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PARADOSSI DEL CALO DELLA DISOCCUPAZIONE

Negli ultimi dieci anni in Europa la disoccupazione è scesa notevolmente, anche quella di lunga durata. Eppure, i sondaggi evidenziano un crescente malcontento per le condizioni di lavoro. Perché? Le riforme degli anni Novanta hanno creato un mercato del lavoro a due velocità, che produce pesanti asimmetrie nelle carriere, con tutti i rischi concentrati sulle spalle degli assunti con contratti atipici. La risposta non è un ritorno al passato, ma una decentralizzazione maggiore delle negoziazioni salariali, legando gli stipendi alla produttività.

In Europa si è realizzato un vecchio sogno, che però si sta trasformando sempre più in un incubo.
Il sogno era descritto nel Trattato di Roma del 25 marzo 1957: “La Comunità ha il compito di promuovere nell’insieme della Comunità, (…), uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale (…), un alto grado di competitività e di convergenza dei risultati economici, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra gli Stati membri”.

IL SOGNO EUROPEO REALIZZATO…

Nell’ultimo decennio in Europa la disoccupazione è scesa a un livello mai visto da venticinque anni a questa parte. Oggi, nell’Europa dei 15, vi sono quasi 4 milioni di disoccupati in meno che nel 1996. Anche la disoccupazione di lunga durata è quasi dimezzata: negli anni Novanta, la metà di coloro che cercavano lavoro restava disoccupata per oltre un anno, ora non accade più.
Non è l’effetto collaterale di una mancata partecipazione al mercato del lavoro, ma rispecchia l’aumento del tasso medio di occupazione nei 15 paesi membri, cresciuto del 6 per cento negli ultimi dieci anni. È, del resto, l’unico settore in cui vengono rispettati gli ambiziosi obiettivi di Lisbona. È drasticamente diminuito anche il numero di coloro che sono eternamente in bilico tra occupazione e disoccupazione e che, stufi e frustrati, smettono addirittura di cercare un lavoro, convinti che per loro non esistano possibilità.
Sono proprio quei paesi in cui inizialmente si registrava un tasso di disoccupazione più elevato, che hanno ottenuto il calo più sensibile.Indagini cross-section sui tassi di disoccupazione dell’Europa dei 15 (Nuts II) mostrano che la dispersione dei tassi di disoccupazione tra settori nelle regioni europee è fortemente diminuita come risultato di una riduzione della varianza sia tra paesi che all’interno dei paesi.E questo è senz’altro un progresso sul cammino di quella coesione sociale, auspicata dai governi sin dal trattato di Roma del 1957. Le condizioni del mercato del lavoro delle regioni europee sono, del resto, sempre meno differenziate.

…SI TRASFORMA IN UN INCUBO

I governi europei non hanno tuttavia capitalizzato i successi ottenuti sul mercato del lavoro. Proprio quei governi e quelle coalizioni che hanno reso possibile la creazione di milioni di posti di lavoro non sono stati riconfermati dagli elettori. Il governo Berlusconi del 2001-2006 ha creato 1,3 milioni di posti di lavoro in cinque anni, ben più di quanti promessi in campagna elettorale. Il che non gli ha tuttavia evitato il crollo di popolarità e la conseguente sconfitta alle elezioni del 2006. Il governo Prodi del 2006-2008 ha avuto una vita molto breve, nonostante abbia creato in meno di due anni 400mila nuovi posti di lavoro. José Maria Aznar, nel 2004 ha perso le elezioni spagnole nonostante avesse dimezzato la disoccupazione e creato quasi 5 milioni di posti di lavoro durante il suo mandato.
I sondaggi evidenziano anzi un crescente malcontento per le condizioni di lavoro, proprio in quei paesi che hanno registrato la riduzione più significativa dei tassi di disoccupazione.

PERCHÉ?

