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IL FEDERALISMO COSTA SOLO SE FALLISCE

Il federalismo fiscale promette un risparmio, non maggiori spese. Perché il riferimento al costo standard elimina le inefficienze insite nella spesa storica. Il risparmio atteso sarà comunque quantificabile solo quando i decreti legislativi preciseranno le norme operative. Si trasformerà in costo solo in caso di fallimento della riforma e quindi di duplicazioni di funzioni e burocrazie o di irresponsabili sanatorie, come purtroppo già successo in passato. Il quesito di oggi riguarda quindi non le cifre, ma la probabilità di successo o di fallimento del progetto.

Da più parti si chiede a gran voce di conoscere i costi del federalismo fiscale. È una richiesta che desta stupore. Non tanto perché è chiaramente intempestiva, dato che il disegno di legge delega approvato dal Senato rimane a livello di principi; sicché occorrerà attendere i decreti legislativi e le norme precise che essi conterranno per fare calcoli. Quanto piuttosto perché la richiesta è mal posta. Perché mai dovrebbe esserci un costo del federalismo fiscale? Sembra che si sia di fronte al progetto di un’autostrada, che promette grandi benefici futuri, ma di cui intanto è bene conoscere la spesa prevista. Ma qui si tratta di una riorganizzazione dei rapporti tra centro e periferia, a parità di funzioni complessive. Perciò non di costo si tratta, ma di risparmio atteso. Si può infatti dire a priori che il federalismo fiscale abbasserà il livello complessivo della finanza locale. Se funzionerà. Sarà il costo standard, infatti, e non il costo storico a determinare quanto dare alla periferia. Un costo ancora da definire, è vero. Ma un costo basato su un concetto chiaro: che la spesa necessaria all’adempimento dei compiti affidati a regioni, province e comuni va valutata in base a un ragionevole standard di efficienza, senza più accettare l’inefficienza insita in molti casi nella spesa storica.

CATTIVI ESEMPI

Dire che il federalismo fiscale promette un risparmio, sia pure non quantificabile ora, equivale a dire che un eventuale maggiore costo è concettualmente associabile non alla riforma, bensì al suo fallimento. Se la macchina burocratica centrale non verrà ridotta in cambio della dilatazione di quella periferica, allora sì che il federalismo fiscale comporterà un doppio costo. Oppure, se numerosi comuni, province e regioni si terranno le maggiori risorse locali che una dilatata autonomia tributaria consentirà loro di prelevare e poi chiederanno a Roma quanto o più di quello che ottengono ora e lo otterranno da un governo e un Parlamento ricattati dai buoni sentimenti o preoccupati dalle prossime elezioni più che dalle crepe delle finanza pubblica, allora sì che il federalismo fiscale comporterà una spesa aggiuntiva e non un beneficio per la nazione.
Non sarebbe la prima volta che un vantaggio atteso si trasforma in danno.Èben noto il paradosso del maggiore impiego pubblico statale che si è manifestato dopo il forte decentramento di funzioni introdotto a fine anni Novanta dalle leggi Bassanini. E per quanto riguarda il mancato rispetto delle regole nel rapporto tra centro e periferia, esso caratterizza una parte rilevante della storia finanziaria dell’Italia repubblicana. Fin dagli inizi, quando la Sicilia ottiene il diritto di trattenere praticamente l’intero prelievo tributario locale in cambio di maggiori impegni di spesa, in particolare in cambio dell’ingente spesa per l’ istruzione, e poi si tiene le risorse senza pagare le scuole. E in seguito, con la politica successiva alla riforma fiscale degli anni Settanta, quando il governo pone ai comuni vincoli di bilancio che non fa rispettare e procede poi a sanatorie dei deficit e addirittura basa i successivi trasferimenti sulla spesa “sanata” e quindi premia di fatto i comuni meno virtuosi. E poi ancora, con i deficit della gestione regionale della sanità, che nell’ultimo triennio hanno indotto a dare ad alcune regioni miliardi di fondi aggiuntivi rispetto a quanto loro attribuito dalla formula di ripartizione del fondo sanitario nazionale, che è tecnicamente una buona formula. E per arrivare ai giorni nostri, abbiamo già dimenticato i 140 milioni a Catania e i 500 a Roma di qualche settimana fa?
Ovviamente, non si può chiedere al riformatore di prevedere il fallimento della propria riforma. Ma lo studioso ha il dovere di farlo se le condizioni strutturali lo rendono l’evento più probabile, a dispetto delle buone intenzioni del legislatore e dei criteri di stimolo e salvaguardia che vengono inseriti nella legge: nel caso specifico, ossia per il Ddl sul federalismo fiscale approvato in Senato, a dispetto delle sanzioni per gli amministratori non rispettosi dei vincoli, dei premi per la buona gestione e per le fusioni e unioni di comuni, del remunerativo coinvolgimento degli enti periferici nella lotta all’evasione, del divieto di ogni duplicazione di funzioni e di ogni aumento della pressione fiscale complessiva (articolo 27).
Il quesito che logicamente precede ogni ricerca quantitativa è dunque quello, banale e drammatico insieme, che riguarda la probabilità di corretta applicazione della riforma. A seconda della risposta, si cercherà poi di stimare il risparmio o il costo che il federalismo fiscale comporterà per il paese.

