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CORPORATE GOVERNANCE IN BANCA: QUALI LEZIONI DALLA CRISI *

Il sistema di governo societario anglosassone, già considerato il modello di riferimento, si è rivelato fallimentare. Soprattutto applicato alle banche. È mancato il monitoraggio da parte dei creditori ed è stata irresistibile per soci e manager la tentazione di scommesse sempre più rischiose, mentre il mercato del controllo societario ha premiato i peggiori. Tre proposte per dare più potere e responsabilità agli azionisti.

 

La crisi ha avuto origine nel settore bancario americano e inglese: si è propagata dunque dai paesi che per anni sono stati presi a modello per la qualità della corporate governance. Dovremmo allora abbandonare quei modelli? Per rispondere, è utile ricordare i caratteri essenziali della governance delle società inglesi e americane e quali specificità presenti la loro applicazione alle banche.

I PILASTRI DEL SISTEMA ANGLOSASSONE

I pilastri di quei sistemi sono tre: a) lo shareholder value (SV) quale unico obiettivo della gestione sociale; data la fede diffusa nell’ipotesi dell’efficienza del mercato dei capitali, ciò si traduceva in una gestione orientata a massimizzare il prezzo corrente delle azioni; b) consigli d’amministrazione dominati, almeno numericamente, da indipendenti, con il compito di assicurare che il management non si discosti dall’obiettivo dello SV, monitorandone l’azione e legando i compensi all’andamento delle azioni; c) un ruolo marginale degli azionisti, soprattutto negli Stati Uniti.
La miscela tra questi principi e le specificità delle banche (elevato leverage, garanzia statale implicita o esplicita a favore dei creditori e presenza di regole prudenziali imperfette, ma sulla cui efficacia i mercati hanno eccessivamente confidato) si è rivelata esplosiva: è mancata, da un lato, una leva di governance fondamentale per la buona gestione, il monitoraggio da parte dei creditori; dall’altro, per soci e manager, la tentazione di scommesse sempre più rischiose a spese dei contribuenti è stata irresistibile. Al contempo, il mercato del controllo societario ha premiato, nel breve, i peggiori: le banche più apprezzate da un mercato distorto (perché contava sulle garanzie pubbliche) hanno potuto acquisire le società ad esso meno gradite (magari perché più prudenti), diventando ancor più grandi e dunque più inclini all’azzardo morale.

PERCHÉ IL FALLIMENTO

Insomma, nel settore bancario il connubio tra applicazione dei principi di corporate governance e intervento pubblico ha portato al fallimento del sistema. Certo, non è che il modello di corporate governance anglosassone abbia funzionato perfettamente neppure al di fuori del settore bancario. Ma i relativi fallimenti sono stati, anche di recente, assai più circoscritti e, almeno nei casi più eclatanti, collegati ad eccessi indotti, di nuovo, da garanzie e sussidi statali (si pensi a GM e Chrysler). Il principale rischio oggi è che dalla crisi si esca con sistemi economici in cui, come nel secolo scorso, la rete protettiva dello Stato contro le crisi aziendali vada anche oltre il settore bancario.

AZIONISTI E MANAGER

Tornando alla domanda iniziale: porre la creazione di valore per gli azionisti a fondamento della corporate governance non è di per sé sbagliato. L’errore è nell’equazione SV = prezzo corrente delle azioni. La gestione di organizzazioni complesse richiede di semplificare e banalizzare: l’ipotesi dell’efficienza del mercato dei capitali ha dato una giustificazione intellettuale a questa versione caricaturale del concetto e ha consentito ai manager di arricchirsi con le stock option.
Ma anche visioni più articolate dell’interesse sociale potrebbero fungere da paravento per nuove forme di managerialismo autoreferenziale: definire la missione dell’impresa includendovi più interessi (dei soci, dei creditori, dei lavoratori, fino a includere più generali esigenze di stabilità) renderebbe più difficile giudicare l’operato dei manager, consentendo loro di continuare a piegare la gestione ai propri fini.
Più utile è allora dare allo SV un contenuto meno miope e assicurare un migliore controllo dell’operato dei manager. A questo fine non bastano gli amministratori indipendenti. (Ma ciò non significa negarne l’utilità per compiti più specifici come la gestione di situazioni particolarmente critiche per i vertici della società e l’approvazione delle operazioni con parti correlate). Piuttosto, si dovrebbe dare più spazio ai poteri di “voice” e di “exit” degli azionisti.

TRE COSE DA FARE

In particolare, si potrebbe: 1) ridurre al minimo il costo di intervento alle assemblee; in Italia, vi sarà occasione di farlo a breve, recependo la direttiva sui diritti dei soci; 2) dare maggiore spazio alle società nel definire il potere di voto degli azionisti: poiché un maggiore controllo dei soci sul management funziona solo se i primi mirano alla creazione di valore nel lungo periodo, si potrebbe consentire (non già imporre, è ovvio) alle società, come è possibile in molti paesi, di riconoscere un voto potenziato a determinate categorie di azioni, anche attraverso meccanismi che premino la durata dell’investimento;
3) rendere la disciplina delle Opa neutra rispetto alle Opa ostili: alcune Opa sono “buone” (puniscono i gestori incapaci), altre “cattive” (distruggono valore): il legislatore, non potendo distinguere le une dalle altre, non dovrebbe favorirle né ostacolarle, lasciando alle singole società le scelte fondamentali in tema di contendibilità e agli scalatori adeguati margini di manovra, ad esempio non imponendo loro di palesarsi immediatamente.