Perché il sogno europeo si è trasformato in un incubo? La spiegazione più semplice potrebbe essere che il calo della disoccupazione sia dovuto a un fenomeno demografico, e che non dipenda dai cambiamenti dei livelli di occupazione di determinati gruppi socio-economici. In Europa la popolazione invecchia e sono soprattutto i giovani, più dei vecchi, a sperimentare il dramma della disoccupazione. Un’Europa che invecchia potrebbe, di conseguenza, evidenziare un basso tasso di disoccupazione semplicemente perché è cambiata l’età della sua forza lavoro. Tuttavia, questa semplice spiegazione non è sufficiente: può, al massimo, spiegare una minima parte, forse un decimo, del calo della disoccupazione, che si è verificato in tutte le fasce d’età. Neanche l’altro importante fenomeno demografico avvenuto in Europa nell’ultimo decennio, l’immigrazione su larga scala, riesce a spiegare esaurientemente l’enorme diminuzione del tasso di disoccupazione. Caso mai dovrebbe essere il contrario: un maggior numero di immigrati avrebbe dovuto incrementare il numero dei disoccupati. In effetti, il tasso di disoccupazione è più elevato tra gli immigrati che tra i nativi dell’Europa dei 15.
Per capire cosa è avvenuto in Europa e perché, paradossalmente, i suoi cittadini sono scontenti, nonostante la sensibile riduzione della disoccupazione, dobbiamo andare al di là dei dati di stock del mercato del lavoro e osservarne i flussi.
La prima cosa da notare è che la disoccupazione è diminuita nonostante l’aumento dei flussi della disoccupazione in entrata (flussi calcolati rispetto alla popolazione a rischio, cioè popolazione in età di lavoro meno i disoccupati). In altri termini, è stato principalmente l’aumento dei flussi della disoccupazione in uscita che ha determinato il calo della disoccupazione in Europa. In secondo luogo, si può notare un aumento di mobilità della forza lavoro tra gli Stati europei, che risulta evidente, dividendo gli indici di mobilità per le matrici di transizione, che mappano i flussi attraverso i mercati del lavoro dei principali paesi. Degno di nota il fatto che l’incremento della mobilità è stato più forte nei paesi in cui il calo della disoccupazione è risultato più marcato.

SONO STATE LE RIFORME

La situazione del mercato del lavoro in Europa appare oggi ben diversa dalle condizioni sclerotiche dei primi anni Novanta. Nel 1994 il Jobs Study realizzato dall’Ocse, un autorevole rapporto commissionato dal G7, affermava: “Nella rigida Europa (…) l’elevata incidenza di disoccupazione di lunga durata è collegata con i bassi flussi della disoccupazione in entrata”.
Perché è avvenuta quest’inversione di rotta, che ha trasformato un’Europa rigida in un’Europa mobile? Il fattore che ha determinato l’aumento dei flussi del mercato del lavoro sembra essere stato quello delle riforme della legislazione in tema di protezione del lavoro. Durante gli anni Novanta le riforme più importanti hanno ridotto il costo dei licenziamenti: mentre nel periodo 1986-90 vi erano state, nell’Europa dei 15, solo quattro riforme in materia, tra il 1996 e il 2000 ne sono state realizzate ben sedici. Gran parte di queste riforme sono state marginali: si sono limitate a ridurre la protezione del lavoro per i nuovi assunti, aumentando così il numero dei contratti a tempo determinato e introducendo nuove forme di contratti atipici, più flessibili. Ciò ha radicalmente trasformato le condizioni di ingresso nel mondo del lavoro. Nei paesi dove esistono norme severe, che regolamentano il licenziamento di lavoratori assunti a tempo indeterminato, gran parte delle nuove assunzioni viene fatta ricorrendo ai contratti atipici, molto flessibili. Per esempio, in Spagna, il passaggio dalla disoccupazione al lavoro di 9 persone su 10 avviene con contratti a tempo determinato. L’aumento dei flussi in uscita dalla disoccupazione è, in Europa, ampiamente collegata a queste nuove forme di assunzioni.
Il guaio è che invece di essere solo un modo diverso per entrare nel mondo del lavoro, questi contratti sfociano facilmente in un binario morto: la probabilità che, nel giro di un anno, il contratto a tempo determinato si trasformi in un contratto a tempo indeterminato è invero molto bassa, nell’ordine di 1su 20 o 1 su 10. In altri termini, queste riforme hanno creato un mercato del lavoro a due velocità, che produce pesanti asimmetrie nelle carriere, con tutti i rischi concentrati sulle spalle degli assunti con contratti atipici. Basandosi sulle matrici di transizione si può prevedere che, in futuro, fino a un terzo delle assunzioni avverranno con contratti flessibili.

