La recente proposta della Presidente della Confindustria di lasciare per un anno nelle casse delle aziende il flusso del TFR versato alla Tesoreria dello Stato (si tratta del TFR accantonato per i lavoratori delle imprese con più di 50 addetti, per un ammontare per il 2009 pari a circa 4,2 mld di Euro), riporta l’attenzione sulle peculiari modalità con le quali in Italia si è inteso finanziare la previdenza complementare.
All’estero, generalmente, i contributi alla previdenza complementare sono a carico delle imprese datrici di lavoro in quanto i fondi pensione costituiscono uno dei principali strumenti di “fidelizzazione” della forza lavoro all’azienda; nel tempo, i piani pensionistici sono divenuti in tali esperienze una componente essenziale del reddito dei lavoratori nell’età anziana e perciò anche un elemento rilevante delle relazioni sindacali.
In Italia le dichiarazioni contenute in primis nei testi legislativi (v. art.1 lettera c) legge delega 243/2004 “ sostenere e favorire lo sviluppo della previdenza complementare…”e l’art. 1 del D.Lgs. 252/05 che assegna alla previdenza complementare il compito di “assicurare” ai lavoratori una copertura previdenziale integrativa), non sembra abbiano avuto adeguata eco nel contesto produttivo: le risorse messe a disposizione della previdenza complementare dal sistema delle aziende sono assai esigue (il contributo a carico dei datori di lavoro è mediamente poco superiore all’uno per cento del salario lordo).
Poi c’è il TFR che è uno dei pochi ammortizzatori sociali di cui dispone il Paese e che, soprattutto in momenti di crisi, rappresenta un elemento di parziale ristoro finanziario per i lavoratori che perdono il posto di lavoro. Inoltre, il TFR è stato in questi anni la principale fonte contributiva che ha reso possibile l’adesione dei lavoratori dipendenti ai fondi pensione: senza l’apporto dei flussi di TFR l’accantonamento dei lavoratori a fini di previdenza complementare si ridurrebbe a ben poca cosa, considerando le scarse disponibilità di reddito e di risparmio e gli oneri imposti dalla contribuzione alla previdenza obbligatoria.
Nel 2007, si è inserito sulla scena un nuovo attore, lo Stato, che ha destinato a se stesso la quota di TFR dei lavoratori delle aziende sopra i 50 addetti non devoluta ai fondi pensione, e che si sta avvalendo di tali somme per finanziare iniziative variamente finalizzate.
Ma il TFR è da sempre anche una fonte di autofinanziamento per le imprese: queste infatti approfittando del contenuto livello di rendimento, che per legge devono riconoscere al TFR accantonato in azienda per i propri dipendenti, lo utilizzano per il conseguimento di obbiettivi produttivi. Appare comprensibile dunque che in un simile frangente di crisi le imprese possano proporre di fare appello a tale risorsa per fronteggiarne gli effetti.
La proposta di mantenere il TFR nelle aziende va nondimeno valutata anche da un altro punto di vista: qualora fosse accolta, questa avrebbe probabilmente una ricaduta sulle possibilità, già messe a dura prova dalla crisi in corso, di sviluppo della previdenza complementare nell’anno appena iniziato. Sappiamo che difficoltà di crescita delle adesioni alla previdenza complementare si sono avute maggiormente nel contesto delle piccole imprese, dove il TFR non destinato a previdenza complementare resta in azienda; ora un altro fronte di potenziale conflitto d’interessi in capo ai datori di lavoro sarebbe riaperto anche nell’ambito delle imprese di maggiori dimensioni nelle quali la previdenza complementare è cresciuta in questi anni di più e, ancora di più, dall’avvio della riforma.
Occorrerebbe, invece, trovare nuove e più proficue strade per conciliare gli interessi dei fondi pensione, delle imprese e dello Stato, ad esempio promuovendo iniziative comuni sul fronte dei finanziamenti di opere di pubblica utilità. Inutile sottolineare, peraltro, che si tratta di un tema che richiede seri e molteplici approfondimenti.

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* L’autore è Commissario Covip

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