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IL BUONO DEI BONUS*

I compensi dei manager sono sempre al centro dell’attenzione. Ma le tecniche di remunerazione oggi sotto accusa possono anche costituire una componente cruciale di stimolo alla crescita economica. Anche in Italia serve un completamento della regolamentazione che ci avvicini alle prassi seguite in altri paesi e alle raccomandazioni della Commissione europea. Per scongiurare il rischio che a una reazione emotiva di rifiuto dell’impiego degli incentivi si accompagni un incremento indiscriminato dei compensi fissi, a prescindere dal merito (o dal demerito) dei destinatari.

I compensi dei manager, in particolare le tecniche di retribuzione variabile (i bonus, le stock option e gli altri “incentivi azionari”), continuano a essere al centro di un intenso dibattito a livello internazionale. Lo testimoniano, fra l’altro, l’iniziativa regolamentare annunciata da Nicolas Sarkozy e la connessa proposta di inserire il tema nell’agenda del G20 di Pittsburgh.

LE DUE FACCE DELLA MEDAGLIA

Chiamate oggi sul banco degli imputati come uno dei fattori che potrebbero aver contribuito all’attuale crisi finanziaria, queste forme di remunerazione sono, a dire il vero, oggetto di analisi e discussione da ben prima della crisi per le controindicazioni che esse possono presentare, non solo nel settore finanziario. Già i dissesti di società industriali statunitensi ed europee (quali Enron e Ahold) avevano infatti rivelato che sul piano dell’efficienza gestionale (e a prescindere dai profili etici) tali forme retributive – se non sono attentamente calibrate e accompagnate da congrui meccanismi di supervisione endosocietari e di mercato – possono indurre i vertici aziendali a privilegiare la redditività esclusivamente di breve periodo (short termism) e/o avere un’eccessiva propensione al rischio (moral hazard). Quest’ultimo aspetto in particolare rappresenta di per sé un problema particolarmente avvertito in imprese con elevato leverage e beneficiarie di una garanzia statale (anche solo implicita) quali sono le banche: alla luce di tali caratteristiche si spiega quindi perché l’utilizzo di questi strumenti nelle imprese bancarie solleciti cautele e vincoli particolari, specie in questa fase di significativo sostegno pubblico al settore.
D’altro canto, l’attuale fase storica non deve farci dimenticare che queste stesse tecniche di remunerazione possono anche costituire una componente cruciale della corporate governance in un’accezione positiva, di stimolo alla crescita economica. Come segnalato da autorevoli economisti un riscontro in tal senso si può trarre anche dalla crescita protrattasi per un ventennio negli Stati Uniti a partire dai primi anni ’80 del secolo scorso, a favore della quale un ruolo propulsivo è stato svolto anche dagli incentivi azionari come efficace strumento di autofinanziamento per le imprese, di selezione dei manager e di allineamento degli interessi di questi ultimi con quelli degli azionisti, e della collettività, alla creazione di valore nel lungo periodo.
A fronte dell’ambivalenza di queste tecniche retributive si capisce dunque in modo immediato perché il diritto e le istituzioni “contano”: meccanismi societari e assetti istituzionali adeguati giocano un ruolo decisivo nell’indirizzare le stesse verso obiettivi virtuosi e prevenirne gli effetti collaterali. Richiamando Vico, “paion traversie eppur sono opportunità”: sta alle regole, e alla loro corretta applicazione, fare la differenza.

ALCUNI PUNTI FERMI

Pur nell’eterogeneità dei punti di vista e delle soluzioni tecniche proposte sull’assetto regolamentare e istituzionale migliore, il consenso di studiosi, organismi internazionali e autorità nazionali tende a convergere su alcuni punti fondamentali, che possono essere così sintetizzati:

(1) la materia appartiene in linea di principio all’area dell’autonomia imprenditoriale e contrattuale: rigidi vincoli normativi in ordine all’entità e alla forma dei compensi possono compromettere la flessibilità necessaria per rispondere ai peculiari interessi dell’impresa e del soggetto retribuito coinvolti nel caso concreto;
(2) sono necessarie regole di disclosure e di rendicontazione periodica, che dissolvano l’opacità che caratterizza queste forme di retribuzione;
(3) devono essere introdotti meccanismi di corporategovernance che pongano l’assemblea degli azionisti nelle condizioni di esprimersi in merito alle linee portanti che la società intende seguire in tema di compensi del management (la cosiddetta politica di remunerazione) e assegnino l’attuazione tecnica di tali linee all’organo di gestione, coadiuvato da uno specifico comitato costituito al suo interno e caratterizzato da particolare competenza e indipendenza dei suoi componenti (il cosiddetto comitato per le remunerazioni);
(4) il riconoscimento dell’autonomia imprenditoriale e contrattuale non esclude l’opportunità di un’azione istituzionale volta a incrementare il grado di consapevolezza degli azionisti e del mercato circa i meccanismi e gli effetti delle scelte in tema di compensi. In particolare nel settore finanziario appare condivisa l’esigenza che la regolamentazione individui principi e criteri generali di esercizio dell’autonomia contrattuale diretti ad assicurare che siano effettivamente ancorati al conseguimento di risultati effettivi e duraturi nel tempo (la creazione di valore nel lungo periodo) e tengano nella dovuta considerazione il rischio che ciascuna impresa sopporta (la ponderazione per il rischio), così da scoraggiare scelte imprenditoriali caratterizzate da un tasso di rischio inefficiente;
(5) è opportuno un coordinamento a livello internazionale delle iniziative regolamentari nazionali, perché ciascun paese tende a essere riluttante a introdurre isolatamente vincoli che possono porre le proprie imprese in una posizione di svantaggio competitivo sul mercato dei servizi manageriali, limitandone la capacità di attrarre i migliori talenti.

LA STRADA PERCORSA IN ITALIA E COSA RESTA DA FARE

Notevoli progressi sono stati compiuti negli ultimi anni in Italia, specie per quanto concerne la governance e la disclosure nelle società quotate e le specifiche esigenze che si pongono per le banche.
La legge sul risparmio del 2005 (articolo 114-bis Tuf) si è occupata dell’argomento con un intervento specifico per le società quotate e circoscritto alla fattispecie dei “compensi basati su strumenti finanziari”, subordinandone l’utilizzo a una specifica approvazione assembleare e introducendo specifici obblighi di disclosure.
La revisione del codice di autodisciplina di Borsa Italiana del 2006 ha esplicitato in modo più chiaro sia gli obiettivi ai quali deve tendere la remunerazione sia il ruolo del “comitato per la remunerazione” e la sua composizione.
Le disposizioni della Banca d’Italia del 2008 sulla governance della banche (quotate e no) hanno imposto, anticipando i migliori standard internazionali, il rispetto di principi generali e criteri applicativi quali il coinvolgimento degli azionisti nella definizione delle politiche di remunerazione; il collegamento dei premi retributivi a risultati effettivi e sostenibili nel tempo; l’uso di forme di ponderazione per il rischio; l’adozione di particolari cautele nel caso in cui gli incentivi siano destinati a soggetti che ricoprono funzioni di controllo interno.
Ma il quadro normativo italiano è ancora incompleto e presenta margini di miglioramento: se lo confrontiamo con le regole e le prassi seguite in altri paesi e con le recenti raccomandazioni emanate dalla Commissione europea del 30 aprile 2009 (C2009-3177 e C2009-3159) ci accorgiamo che c’è ancora della strada da percorrere.
Si pensi ad esempio alla circostanza che nel nostro sistema l’enfasi e i presidi sono posti solo sugli incentivi azionari, mentre tutte le forme di remunerazione variabile necessitano di pari attenzione, se non anche maggiore data l’assenza, nel caso dei bonus, di un mercato azionario che stimi i risultati attesi nel lungo periodo; se si escludono le banche non è previsto il coinvolgimento dell’assemblea nella definizione delle politiche retributive e mancano chiare prescrizioni – siano esse di natura autoregolamentare o legislativa – all’utilizzo delle forme di compenso variabile in favore dei manager che partecipino a funzioni di controllo interno o contabile; sono ancora assenti per le società quotate, anche solo a livello di autoregolamentazione, criteri generali sulla struttura dei compensi al fine di assicurarne la tensione verso il lungo periodo e la ponderazione per il rischio; la disclosure nelle quotate dovrebbe essere ulteriormente rafforzata e la trasparenza nelle società non quotate è ancora assolutamente carente, essendo confinata a una rappresentazione aggregata e cumulativa dei compensi in bilancio e del tutto esclusa per le società che redigono il bilancio in forma abbreviata.
Un completamento della regolamentazione che aumenti la dialettica interna e i presidi in materia è dunque quanto mai opportuno, anche per scongiurare il nuovo rischio che si profila in questo momento all’orizzonte: che a una reazione emotiva di rifiuto dell’impiego degli incentivi si accompagni un incremento ingiustificato e indiscriminato dei compensi fissi, a prescindere dal merito (o dal demerito) dei destinatari.