IL NUOVO MERCATO DEL LAVORO

Il malcontento degli europei verso le nuove regole del mercato del lavoro dipende strettamente da questa nuova, apparentemente meno favorevole, combinazione rischi-benefici. Il mercato del lavoro sta diventando più rischioso, il che significa perdita di benessere per i lavoratori che sopportano tale rischio, a meno che quest’ultimo non venga compensato da rilevanti benefici. Ovunque in Europa si registrano crescenti pressioni, affinché lo Stato si impegni seriamente a difendere i salari. Pressioni che possono anche essere interpretate come richieste di compensazione, perché nessuno può dire di sentirsi completamente protetto. Persino gli insider ormai temono di poter perdere il loro lavoro.
Vi sono forti pressioni affinché si torni indietro. Ma dopo aver ridotto la partecipazione dello Stato nella difesa del lavoro, sarebbe un errore permettere ai governi di intervenire nelle negoziazioni salariali. Ciò che ha fatto recentemente la Germania, vale a dire imporre salari minimi, specifici per i diversi settori, espone i governi al rischio di pressioni sempre più insistenti da parte delle lobby nazionali e al pericolo di un’escalation di sfide concorrenziali tra le aziende. E non esistono ragioni di sorta per reintrodurre una politica dei redditi, sia pur in forma blanda, come quella adottata da molti paesi europei in vista dell’ingresso nell’Unione monetaria. Una politica centralizzata dei redditi non è, in effetti, uno strumento appropriato nell’ambito dell’Unione Europea, perché gli choc macroeconomici sono, per loro natura, più regionali o settoriali. È il motivo per cui il sistema di relazioni industriali, basato su organizzazioni sindacali nazionali, non è adatto per affrontare la nuova domanda microeconomica di flessibilità.
La miglior risposta che si può offrire alle paradossali preoccupazioni dimostrate dagli europei nei confronti del calo della disoccupazione è quella di decentralizzare ancora di più le negoziazioni salariali, legando gli stipendi alla produttività. Certo, aumenta il rischio, perché il passaggio da un impiego all’altro comporta, in genere, una forte perdita salariale, mentre i contratti collettivi nazionali prevedono scatti automatici. Cambiare lavoro o restare per qualche tempo disoccupati significa, in quest’ottica, non riuscire a migliorare il proprio reddito. Si possono, però, proporre buone combinazioni rischi-benefici, collegando strettamente i salari alla produttività settoriale. Se il cambio di lavoro comportasse l’ottenimento di buoni risultati, ecco che il passaggio da un impiego all’altro aumenterebbe il reddito invece di diminuirlo.
Allo stesso tempo, è assolutamente necessario far qualcosa per neutralizzare il crescente dualismo tra lavoro a tempo determinato e quello a tempo indeterminato, presente in quasi tutti i mercati del lavoro europei. Costa molto caro alla società perché disincentiva dall’accumulare capitale umano: non si investe, infatti, nella formazione dei lavoratori con contratto a termine, altrettanto quanto in quella dei dipendenti. Sarebbe auspicabile mettere in atto una politica che offrisse reali prospettive di carriera ai giovani, riformando le leggi di protezione del lavoro. Oggi, quando scade un contratto a termine, non esistono prospettive di lungo respiro. I governi dovrebbero promuovere una legislazione che preveda il graduale inserimento definitivo del giovane, eliminando così l’esistenza di un mercato del lavoro a due velocità. Sarebbe opportuno introdurre garanzie, sotto forma di indennità, che dovrebbero aumentare con l’età, qualora il lavoratore abbia prestato la sua opera con una certa continuità.

DESTARSI DALL’INCUBO

E infine, se gli europei sono scontenti, nonostante il calo della disoccupazione, ciò è dovuto anche al fatto che a maggior occupazione non corrisponde maggior produttività, ma anzi il contrario: più cresce l’occupazione, più cala la produttività. E ciò non permette ai lavoratori di guadagnare di più, nonostante i maggiori rischi cui sono esposti. L’Europa, infatti, accusa un forte ritardo nel cammino delle riforme del mercato del lavoro. I governi devono assolutamente resistere alle pressioni, sempre più insistenti, affinché si ritorni ai vecchi sistemi, che avrebbero effetti deleteri sull’occupazione; per aumentare occupazione e produttività bisogna abbandonare i vecchi schemi e fare esattamente il contrario. Ormai, l’Europa è in mezzo al guado e deve a tutti i costi raggiungere l’altra riva, introducendo sistemi che assicurino impieghi più stabili, ma decentralizzando le negoziazioni, per legarle sempre più alla produttività.