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15 commenti

  1. Giacomo Dorigo

    Quello che mi chiedo è perché semplicemente una volta affidate alle regioni alcune funzioni non si affida loro anche il compito di decidere e prelevare le imposte necessarie a finanziarle in modo del tutto autonomo. Saranno poi gli elettori a decidere se le loro regioni stanno spendendo o meno in modo efficiente il loro denaro premiando o punendo i propri amministratori al momento delle elezioni locali.

  2. Luciano

    Gli esempi citati con riferimento al SSN dove il federalismo è già stato attivato forniscono a mio giudizio la risposta. Difficile pensare che Regioni che non sanno gestire la spesa sanitaria possano gestire bilanci molto più complessi. Vi ricordo, ad esempio, che la spesa sanitaria della Sicilia è fuori controllo e che se siete un produttore di dispositivi biomedici dovete attendere quasi due anni per essere pagati dalla Regione Lazio. La logica dei costi standard e’ accademicamente corretta ma ricordiamoci che siamo in Italia. Saluti

  3. luigi zoppoli

    Non c’è che dire. Il ragionamento esposto fila. In argomento federalismo ho però un dubbio. Si sostiene che la vicinanza geografica di prelievi e spese garantirebbe un miglior controllo da parte dei cittadini e la sanzione elettorale a carico degli amministratori inefficienti. Beh! Oggidì è vero che nn c’è pieno federalismo ma c’è il premio elettorale a favore di amministatori che palesemente dissipano ed amministrano a forza di clientelismo. Cosa fare?

  4. Davide Borricelli

    L’unanimismo che accompagna questa riforma è semplicemente sbalorditivo. dare alle regioni più povere la possibilità di pagare le proprie maggiori esigenze con i propri minori fondi (salvo poi compensare con un po’ di elemosine)… trovo che sia davvero un’ottima idea. E’ di moda considerare, specie in un momento di crisi, il Sud Italia come un peso e non come una opportunità. Il federalismo costa solo se fallisce?! occorrerà solo ricordarsi di aggiungere ai costi la distruzione dell’unità nazionale, sempre che qualcuno non la veda come un beneficio. Sono contrario alle forme assistenzialistiche dello scorso secolo, condivido la necessità di porre come riferimento il costo standard ad esempio per la spesa sanitaria, ma facciamo attenzione, il divario nord-sud è un problema nazionale anche quando al governo c’è la lega.

