primo sostiene che gli elettori più istruiti sono politicamente più sofisticati e più capaci di comprendere le problematiche insite in un complicato emendamento alla struttura istituzionale dell’Unione Europea.
Nella seconda interpretazione, al contrario, ricchi e poveri sono entrambi perfettamente in grado di capire dove sta il loro interesse economico e votano di conseguenza. Secondo questa tesi, in generale la globalizzazione e più da vicino l’integrazione europea hanno per lo più favorito i lavoratori qualificati, almeno in paesi ricchi come Francia, Irlanda e Olanda. I lavoratori non qualificati, invece, si sentono minacciati dalla concorrenza rumena (o asiatica) e dall’immigrazione dai paesi dell’Est Europa o ancora più lontani. Non sorprende perciò che votino di conseguenza, anche se ciò può dare qualche dispiacere ai più fortunati fra noi.
Nonostante l’importanza del voto, non si è pensato ad alcun exit poll in grado di darci qualche  indicazione sulle ragioni che hanno spinto gli elettori a votare no. Credo però di poter affermare che la differenza nelle scelte di voto tra classe media e classe operaia abbia molto più a che vedere con interessi economici diversi che con un supposto diverso livello di sofisticazione politica.
Se si guarda alle determinanti dell’atteggiamento verso la globalizzazione nei vari paesi, si vede che nei paesi ricchi i lavoratori non qualificati sono più ostili all’immigrazione e al libero commercio rispetto ai lavoratori qualificati, mentre nei paesi poveri sono i lavoratori non qualificati a essere più favorevoli alla globalizzazione. (2) E ciò sembra difficile da conciliare con l’affermazione che le persone meno istruite non possono comprendere i benefici dell’integrazione economica internazionale. Se questa interpretazione è correta, il risultato del referendum irlandese dovrebbe servire da campanello d’allarme per i politici: se vogliono mantenere i benefici dei mercati internazionali aperti, come lo voglio io, devono prendere maggiormente in considerazione le preoccupazioni di chi resta indietro.

ASCOLTARE CHI DICE "NO"

Naturalmente, non voglio dire il risultato del referendum dipende soltanto dagli interessi economici dei diversi gruppi di elettori. La difficoltà maggiore per i sostenitori del Trattato è stata quella di indicare una ragione convincente per votare sì. La diffidenza dell’opinione pubblica nei confronti dei politici, in Irlanda come in Francia, ha fatto sì che tutte le assicurazioni sulla assoluta necessità del Trattato, pur contro tutte le apparenze, fossero destinate a cadere in orecchie sorde a questi argomenti. Come in Olanda, ha senz’altro influito il timore che un paese piccolo, qual è l’Irlanda, sia più danneggiato dalla perdita del potere di veto, rispetto a Francia e Germania. Ed è un’impressione destinata a rafforzarsi nelle prossime settimane se, come sembra probabile, i leader europei cercheranno di ignorare il macigno che l’Irlanda ha messo sulla strada delle loro ambizioni istituzionali sulla base del ragionamento che l’Irlanda è piccola. Gli elettori non hanno gradito il modo in cui i risultati dei referendum francese e olandese sono stati sostanzialmente ignorati dai governanti europei.
La mia tesi è semplicemente che gli interessi economici sono stati uno dei fattori tra i molti e che non dovrebbero essere trascurati. Se gli elettori della classe operaia e delle campagne votano sistematicamente contro una maggiore integrazione europea, i leader politici europei devono ascoltarli. Questi sentimenti spiegano anche perché molti dei miei vicini e amici francesi si siano congratulati con me per il voto dei miei compatrioti: naturalmente, accetto con grazia queste  espressioni di solidarietà, senza necessariamente dire a tutti che se fossi stato in Irlanda, avrei votato “sì”. Per come stanno le cose, l’Irlanda ha bisogno di tutti gli amici possibili.

(1)Sylvain Brouard e Vincent Tiberj (2006). “The French Referendum: The Not So Simple Act of Saying Nay”. PS: Political Science & Politics,39, pp 261-268.
(2)Kevin H. O’Rourke e Richard Sinnott (2006). “The determinants of individual attitudes towards immigration,” European Journal of Political Economy 22 (2006), 838-861. Ma vedi anche il lavoro di Anna Maria Mayda e Dani Rodrik.

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LA RISPOSTA AI COMMENTI

  1. Massimo GIANNINI

    L’autore pone il problema nella giusta prospettiva. Il rischio è, come è stato in passato in casi analoghi, che i governanti non ascoltino e per di più commettano gli stessi errori, alcuni dei quali dovuti alla mancanza di ascolto. Historia magistra vitae est? Sembrerebbe di no. E’ vero, la cosa peggiore é far finta di niente e tirare avanti. Affinché qualcuno capisca ci vorrebbe, paradossalmente, ma no lo auguro e nemmeno lo escludo, un altro no alla ratifica. Altrimenti diventa un problema solo irlandese, di una minoranza che non deve contare, e sarebbe un peccato.