(traduzione dall’inglese di Daniela Crocco)

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UNA VITTORIA DEL MERCATO

21 commenti

  1. Carlo

    Per favore, basta ipocrisia: chiamiamo le cose con il loro nome. Le aziende non propongono stage su stage come periodo di "verifica": lo fanno per risparmiare e sfruttare punto e basta, perche’ tutti i contratti di lavoro prevedono periodi di prova in cui si puo’ licenziare senza giusta causa. Quando prestigiosi studi legali "assumono" neolaureati facendogli aprire la partita IVA, commettono una frode, perche’ non si avvalgono dei servizi di un consulente occasionale ma di un vero e proprio lavoratore dipendente. Un piccolo studio di provincia forse potrebbe anche non permettersi di fare altrimenti (da vedere, pero’) ma non mi si venga a dire che lo stesso vale per gli studi piu’ prestigiosi di Milano o Roma! A meno di 3 anni dalla laurea, mi posso permettere un bell’appartamento nel pieno centro della citta’, non mi faccio mancare niente, e riesco anche a mettere da parte un bel gruzzolo a fine mese. Come mai? Ho lasciato l’Italia e lavoro a Londra!

  2. Marco Tesei

    Sono uno studente dell’universita di Siena quindi il mio commento non sarà al pari di professori universitari presenti in questo sito, voglio comunque dire la mia : Il mercato del lavoro dei paesi dell’unione europea è sempre stato caratterizzato da una disoccupazione elevata e bassi flussi di entrata/uscita da essa. Fa parte della nostra mentalità essere molto avversi al rischio (paesi mediterranei) – i prodotti finanziari piu venduti dalle banche specialmente in questi paesi sono a "rimborso garantito del capitale". Il motivo è semplice, la nostra vita media si allunga costantemente (paesi mediterranei) e dobbiamo lavorare molto in età produttiva per avere le disponibilità che ci serviranno in futuro per mantenere il tenore di vita da noi desiderato. Con un lavoro stabile si possono fare dei progetti/investimenti/risparmi che mi assicureranno contro il "rischio di vivere troppo a lungo". Anche se il mio modo di pensare non rispecchia quanto appena descritto, quando si fanno delle riforme in un Paese, và tenuto conto del tessuto socio-culturale di chi dovrà applicarle; è l’unico modo per evitare in parte i malcontenti. In america c’è flessibilità ma i stipendi reali sono più elevati

  3. Luigi Sandon

    Non vedo il problema di imporre un salario minimo. In genere l’azienda è l’attore più forte, e maggiore decentralizzazioni significa anche minor peso del lavoratore nella negoziazione. A parte poche mansioni dove la domanda supera l’offerta, senza un salario minimo temo si assisterebbe ad un’asta al ribasso. Per di più il salario minimo per un contratto a tempo dovrebbe essere maggiore, per disincentivare l’uso prolungato e generalizzato. Il lavoratore a tempo si assume un rischio, che va correttamente remunerato.

  4. Alessandro

    Complimenti è quello che ripeto in continuazione a mio figlio “scappa dal’italia tu che puoi”.
    Comunque penso che che ci riuscirò anch’io.
    Buon lavoro

  5. marco l.

    Generalizzare nuoce, poiché entro all’Europa le differenze sono molte. La mobilità dai paesi più poveri a quelli più ricchi giova ai primi nelle statistiche della disoccupazione, ma al tempo stesso non favorisce certo adeguati riequilibri contrattuali. In alcuni paesi, fra cui l’Italia, il livello dei salari è fermo da circa venti anni, anche perché storicamente ancorato all’illecito strumento dei fuori busta, oggi sfumato con la crisi dei profitti. Legare aumenti salari e produttività è certo auspicabile in chiave di prevenzione stagflazionistica, ma perché poi dovrebbe impedire l’adozione di soglie di retribuzione minime stabilite nella contrattazione centrale? E’ davvero questo “minimo garantito” lo svantaggio competitivo che frena la crescita europea? Non scordiamo che a parità di costo della vita un impiegato italiano guadagna meno della metà di un tedesco o di un francese, con inoltre notevoli garanzie in meno. Stiamo attenti a non applicare della flessibilità solo i lati favorevoli alla componente imprenditoriale, facendo ingiallire nei cassetti dei ministeri le sentenze della Corte di Giustizia Europea a tutela dei diritti dei lavoratori.