  5. Giorgio Sarrietti

    Scommettere sul fallimento del federalismo fiscale è come scommettere sul risultato di una partita di calcio tra una squadra di serie A ed una che milita in promozione! Il Federalismo Fiscale è una complicazione, moltiplica i centri di spesa e motiplica quindi quelli che saranno i corruttibili, che (Corte dei Conte Docet) diventeranno spesso corrotti ! Una nuova "ondata" di denaro pubblico (cioé nostro) che finira nelle tasche dei politici locali invece di finanziare la ripresa andremo a "finanziare" i soliti noti. In questi periodi occorre sopratutto tagliare le spese ed allora bisognerebbe pensare a snellire la Pubblica Amministrazione (altro che moltiplicare i centri di spesa !) e quindi cominciare ad abolire e, tanto per cominciare, le province (ma abolirle veramente, senza poi sostituirle con qualcosa d’altro) ! Ma nonostante questa abolizione sia scritta nero su bianco sul programma del Centro Destra si sono guardati bene dal farlo ed anzi proprio la Lega (che ne controlla 6 di province) si è fermamente opposta a questo taglio…!

  6. Tullio Lembo

    E’ vero che il federalismo fiscale "costa solo se fallisce", ma quasi tutti gli esempi portati nell’articolo, a tutti noti, fanno poco ben sperare. Anche nelle aziende private, d’altra parte, i processi di decentramento organizzativo quasi sempre per un certo periodo comporta maggiori costi. Cosa dire, soprattutto in un momento di crisi economica, per un Paese come l’Italia, che è nelle posizioni di testa a livello mondiale per la corruzione e in cui intere Regioni del Mezzogiorno sono fortemente controllate dalla malavita organizzata? Ci sono le condizioni?

  7. Fabio Pietribiasi

    Anche questo articolo, come altri precedenti, è permeato da un cupo pessimismo. Penso sia un atteggiamento responsabile e sia necessario tenere la contabilità di una riforma, che si preannuncia disastrosa sotto il profilo economico – finanziario. I numeri che ci saranno rivelati ci daranno la misura del prezzo che parte consistente dello schieramento politico è disponibile a far pagare al Paese per arrivare comunque ad una riforma del vetusto impianto istituzionale e burocratico. Molti si sono convinti che per liberarlo delle incrostazioni che lo paralizzano e lo rendono iniquo, le buone maniere non servono ed occorre scassare qualcosa. Potremmo creare pesanti duplicazioni e far emergere nuove iniquità, ma alla fine potremmo forse ricomporlo in modo diverso. Una scommessa, un processo lungo e, al punto cui siamo giunti, inevitabile.

  8. Luciano Scalzo

    La prova che il federalismo fiscale è destinato a tramutarsi in una moltiplicazione dei centri di spesa e di baronati locali sta in ciò che viene ignorato, il problema della "dimensione dell’ente locale". Prescindendo da considerazioni storico-geografiche, un sistema di governo a più livelli deve essere strutturato per assicurare una fornitura efficiente di beni pubblici. L’incidenza spaziale dei beni pubblici offerta varia, però, da un bene all’altro con la conseguenza che un ente locale che svolge diverse funzioni genera esternalità di costi e benefici. Tali spillovers indebiliscono l’efficienza economica del decentramento della fornitura di beni e servizi. A quanto mi consta solo alcuni comuni del Valdarno hanno previsto la possibilità di accorpamenti in vista di una dimensione efficiente. Come mai questo tema è completamente ignorato dal dibattito politico?

  9. enzo

    Un aneddoto: una parente canadese abitante di una città sui 100 mila abitanti mi raccontava di come gli abitanti della vicina capitale osservavano con raccapriccio l’esistenza di un ospedale nella cittadina, erano consapevoli che con le loro tasse gli indigeni non si sarebbero mai potuti permettere quell’ospedale, quindi i soldi in parte ce li mettevano loro. A parte l’episodio mi ha sempre colpito la consapevolezza dei nordamericani della correlazione esistente tra tasse e spesa pubblica cosa che fra gli italiani sembra inesistente. Spero che quando il nostro misterioso federalismo fiscale avrà luce sarà caratterizzato dalla responsabilità di ogni amminstrazione di chiedere ai propri cittadini i soldi che intende spendere.