  2. Bruno Stucchi

    E dopo il risultato irlandese, l’ultimo chiodo della bara del trattato di lisbona potrebbe piantarlo l’Inghilterra.

  3. Andrea Valenzi

    La volontà popolare, come giustamente indica l’autore, deve essere considerata dalla classe politica, che spesso "cade dalle nuvole" poichè i rappresentanti parlamentari spesso sono solo rappresentanti di lobby e ristretti gruppi sociali che con opportune azioni di marketing politico e strategia elettorale riescono ad inserirsi nelle stanze dei bottoni. In Italia oggi possiamo vedere seduti nel ns. parlamento rappresentanti di queste oligarchie, senza che ci sia lo spazio per rappresentanti di una certa parte popolare, mi spiego Carfagna, Grillini, Colaninno etc anni fa non sarebbero potuti entrare nel parlamento non provenienti da quella scuola di vita che era il partito che nonostante i demeriti era cmq un punto di formazione, se si pensi alle migliaia di sedi del PCI,DC, PSI,MSI per citare quelli più strutturati dove il candidato poteva crescere localmente confrontandosi con la Politica e la tecnica politica mantenendo un stretto contatto con la base, oggi non so se è un bene o un male che la poltica adotti altre forme, annullando la base e facendo dei leader e commissioni solo enti autoreferenziali, ma il risultato è sicuramente un distacco profondo dalla base popolare.

  4. Filippo Guidarelli

    Il problema è anche che per esempio, in Italia, il partito più antieuropeista è la lega, che rappresenta un territorio di piccoli produttori i quali non si può dire siano stati devastati dalla maggior internalizzazione dei mercati; a ben vedere la loro fascia economcia è stata quella che meglio di tutte ha saputo difendersi e competere.Quindi non è vero che chi è più in difficoltà tende al no, caso mai tende al no chi vede compromesso, in prospettiva, il proprio business.

  5. Roberto

    La CE storicamente è nata per risolvere questioni economiche e con il passare degli anni si è data anche una struttura politica ma il cuore europeo guarda sempre insistentemente all’economia e alla finanza non occupandosi dei problemi sociali che, a causa delle politiche economico finanziarie volute dall’oligarchia europea, stanno diventando sempre più preoccupanti. Quando si legge che la Commissione Europea in autunno deciderà se e come reagire all’incremento del prezzo dei carburanti ci si domanda se queste persone hanno mai fatto un pieno pagandolo con i loro soldi e questo è solo un piccolo esempio del distacco che i "regnanti" hanno dal popolo. L’Europa sarà accettata quando sarà la casa dei cittadini e non la reggia dei banchieri, sarà accettata quando si occuperà di risolvere i problemi sociali e non si divertirà a legiferare su assurdità come il diametro dei piselli.

  6. franco

    Il migliore progetto federalista riuscito sono gli Stati Uniti. Per un motivo semplice. Unire tante praterie con persone partite dal Vecchio Continente con lo stesso scopo, non solo è cosa semplice ma era il solo modo per diventare una grande Nazione. Unire Stati Europei con secoli di storia dietro le spalle è quasi impossibile. Una forzatura del genere crea solo movimenti localistici come la Lega in Italia, che non difende gli interessi di nessun territorio, fa solo danni perchè gli unici interessi che difende sono quelli "degli amici degli amici" cioè la più deleteria e dannosa forma di bassa corruzione politica. Un tarlo che nel tempo crea danni incalcolabili.

  7. renato

    La CEE non nasce per garantire direttamente redditi individuali ma per garantire un costante e continuo momento di incontro fra quelle nazioni che ogni venti anni, si davano battaglia.Ecco il problema gli europei dovrebbero votare per tornare alla situazione precedente o cercare una situazione diversa. Mr. O’Rourke dovrebbe fare una simulazione del tipo : se non ci fosse stata la CEE, cosa sarebbe successo fra Irlanda, Gran Bretagna ed Islanda circa i dititti di pesca al merluzzo? o circa le libertà dell’aria? o circa i finanziamenti all’agricoltura? Ecco la CEE è intervenuta e mantiene tutte le tre flotte che hanno ridotto il merluzzo nella condizione di animale a rischio di estinzione; come i contadini come consente a compagnie aeree di operare in ambito comunitario a condizioni di favore? Bene traduciamo il tutto dalla ipocrisia alla realtà i politici irlandesi se hanno un minimo di onestà dovrebbero promuovere un referendum ai propri concittadini ponendo la scelta tra il rimanere nella CEE o uscirne e basta.

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