  6. Enzo Tarquini

    Il mercato del lavoro è rigido in entrata ma ancor di più in uscita. Diciamo ai nuovi flessibili che gli "insiders" godono di tutele ampiamente eccessive (vedi art. 18 dello Statuto dei Lavoratori) che sterilizzano il potere contrattuale delle aziende. I diritti hanno un costo, i nuovi assunti avranno poche tutele perchè i loro predecessori con politiche dissennate e assservite al clientelismo e alla partitocrazia hanno bruciato gran parte delle risorse da destinare ai posteri. Perchè noi giovani dovremmo mai lavorare per pagare pensioni a chi ha passato più tempo a leggere i giornali e stare in casa piuttosto che al lavoro? In un mondo di risorse scarse non è giusto ciò che è stato fatto…chi ha sbagliato che paghi.

  7. mirco

    Non raccontiamo favole. Le imprese trasferiscono fuori dall’europa dei 15 molta produzione, quando anche gli ultimi arrivati ( romania bulgaria ecc) avranno raggiunto un livello decente di salario, allora si potrà riparlare di salari decenti a meno che la Cina e l’India non abbiano contribuito a ridurre ancora il prezzo del costo del lavoro. Con la globalizzazione si è aperta una voragine.I sindacati nazionali europei non riescono a contrattare salari decenti e posti di lavoro a tempo indeterminato perchè i capitalisti possono sempre trasferire la produzione in altri paesi (anche produzioni ad alto contenuto tecnologico ).Ma una situazione simile a quella del 29 mi sembra che si sitia già creando…I governi europei non fanno gli interessi dei lavoratori e una Europa più insicura è una Europa meno unita L’Europa? che delusione rispetto ai principi scritti nel 1957! Chi ve lo ha ordinato il medico di allargarvi a 27?

  8. Armando

    Nel secondo dopoguerra si è creato un sistema economico che ha saputo coniugare una forte crescita del Pil all’estensione dei suoi benefici a tutte le classi sociali. Il sistema non era esente da difetti, dato che lasciava fuori dai problemi l’ambiente e il Terzo Mondo. Ma le persone vivevano con una ragionevole certezza sul proprio futuro. Oggi questo sistema è in via di smantellamento per essere sostituito anche in Europa dal liberismo, di cui esistono varie forme, dalle più brutali e quelle più soft (di cui questo articolo è un esempio), tutte con l’obiettivo di togliere alla gente le sicurezze su cui fino a ieri poteva contare. Non è detto che il gioco riesca. Non è detto che l’italiano medio si trasformi nel buon liberale sognato dagli economisti. Per ora si è visto un deterioramento della qualità della vita impressionante, che non è tanto o solamente economico, quanto morale, relazionale, culturale. (Per non parlare della scomparsa della politica, perché quando si può seriamente affermare che "il liberismo è di sinistra" vuol dire che si è giunti a un punto in cui qualunque affermazione vale qualsiasi altra).

  9. Claudio Resentini

    Sono d’accordo con il prof. Boeri che il lavoro, così come si è andato delineando negli ultimi decenni, non protegge più dai rischi sociali, povertà in primis. Però il mercato del lavoro è diventato “più rischioso” non solo per i bassi stipendi, ma soprattutto per la precarietà del lavoro. Inoltre legare i salari alla produttività non farebbe altro che allargare la “forbice” tra i lavoratori e caso mai potrebbe portare ad aggravare la situazione, migliorando le entrate di qualcuno, ma peggiorando quelle di qualcun altro (non “produttivo”), spingendolo sotto la soglia di povertà. Sarebbe anche il caso di precisare che il milione e passa di posti di lavoro “creati” dal governo Berlusconi sono un effetto ottico dovuto soprattutto ai fattori demografici citati dal prof. Boeri. Inoltre bisognerebbe aggiungere che i valori degli indicatori statistici relativi al mercato del lavoro sono cambiati, non solo perché è cambiato il mercato del lavoro “reale”, ma perché sono cambiati gli indicatori stessi e la loro modalità di rilevazione (ricordo soltanto che basta una sola ora di lavoro nella settimana precedente all’intervista per considerare una persona occupata).