(Pubblicato anche da Il Foglio)

*L’autore è Commissario Consob. Le opinioni sono strettamente personali.

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L’ENNESIMA ULTIMA SANATORIA

  1. mdamore

    A me sembra che non sia davvero chiaro l´effetto di performance pay sul comportamento dei managers e quindi sui risultati dell´impresa. Almeno per me in questa crisi non è stato chiaro. Se l’argomento, teoricamente valido, è quello di allineare gli incentivi dei managers agli interessi degli azionisti (che in un mondo a la Berle&Means sono troppo piccoli per controllarli), empiricamente sembra che il risultato sia ben piu ambiguo (e infatti anche la letteratura non é del tutto concorde sull’efficacia di tali strumenti). Da un lato si sono visti risultati positivi che hanno alleviato il problema di agenzia, ma in buona parte questi strumenti hanno creato un empire-building impressionante tutto basato sulla presa di rishio. E per larga parte gli azionisti erano o all’oscuro o male informati. Secondo me il punto centrale é creare maggiore accountability (ad esempio condizionando di piu l’uso di bonus e performance pay a una maggiore erogazione di informazione) e indurre un maggior ruolo dei boards nel processo decisionale.

  2. antonio p

    Mancando manager capaci, le banche subiscono il drenaggio di fondi sempre maggiore delle società in fallimento tecnico, ma salvate con iniezioni di denaro fresco delle banche che però si rifiutano di farle fallire per non perdere i soldi e la faccia. In italia le banche, per legge, non possono fallire nel resto dell’ertopa possono! Ma le leggi le fanno le banche in alleanza coi Poteri Forti delle societa fallite come Fiat; Telecom ed il Gruppo Debenedetti, Benetton etc.etc.

  3. luigi zoppoli

    Chiarissima l’analisi. Ritengo che l’intervento del Prof. Enriques sia molto più articolato e completo. Mi farebbe piacere sapere se ha esaminato la modalità di armonizzare l’attività di controllo degli azionisti con le esigenze della gestione. Se ci fosse la possibilità di attingere ad ulteriore materiale, sarei davvero lieto di saperlo. luigi zoppoli

  4. alberto tomat

    Chiedo venia se le mie proposte appariranno banali agli occhi degli esperti: 1) perchè non collegare i bonus dei dirigenti a risultati di più lungo tempo, per esempio la media del valore delle azioni o dei risultati di bilancio negli ultini tre anni? Viste le retribuzioni possono sopportare di ricevere i bonus qualche tempo dopo; 2) Perché non prevedere per i prodotti finanziari collocati presso i risparmiatori, tutele simile a quelle previste per i "consumatori" di beni strumentali?

  5. Federico Parmeggiani

    La lettura dell’interessante analisi del prof. Enriques, condivisibile in ogni sua parte, mette finalmente in luce come molte delle disfunzioni e degli abusi del sistema finanziario che hanno dato vita a questa crisi dipendono in larga parte da forme di intervento del potere pubblico nella finanza distorsive o addirittura tacitamente conniventi con la tanto citata avidità dei manager e dei soggetti privati. Sarebbe quindi opportuno che il regolatore in primis facesse autocritica (specie nei sistemi anglosassoni appunto) e traesse spunto dai propri errori. Una domanda che mi suscita questa attenta riflessione è: posto che le sanzioni del mercato e i sistemi di incentivi sulle retribuzioni si sono rivelati in larga parte inefficaci, quale forma e quale ruolo dovrebbero ora avere le sanzioni pubbliche? Sarà finalmente possibile in questo clima approntare un public enforcement più incisivo nei mercati finanziari?

  6. bellavita

    Giusta analisi: in un’azienda familiare si premia la continuità, la solidità, la fiducia, in una quotata in modo volatile il risultato a breve, e quindi anche la speculazione l’azzardo, la truffa. Per fare un esempio, dubito che la banca Sella si faccia trascinarre in "giochi angloamericani". Non si può pensare di tornare al capitalismo familiare e neanche a moltiplicare i controlli. Ma quanto meno esigere che chi deve controllare (le società di rating) non facciano anche la consulenza,e, possibilmente , non siano pagate dal controllato ma da un organismo tipo Consob, finanziato con una tassa da applicare a tutte le quotate. Mentre parliamo di Consob, mi colpisce che si sia consentito in Italia di fondere la società acquirente con quella acquistata, trasferendole il debito fatto per l’acquisto: Recessi ce ne sono stati pochi perchè a tenere alte le quotazioni al momento dell’assemblea provvedevano le banche che avevano prestato i soldi per l’arrampicata. Ma , in caso di fallimento, questa pratica intergruppo manda tutti in galera.

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