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QUEGLI INDICATORI NEMICI DELLE DONNE*

La legge sugli incentivi alle aziende che assumono donne non si applica alla Calabria, che pure ha un tasso di occupazione femminile al 31 per cento. Un caso che deve servire da monito per il futuro. Se gli indicatori utilizzati per ripartire gli stanziamenti per le politiche sociali e del lavoro si basano solo sulla disoccupazione, in alcune fasi potrebbero essere penalizzati proprio i segmenti più deboli sul mercato del lavoro. Costruire o individuare l’indicatore adeguato a misurare un fenomeno è difficile, ancora più complesso è costruirne uno sensibile al genere.

L’Italia è un paese che per le donne presenta ancora barriere elevate all’accesso al lavoro. Particolarmente critica è la situazione del Mezzogiorno. Qui i tassi di occupazione femminili superano di poco il 30 per cento, un’incidenza pari a circa la metà di quella degli uomini residenti in queste stesse regioni. Peraltro, i tassi di occupazione italiani riflettono i vincoli dettati dal ruolo ricoperto dalle donne all’interno della famiglia: si passa dall’83,8 per cento per le single da 35 a 44 anni al 56,4 per cento e delle donne in coppia con figli, fino al 38,8 per cento delle donne in coppia con tre figli o più.

IL CASO DELLA CALABRIA

Già dallo scorso anno scorso sono stati previsti incentivi per le imprese che avessero assunto donne. Ma la legge si applica soltanto alle aree definite “svantaggiate” a livello europeo: in base al regolamento n. 2204/2002 della Commissione europea è “svantaggiata” la regione in cui il tasso medio di disoccupazione superi il 100 per cento della media comunitaria da almeno due anni e dove la disoccupazione femminile abbia superato il 150 per cento del tasso di disoccupazione maschile dell’area considerata in almeno due degli ultimi tre anni.
Che cosa è successo con il calcolo di questi due indicatori? Èsuccesso che una regione come la Calabria, dove nel 2007 il tasso di occupazione femminile è pari al 31 per cento, non è rientrata nelle aree che possono usufruire delle misure. Ciò è dovuto alla scelta dell’indicatore di disoccupazione per definire l’area svantaggiata e individuare la differenza di genere. Negli ultimi anni in Calabria, come nel resto del Mezzogiorno, il tasso di disoccupazione è sì diminuito (tra il 2004 e il 2007, rispettivamente dal 14,3 all’11,2 per cento e dal 15 all’11 per cento) raggiungendo il minimo storico, ma ciò è avvenuto al prezzo di una crescita dell’inattività femminile, cioè le donne hanno smesso di cercare lavoro anche perché scoraggiate. Il tasso di disoccupazione non tiene conto dello scoraggiamento.
Disoccupato, secondo la definizione europea, è chi cerca attivamente lavoro, mostra di avere fatto azioni di ricerca, ed è disponibile a lavorare entro due settimane. Ebbene, nonostante il pregevole sforzo condotto a livello europeo nell’adottare un approccio di genere, l’indicatore scelto si è rivelato non adeguato allo scopo. Non solo, infatti, è fondamentale adottare un approccio di genere, ma è necessario individuare gli indicatori che realmente servono a misurare lo svantaggio. Il tassodi disoccupazione femminile è un indicatore debole, a volte distorcente della differenza di genere nel mercato del lavoro, sicuramente non è il più importante e va affiancato agli altri.
La fascia grigia tra disoccupazione e scelta di non lavorare è tra le donne molto ampia, soprattutto nelle aree critiche come il Mezzogiorno. Quindi in alcune fasi, pur diminuendo la disoccupazione, l’occupazione non cresce, o non cresce abbastanza, e, al contrario, aumenta l’inattività; la situazione insomma può permanere critica o addirittura peggiorare.