  10. Giovanni Caruselli

    Credo che la questione possa essere così sintetizzata. Se vogliamo creare un milione di posti di lavoro alla svelta è sufficiente dimezzare il salario di un milione di lavoratori e offrire quello che avanza a un altro milione di lavoratori in attesa di impiego. Poi chiediamo sia agli uni che agli altri di "produrre" di più se vogliono mangiare magari lavorando dieci o dodici ore al giorno e infine ci chiediamo: come mai sono tutti così arrabbiati?

  11. Paolo Roberts

    Il vero paradosso della nostra epoca è che il mondo sta ritornando indietro non in direzione di una maggiore sicurezza della continuità del rapporto di lavoro che per tutti non è mai esistita, ma verso un sistema economico che polarizza le retribuzioni, aumentando la forbice salariale in modo miope e irrazionale. Gli stipendi e l’avidità di manager, uomini politici, personaggi dello spettacolo e del mondo dello sport, assomiglia sempre di più alla follia di uno sciame di locuste, assolutamente incurante degli effetti che il loro comportamento e il loro esempio ha sulla società. Una società, ormai divisa in caste, che non comunicano tra loro se non attraverso lo scontro e lo sfruttamento reciproco. Dobbiamo cominciare a rispettare noi stessi, gli altri, tutti gli altri, e il pianeta su cui viviamo, ricordandoci che nessun "uomo è un isola" e che tutto quello che io spreco o che voglio per capriccio, potrebbe essere essenziale per la sopravvivenza di qualcun altro.

  12. Sara G.

    Credo che un problema fondamentale sia ancora l’esiguo numero di popolazione attiva in Italia; vivo negli USA e ritengo eccessivo dover lavorare sempre (per pagarsi l’assicurazione sanitaria). Ma In Italia quanti sono i lavoratori del settore privato? Arriviamo a 18 milioni? Non si trova molta documentazione a riguardo. Ma e’ sulle spalle di quelli che grava l’intero paese. L’incremento dell’attivita’ economica, ben venga se sara’ grazie allUE a 27 membri, sara’ conditio sine qua non.

  13. Francesco Bizzotto

    Dubito che la soluzione alla vigliaccata di scaricare sui giovani il problema della flessibilità del rapporto di lavoro sia l’adozione di dispositivi di stabilizzazione dei precari. Il dualismo attuale va superato in avanti: con accordi di Territorio che creino un mercato del lavoro trasparente per il lavoratore che vuole cambiare e per l’impresa che cerca specialisti. Questo libero mercato deve crearlo la politica locale. Oggi i lavoratori sono scontenti (sprecano il loro potenziale) e le aziende perdono produttività (non hanno la collaborazione dei talenti giusti). Un accordo di Territorio mi pare possa facilmente favorire queste relazioni (la nascita e la fine della collaborazione, "dipendente" o paritaria che sia). Deve prevedere strumenti di rilevazione delle esigenze e competenze e di formazione su misura. E deve creare un fondo di sostegno nel passaggio da un lavoro all’altro. Il futuro? Saremo all’80% specialisti autonomi ("Persone"), con diverse relazioni di collaborazione, tra "imprenditori". Lo saremo a misura delle nostre scelte di vita. Il lavoro dipendente generalizzato (a mo’ d’individuo idiota) è un’invenzione recente (poco più di 150 anni) ci ricorda Elliot Jaques.

  14. Ivano Canteri

    L’accademia, al solito splende, ma dimentica di osservare la realtà con schiettezza. E allora scopriamo che le imprese non reinvestono, che il capitale si fa sempre più cartaceo, che l’economia globale è condizionata da fattori che nulla hanno a che vedere con meccanismi che si direbbero propri di un mondo liberista "comme il faut" (o "comme il faudrait"?). E allora ogni discussione sul trattamento del lavoro e sugli stratagemmi cosmetici per abbellire la realtà di una disoccupazione a cui non si sa come rispondere se non con escamotage precarizzanti e flessibilizzanti, non incidendo sulla realtà delle cose, ci dice che ad essere in crisi è il modello (ammesso che tale possa essere definito) di fondo che non riesce a svincolarsi da una miope politica della contingenza e non è in grado di ripensare ai grandi assetti globali in chiave, liberandosi una volta per tutte dai nefasti esiti della triste stagione tatcheriana-reganiana. Se non si capisce questo, ogni soluzione sarà di corto respiro e soprattutto rappresenterà una bomba ad orologeria contro la stabilità e la permanenza delle nostre società e delle nostre economie.

