La diminuzione dell’offerta di lavoro e della disoccupazione evidenziata dai dati sulle tendenze del mercato del lavoro è pressoché tutta dovuta al calo del tasso di attività, in particolare delle donne e in particolare nel Mezzogiorno. Continua così a indebolirsi il fattore che dal 1998 aveva maggiormente contribuito all’innalzamento del tasso di occupazione. In generale, aumenta di poco e con differenze territoriali l’occupazione maschile a tempo pieno e indeterminato. L’occupazione femminile, là dove non diminuisce, rimane più facilmente in contratti temporanei o a tempo parziale.

A prima vista, i dati presentati ieri dall’Istat sulle tendenze nel mercato del lavoro nel quarto semestre 2004 e per il periodo 2003-2004 delineano un quadro positivo. Il tasso di occupazione è stabile. Vi è stata una vistosa diminuzione delle persone in cerca di occupazione (-4,3 per cento) e, molto più contenuto, del tasso di disoccupazione (-0,4 per cento). Soprattutto, la diminuzione delle persone in cerca di occupazione e del tasso di disoccupazione ha riguardato il Mezzogiorno (-8,5 per cento delle persone in cerca di occupazione, -1,1 per cento del tasso di disoccupazione). Un ottimo segno, si direbbe, anche se il tasso di disoccupazione in queste Regioni continua a riguardare il 15 per cento delle forze di lavoro, a fronte del 4,3 per cento del Nord e del 6,5 per cento del Centro.

Donne al Sud

C’è tuttavia poco da essere ottimisti. L’occupazione ha praticamente smesso di crescere. E la diminuzione sia della offerta di lavoro che della disoccupazione è pressoché tutta dovuta alla diminuzione del tasso di attività, in particolare delle donne e in particolare nel Mezzogiorno, dove le donne in cerca di occupazione sono diminuite lo scorso anno del 12 per cento. Continua quindi a indebolirsi il fattore che dal 1998 maggiormente aveva contribuito all’innalzamento del tasso di occupazione nel nostro paese, ma che già dal 2001 aveva cominciato a dare segni di cedimento, come si evince dal grafico. Siamo di fronte a una vistosa modifica delle preferenze delle donne, in particolare meridionali, una quota crescente delle quali non sarebbe più interessata a entrare nel mercato del lavoro, nonostante l’aumento dell’istruzione? Non credo. Sono piuttosto le condizioni del mercato del lavoro nel Mezzogiorno, unite alla mancanza di servizi adeguati per favorire la conciliazione tra lavoro remunerato e responsabilità familiari, a spiegare in larga misura questo fenomeno, che è in controtendenza sia con quanto avviene nelle altre Regioni, sia con gli obiettivi europei. Tra le giovani donne meridionali (15-24 anni) in cerca di lavoro il tasso di disoccupazione tocca il 44,6 per cento (32 per cento tra i loro coetanei), contro il 17,7 per cento del Nord e il 25,9 per cento del Centro. La disoccupazione femminile di lunga durata nel Mezzogiorno riguarda il 12,2 per cento delle disoccupate, il doppio di quella maschile nelle stesse Regioni, due volte e mezza quella media nazionale per le donne, sette volte quella delle donne nel Nord-Est (1,7per cento). Se le donne meridionali ricominciano a non presentarsi più sul mercato del lavoro, non è perché non lo desiderino o non ne abbiano bisogno. Piuttosto perché le chance di trovare una occupazione – anche nella definizione “larga” utilizzata dall’Istat come da tutti gli organismi internazionali (aver fatto almeno un’ora di lavoro remunerato nell’ultima settimana) – sono troppo scoraggianti.