FORZA LAVORO POTENZIALE

Il Rapporto annuale dell’Istat ha documentato approfonditamente questo aspetto. Accanto a un milione e 500 mila disoccupati, ci sono un milione e 200 mila persone che possono essere considerate forze lavoro potenziali, che non hanno fatto azioni di ricerca attiva nelle ultime quattro settimane, ma sono disponibili a lavorare. Tra le donne del Sud questo segmento è maggiore di quello delle disoccupate.
L’esempio della Calabria dovrà servire come monito per il futuro. Se gli indicatori che verranno utilizzati per ripartire gli stanziamenti per le politiche sociali e del lavoro si baseranno solo sulla disoccupazione, in alcune fasi potrebbero essere proprio i segmenti più deboli sul mercato del lavoro a uscirne penalizzati, come è successo per le donne calabresi. Il tasso di disoccupazione, da solo, fornisce ormai una fotografia non adeguata alla realtà della situazione del mercato del lavoro in un’ottica di genere.
È necessario che il nostro paese, penalizzato dal regolamento, si attivi a livello europeo per una sua modifica verso, per esempio, l’utilizzo del tasso di occupazione o di una particolare combinazione tra disoccupazione e inattività. Se per tenere conto della differenza di genere fosse stato utilizzato il tasso di occupazione e si fosse scelto un rapporto tra tasso di occupazione femminile e maschile inferiore al 60 per cento (ovvero non più di sei donne occupate ogni dieci uomini occupati), la Calabria sarebbe rientrata tra le aree che potevano usufruire degli incentivi, insieme alle altre regioni critiche del Sud.
Si parla molto di indicatori, è un termine di moda, ma spesso non si riflette adeguatamente sul loro significato. Costruire un indicatore sembra facile ma non lo è. Soprattutto è difficile individuare l’indicatore “giusto”, adeguato a misurare il fenomeno oggetto di studio. Ancora più complesso è costruire un indicatore sensibile al genere. Il caso della Calabria insegna.

* L’autrice è Direttore centrale dell’Istat. Le opinioni qui espresse sono esclusiva responsabilità dell’autrice e non impegnano in alcun modo l’Istat.

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IL PREZZO DEL PREGIUDIZIO

  1. Claudio Resentini

    Il problema è quello di capire a cosa servono e soprattutto a chi servono gli indicatori. Se si intende nascondere la disastrosa situazione dell’occupazione ed evitare di affrontare il problema della crisi del welfare state “lavoristico” e dei relativi diritti sociali, l’evoluzione degli ultimi decenni nella definizione e nella rilevazione degli indicatori sintetici sul lavoro va benissimo. Si potrà continuare ad evitare di preoccuparsi di creare uno stato sociale per il numero crescente di disoccupati, sottoccupati, precari, irregolari, ecc. nascondendoli sotto il tappeto e continuando ad evadere allegramente il fisco, a votare per chi è più credibile nel suo proposito di tagliare le tasse, tenere sotto controllo l’inflazione e vigilare sulle rendite del nostro capitale. Per chi ce l’ha il capitale, si intende. Per gli altri: poco lavoro da contendersi con il dumping (vedi alla voce “meritocrazia”) e pochi servizi pubblici a disposizione (vedi alla voce “fannulloni”) E naturalmente si potrà continuare a pensare che le donne calabresi siano casalinghe per vocazione….

  2. Stefania Sidoli

    Il ragionamento svolto da Sabbadini ci pone di fronte ad un problema che non da oggi è – o dovrebbe – essere di fronte a chi del tema " lavoro femminile" si occupa, sia esso politico o sindacalista o studioso della questione. Proprio perchè la individuazione di indicatori adeguati è indispensabile non solo nella ripartizione degli stanziamenti ma al fine di far sì che gli esiti prodotti da quegli stanziamenti siano positivi e duraturi nel tempo, e possibilmente con effetto moltiplicatore. Continuare a non porsi – qui come purtroppo altrove – il problema di una lettura di genere è davvero solo determinato dalle difficoltà che quella lettura pone? Francamente ne dubito. Perchè troppo spesso il tema " occupazione femminile" è stato diversamente declinato – anche se mai in modo davvero esplicito- a seconda del quadro economico-sociale del Paese. Il lavoro delle donne – da tutti definito necessario, e in particolare proprio nel Mezzogiorno – genera potenzialmente nuova occupazione: perchè necessita di un sistema capace di "supplire" a quel lavoro di cura che ancora è prerogativa femminile. Ma davvero oggi su quel sistema si vuole investire?

  3. elisabetta addis

    Giustissimo e ben detto, cara Sabbadini. Ma perchè il tuo intervento sta sotto la rubrica "famiglia"? A me pare che tu parli di donne. Come mai una cosa che parla di donne va sempre a finire sotto lo heading "famiglia?"C’è forse un qualche tabù a dire che l’economia occupa anche dell’attività economica delle donne, dentro e fuori il mercato, e aprire anche una rubrica "donne e economia"? Così siamo costrette sempre a parlare di lavoro, di famiglia e di Stato sociale, col risultato di non capire più cosa sta succedendo alle donne. Perfavore fallo presente alla redazione di La Voce.

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