  15. Tarcisio Bonotto

    La necessità umana di sopravvivenza è sostanziata nel mondo moderno con il diritto al lavoro, ad un significativo lavoro, non solo per la produzione ma per la crescita personale e sociale. Se si tolgono questi due ultimi fattori, la sola produzione produce mostri. E’ necessario il profitto razionale, ma non eccessivo, l’utilizzazione delle capacità individuali ma non lo sfruttamento, la partecipazione contro l’alienazione del posto di lavoro. Ebbene la disoccupazione in Italia è calata certo ma sono aumentati i precari a circa 3,5 milioni. In Europa dal 2001 i precari sono aumentati da 40 milioni a 100 milioni. Occupazione fasulla per dare fiato all’instabile mercato mondiale. Che senso ha? L’economica è per la sopravvivenza e lo sviluppo umano e del pianeta. Ripensiamola in termini razionali, e cominciamo dalle unità socio-economiche locali, autosufficienti. Altrimenti dal caos del mercato globale non si ricavano certezze, nè sistemi. Il sistema economico sociale dobbiamo farlo noi.

  16. francesco

    Mi tovo in totale armonia con uno dei commentatori. L’evidenza è manifesta, frotte di imprenditori si sono da molti anni ormai (e quindi non sono in procinto) spostati con il comparto produttivo ad est, vuoi immediato(romania,bulgaria,ucraina), vuoi estremo (Cina, India, Vietnam). La spinta propulsiva non è certamente conclusa, basti verificare i dati alle varie ambasciate o ai vari ICE per notare come anagraficamente, in europa, siamo quasi sempre tra i primi a muoverci in massa. Quello che era un comparto manifatturiero composto da solide realtà produttive istallate, è diventato una palazzina con 40 call center, 50 amministrativi ed un direttore generale. Cosa ci possiamo aspettare dal nuovo italico comparto: carta.enormi castelli di carta. Lo sappiamo tutti poi come va a finire con la carta e le varie sorelle e fratelli americani (Lehman) insegnano, una ventata fuori stagione e cade tutto. In siffate condizioni c’è da ritenere ancora il lavoro come calmiere o scudo di rischi sociali?

  17. giuseppe

    Nulla di nuovo sotto il cielo? La storia si ripete. Grazie ad alcune delle conquiste sociali del secolo scorso (il Diritto del lavoro, lo Statuto dei Lavoratori, ecc..) sono stati riequilibrati, in parte, i rapporti di forza tra capitale e lavoro. E tuttavia lo sviluppo economico non è stato per questo pregiudicato. Grazie alla globalizzazione economica (che, come giustamente annotato, stà solo aumentando esponenzialmente la polarizzazione della ricchezza senza eliminare ne diminuire la povertà preesistente) è in atto una clamorosa operazione di sostanziale "regresso": non c’è bisogno di abrogare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori dato che la progressiva precarizzazione dei rapporti di lavoro (il contratto di lavoro "normale" è ormai quello a tempo indeterminato), di fatto, stà abrogando le tutele ivi previste!! Le "riforme" che molti economisti propongono non sembrano adatte a dare risposta ai bisogni delle persone. I modelli astratti sono una cosa, la realtà concreta è un’altra. Del resto, nessun modello economico aveva previsto che la globalizzazione avrebbe determinato l’attuale regresso economico e sociale del mondo occidentale.

  18. paolo

    L’articolo si conclude con un riferimento all’aumento di occupazione collegato alla riduzione di produttività e consegunetemente ad un minor salario per il lavoratore che determina una minore felicità di questultimo. Tutto il ragionamento è legato al fatto che un individuo, più aumenta il consumo (guadagna) e più è felice (teoria neoclassica). A me piace pensarla in modo diverso e cioè come la tesi provocatoria di Richard Layard: egli afferma che un’imposta sul reddito non sarebbe distorsiva perchè l’individuo preferisce consumare tempo libero rispetto a guadagnare di più (e lavorare di più). Quello che si può notare è che il lavoro flessibile (senza tutele) è aumentato, questo viene subìto principalmente dai giovani, la ricattabilità determina un aumento di produttività e una riduzione di tempo libero ma anche un minor salario rispetto ai colleghi più anziani. Alla luce della teoria di Layard è evidente la causa del malcontento, in primis il minor consumo di tempo libero e poi il minor reddito rispetto alle posizioni relative dei colleghi più anziani (l’individuo è più felice di avere meno -in valore assoluto- ma più degli altri), non determina insoddisfazione il minor guadagno in assoluto.