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I lavori a termine

Anche i dati sulla occupazione a tempo parziale e sulle occupazioni dipendenti a termine confermano la problematicità delle tendenze nel mercato del lavoro in generale e per quanto riguarda il Mezzogiorno e le donne. Su base annua, la buona notizia è che il lavoro dipendente a termine è diminuito del 3,1 per cento. Ma questo calo ha riguardato quasi esclusivamente gli uomini, così come ha riguardato esclusivamente loro la diminuzione del lavoro dipendente a tempo parziale, che viceversa è aumentato tra le donne, ma esclusivamente nel Centro-Nord. In altri termini, aumenta, di poco e con differenze territoriali, l’occupazione maschile a tempo pieno e indeterminato. L’occupazione femminile invece, là dove non diminuisce, rimane più facilmente in contratti temporanei e/o a tempo parziale. Le lavoratrici a tempo parziale sono ormai il 24,7 per cento del totale dei lavoratori dipendenti. Ma nel Mezzogiorno, neppure la possibilità di ricorrere a contratti a tempo determinato e/o parziale sembra incoraggiare la partecipazione femminile. Insieme a quelli sulla stabilità del tasso di occupazione complessiva, questi dati segnalano anche che la pluralizzazione dei modelli orari e delle forme contrattuali dal pacchetto Treu in poi, ha esaurito la propria efficacia.
Secondo le stime presentate dall’Istat sono oltre due milioni i lavoratori con una occupazione principale “non standard” (il 9 per cento circa di tutti gli occupati): lavoratori interinali, altri lavoratori dipendenti con contratto a tempo determinato, prestatori d’opera occasionali, collaboratori coordinati e continuativi. Si tratta di una popolazione fortemente eterogenea, la cui incidenza sul totale degli occupati è rimasta stabile nell’ultimo anno.
Il gruppo più problematico, e dai contorni contrattuali più indefiniti, è quello dei collaboratori coordinati e continuativi. (1) Essi costituiscono l’1,8 per cento di tutti gli occupati e il 6,4 per cento dei lavoratori autonomi. Meno numerosi di quanto comunemente si ritenga (ma in linea con le stime di molti studi, incluso quello recente del Cnel), oltre la metà è concentrata nel Nord, in particolare nel Nord-Ovest. Nel Mezzogiorno si trova solo il 18 per cento dei collaboratori. Sono inoltre concentrati tra le donne (61 per cento di tutti i co.co.co nel quarto trimestre 2004) e i giovani al di sotto dei 34 anni (51,5 per cento di tutti i co.co.co nel quarto trimestre 2004). Si tratta di una forza lavoro istruita, occupata per lo più nel terziario. Soprattutto, sembra trattarsi di una forma di lavoro alle dipendenze di tipo mascherato, piuttosto che di lavoro autonomo. Quindi non è dissimile dai contratti di lavoro alle dipendenze a tempo determinato, ma con minori protezioni sociali. La mono-committenza, infatti, riguarda circa il 90 per cento dei co.co.co, che nell’83 per cento dei casi lavorano nei locali dell’azienda e in oltre il 60 per cento dei casi non decidono del proprio orario di lavoro. Queste caratteristiche, di nuovo, riguardano più le donne che gli uomini, i giovani che gli adulti, le persone residenti nel Mezzogiorno. La legge Biagi, trasformando i co.co.co in lavoratori a progetto ha contestualmente ridotto la possibilità di rinnovare all’infinito questo tipo di contratti. L’obiettivo, condivisibile, è di facilitarne la trasformazione in contratti di lavoro dipendente a tempo determinato: altrettanto precari dal punto di vista della sicurezza lavorativa, ma almeno con maggiori protezioni dal punto di vista previdenziale. È da vedere se invece non sia stata incoraggiata la loro trasformazione in titolari di partita Iva e in prestatori d’opera occasionali. Dovremo aspettare i dati del 2005 per fare una prima valutazione.

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(1) Vedi anche A. Accornero, Nuovi lavori e rappresentanza, in Diritto delle relazioni industriali, 1, XV, 2005, anche all’indirizzo http://www.csmb.unimo.it/adapt/bdoc/02_05/Accornero.pdf

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