Nella maggior parte i commenti non si soffermano sugli aspetti toccati nell’articolo ed esprimono opinioni molto tranchant. Ciò è tanto più significativo in quanto avevo tentato di mettere a fuoco problemi specifici in un’ottica tutt’altro che “di promozione”. E’ un dato su cui riflettere. Non che mi dispiaccia confrontarmi con visioni “radicali” del problema della previdenza privata in Italia e nel mondo, ma è difficile rispondere alle osservazioni di questi lettori senza cadere in una logica da tifoserie contrapposte. Ci provo lo stesso, anche se non so quanto sia costruttivo.
I fondi pensione sono uno strumento ambivalente; così come il TFR, la pensione pubblica, le pensioni di invalidità civile (se distribuite su base clientelare)…
Il TFR negli anni 80 (quelli con l’inflazione a due cifre) era considerato uno “scippo” a danno dei lavoratori dipendenti; non era affatto ritenuto un istituto “progressista”.
La pensione pubblica sembrava lo strumento ideale per garantire una vecchiaia dignitosa, tuttavia oggi non lo è più perché la demografia ha costretto la politica a introdurre cambiamenti sostanziali nel sistema della previdenza obbligatoria e a ridurne la copertura.
I fondi pensione rappresentano un’opportunità di diversificazione dei rischi (compreso quello “politico”) che comunque ricadono sul risparmio previdenziale. Se correttamente gestiti, a costi contenuti e tenendo conto delle caratteristiche reddituali, anagrafiche, patrimoniali degli iscritti, possono rappresentare un valido strumento (volontario) a disposizione dei lavoratori.
Si denuncia che oggi, nel contesto di una crisi per certi versi epocale, i fondi pensione accusino rendimenti molto negativi; ciò è indubitabile, ma sarebbe sbagliato dedurne che questa sia una tendenza intrinseca, come sarebbe stato altrettanto sciocco esaltare in assoluto i rendimenti positivi degli anni scorsi. La sfida è garantire ai lavoratori un rendimento netto superiore nel lungo periodo al TFR e la mia opinione è che tale obiettivo sia alla portata dei fondi pensione (anche grazie al contributo addizionale dei datori di lavoro e ai benefici fiscali) purché essi adottino metodologie gestionali efficienti, meccanismi perequativi, forme di garanzia, strumenti di trasparenza e consulenza e tutta un’altra serie di strumenti da utilizzare nell’esclusivo interesse degli iscritti.
Penso sia giusto tentare di far funzionare al meglio ciò che abbiamo e evitare gli anatemi.
Quanto all’unico commento riferito davvero all’articolo e all’obiezione in esso contenuta sulla “contraddittorietà” della mia affermazione secondo cui persone prossime al pensionamento non dovrebbero essere iscritte a linee a elevato rischio finanziario, posto che, correttamente, non mi viene attribuita la paternità della seconda affermazione, non vedo in quale contraddizione sarei caduto. Peraltro, al di là della nota di stile, non capisco, caro lettore, il suo ragionamento. Indipendentemente dalla bontà e razionalità delle scelte fatte a venti, trenta, quaranta anni di età, (alcune sue notazioni sulle criticità di tali scelte sono anche condivisibili), negli ultimi anni della fase di accumulazione occorre consolidare il montante e porlo al riparo da fattori di rischio, perché, in caso di shock, non si ha il tempo per recuperare perdite che decurtano l’intero capitale accumulato.

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PS
I gestori in Italia non possono “scappare con la cassa” perché i patrimoni dei fondi sono affidati in custodia – per legge – a una banca depositaria.
 

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