  19. marie arouet

    Tempo fa (anni 90) si teorizzò il lavoratore povero: ci siamo arrivati. Se il reddito prodotto dalla nazione dagli anni novanta in poi è aumentato, ciò mal si concilia con il peggioramento delle condizioni economiche della generalità dei cittadini normali. Nulla si crea e nulla si distrugge e di conseguenza a qualcuno è stato tolto ed a qualcuno è stato dato. Propongo di teorizzare il lavoratore ricco o se preferite l’imprenditore meno ricco. Forse con uno sforzo teorico e pratico si potrebbero trovare gli strumrenti idonei, mutatis mutandis, per raggiungere un obbiettivo meritevole. Il lavoro è un mezzo propedeutico per la soddisfazione dei bisogni e delle aspirazioni delle persone e non può diventare uno strumento di sopravvivenza. Un lavoratore estremamente produttivo può contemporameamente essere buon padre e marito ed un buon cittadino ed una brava persona? La dimensione economica deve contribuire alllo sviluppo ed alla elevazione dell’individuo mentre oggi tutto appare ad essa sacrificato sulla base di un semolice e, diciamolo pure, volgare ricatto dissimulato dalle tante astruse ed indimostrabili teorie sulò fatto che viviamo nel migliore dei mondi possibili.

  20. E. Massagli

    Non si può spiegare la frustrazione sul lavoro solo con teoremi economici. Non è vero che un lavoratore è irrequieto solo perchè pagato poco o insicuro del posto; senza fraintendimenti, questo è sicuramente un problema notevole, non risovibile con le vecchie categorie del mercato del lavoro (personalmente sposo, tra le soluzioni, anche quella di legare il salario alla produttività) e certamente problema da prime pagine dell’agenda. Ma sotto questo problema vi è una debolezza culturale forte, difusa quanto l’insicurezza economica, sopratutto fra i giovani (categoria di cui faccio parte). Ci si accontenta del posto, si cerca la sicurezza contrattuale prima ancora che la soddisfazione in quello che si fa e di conseguenza si compie il minimo indispensabile. E allora è normale che salga l’occupazione (si prende quel che c’è…), ma contemporaneamente diminuisca la produttività (anche se non piace) e la soddisfazione. Il rischio è limitare questo fenomeno a pur presenti fattori istituzionali, mancanze strutturali: il fenomeno è più profondo e ha origine nella concezione neoclassica che mette al centro dell’azione il bisogno dell’uomo e non il desiderio. Il primo frena, il secondo aziona.

  21. giuseppe

    Ha dichiarato il Prof. Tommaso Padoa-Schioppa (Settembre 2006): "Il problema dello stallo della produttività dipende dai comportamenti delle imprese e in particolare dalla dinamica insufficiente degli investimenti e dell’innovazione""". Sembrerebbe, quindi, che la scarsa produttività non sia imputabile al presunto "ritardo nel cammino delle riforme del mercato del lavoro". Perchè quindi si insiste nella richiesta di "scaricare" sui lavoratori i costi dell’icapacità o, più semplicemente, della scarsa volontà delle imprese di fare la loro parte (specialmente in Italia)? Perchè tutti i diffetti del sistema economico sarebbero sempre imputabili solo ad uno dei due principali fattori della produzione: il lavoro (senza mai mettere seriamente in discussione l’altro: il capitale)? Nonostante tutte le statistiche internazionali pubblicate dicano che negli ultimi anni si è registrato un netto aumento dei profitti a danno dei salari/retribuzioni? Nonostante questo effetto di sempre più accentuata polarizzazione della ricchezza prodotta, grazie alla tanto osannata (dai liberisti) globalizzazione economica senza regole e senza controlli, sia ormai sotto gli occhi di tutti?

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