  10. antonio petrina

    Credo che il prof. Muraro abbia effettivamente azzeccato il nocciolo: qui ogni giorno c’è un costo che la collettività paga per la mancanza di federalsimo fiscale. Il decentramento Bassanini ha fallito perché si sono moltiplicati i centri di spesa al centro ed in periferia!

  11. Vincenzo

    Quando la cosa pubblica, circa 52-60 anni addietro, era amministrata da una popolazione semianalfabeta si aveva un debito pubblico accettabile. Da quando la cosa pubblica è passata in mano a Laureati e Super Manager, la sua amministrazione fa acqua da tutte le parti. Poveri nipoti nostri

  12. Attilio Arrigoni

    Nulla da aggiungee all’oggetto.

  13. roberto

    L’Italia ha conosciuto la maggiore crescita economica e sociale fino agli anni ’60. Considerando il contesto storico (la rinascita dopo una guerra) a mio avviso la crescita è stata possibile con un Governo di grande programmazione ( pur con tanti difetti) diciamo centralista.Nel ’68 è stata annientata la scuola . Nel ’70 (l’avvento delle Regioni volute dalla sinistra) e la fine dello Stato, ha causato una ingovernabilità folle, una corruzione da paura, un aumento del debito pubblico da sud-america. La grande disinformazione, furbescamente praticata da un partito nelle aree culturalmente più deboli, ha paragonato il "nostro futuro federalismo" a Nazioni come gli Stati Uniti o l’Australia senza però ricordare che il Texas è un territorio grande 2 volte e mezzo l’Italia il Friuli ha gli stessi abitanti di un quartiere di Roma. Per chiudere ritornare ad uno Stato programmatore, dimezzare il numero dei Comuni eliminando le Provincie e riportare le Regioni ad efficenti enti amministrativi ( altro che sedi di rappresentanza all’Estero). La bufala federalista che ci stanno presentando ( non applicabile) guarda caso, se per ipotesi fosse attuata, favorirebbe, un territorio come Roma e Milano.

  14. Roberto

    Il federalismo costa solo se non è responsabilizzato. E necessaria la definizione dei costi standard secondo cui una garza costa 5 euro a Milano e 5 euro a Palermo. Una regione attraverso i suoi tributi ha un’entrata. Se questa entrata non basta a garantire a tutti un servizio, lo stato interviene integrando le entrate della regione secondo il criterio del costo standart, e questo riguarda le regioni povere con bassa capacità contributiva. Infatti, la spesa lievita se non c’è il costo standart, cioè se non c’è controllo. Se una regione è in deficit non riceve nessuna integrazione dallo stato. Se vuole un’integrazione deve risanare il deficit. Sicuramente per ridurre ancora la spesa serve ridurre la frammentazione delle competenze secondo cui più enti si occupano della stessa spesa. Il principio del costo standart la regione lo applica a sua volta ai suoi enti periferici che sono province e comuni. Quindi il federalismo fiscale, che attraverso l’integrazione da parte dello stato centrale nei confronti delle regioni più deboli, diventa federalismo solidale, deve porre fine alla spesa storica, al clientelismo e all’irresponsabilità amministrativa.

  15. Dott. Nicola Andrea Cisbani

    Non condivido in nulla l’impostazione della riforma "federalista" in gestazione. Lo Stato fissa la cornice circa la natura e la tipologia dei tributi lasciando alle Regioni esigui spazi di manovra nel modulare le aliquote. Dovremmo invece avere un doppio rapporto impositivo: tu Stato dimmi che tassazione vuoi per il finanziamento delle tue funzioni statuali. Alle Regioni completa autonomia circa le modalità di imposizioni contributiva per le funzioni proprie (più imposte dirette o indirette, grado di progressività, struttura dei tributi etc. etc.). Rimane poi un ulteriore dubbio: poichè le Regioni si sono rivelate pessimi gestori di spesa, si può fare legittimo affidamento sulla loro "virtuosità". Tutto da rifare, secondo me.

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