PER SAPERNE DI PIÙ

L.A. Bebchuk e H. Spamann, “Regulating Bankers’ Pay”, J.M. Olin Center WP No. 6/2009.
S. Cappiello, La remunerazione degli amministratori. Incentivi azionari e creazione di valore, Milano, Giuffré, 2005.
G. Ferrarini, N. Moloney e M.C. Ugureanu, “Understanding Directors Pay in Europe: A Comparative and Empirical Analysis”, Ecgi-Law WP No. 126/2009.
Committee of European Banking Supervisors (Cebs), High-level principles for Remuneration Policies, 20 aprile 2009.
Financial Stability Forum (Fsf), Fsf Principles for Sound Compensation Practices, aprile 2009.
Organisation for Economic Co-operation and Development (Oecd), Corporate Governance and the Financial Crisis, giugno 2009.

* Le posizioni espresse nell’articolo sono attribuibili esclusivamente all’autore e non coinvolgono in nessun modo l’Ente per cui lavora.

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TREMONTI BOND: UN AFFARE PER IL TESORO

  1. giorgio ponzetto

    Oltre agli aspetti tecnici esaminati nell’articolo, andrebbe considerato anche quello etico. Nel corso degli ultimi decenni il divario fra la retribuzione dei managers e quella degli impiegati e degli operai è cresciuto in modo esponenziale. La crisi recente ha dimostrato che non vi sono motivazioni economiche o aziendali a sostegno di un tale divario ma anzi che compensi spropositatamente elevati dei managers possono favorire crisi gravi. Il problema allora è soprattutto etico, occorre ritornare ad un rapporto ragionevole fra retribuzione dei top managers, comunque articolata, e quella di chi lavora nell’impresa nei livelli inferiori come succedeva in passato, quando pure e, forse non a caso, si sono viste tantissime storie di grandi successi aziendali.

  2. Sandro

    Nella mia azienda da sempre tutti e non solo i "manager" hanno incentivi variabili……e il meccanismo è completamente trasparente (tutti hanno una percentuale sulla retribuzione fissa. gli obiettivi sono personali e definiti dal line manager). nell’azienda in cui lavora mia moglie, i compensi variabili sono bonus discriminati su base personale (es. tu prendi un bonus, il tuo collega no). Secondo me i bonus stimolano la produttività. per cui direi: meno bonus al top, ma allora bonus per tutti?

  3. MD

    "(…) autonomia imprenditoriale e contrattuale: rigidi vincoli normativi in ordine all’entità e alla forma dei compensi possono compromettere la flessibilità necessaria per rispondere ai peculiari interessi dell’impresa e del soggetto retribuito coinvolti nel caso concreto;(…)". Tutto bene, se non si è in presenza di "fallimenti di mercato", dovuti a forte presenza di esternalità, come nel caso appunto del un mercato della finanza e del credito, necessariamente da regolamentare. Già molto si è detto sui comportamenti di moral hazard dei vertici aziendali, molto resta da dire su come essi abbiano potuto convincere migliaia di dipendenti subordinati a aderire a simili comportamenti. La spiegazione forse andrebbe cercata negli effetti soglia determinati da salari fissi "da fame", tali da rendere quasi obbligata la rincorsa dei premi in denaro legati al raggiungimento dei traguardi aziendali di breve periodo. In barba ai risparmiatori…

  4. Alberto Rotondi

    L’articolo non si pone il problema se esista o debba esistere un limite alle retribuzioni, un equilibrio tra ciò che uno dà e quello che riceve. Già, perché ogni buon economista e analista deve evitare accuratamente qualunque giudizio etico, anche se la forbice delle retribuzioni e dei redditi si sta allargando sempre di più e non accenna a fermarsi. Dunque, si impone giustamente ai dipendent pubblici (e non) di non fare telefonate personali, di non uscire a fare la spesa nelle ore di lavoro, di timbrare e lavorare per 1000-2000 euro al mese. I manager hanno emolumenti da qualche milione di euro all’anno in su, macchina aziendale, telefono aziendale, computer aziendale, appartamento aziendale, stage di formazione (vacanze) aziendali e l’unica cosa che si riesce a esprimere in proposito è qualche dubbio e qualche velata critica stemperata da parole rese morbide (soft) dall’inglese. Quali rischi effettivi corrono queste persone se sbagliano? Quali rischi in Italia? Cosa danno in cambio a fronte degli enormi privilegi che ottengono? Mi domando se una società basata su questi parametri demenziali possa continuare a stare insieme.

  5. Massimo Fuccillo

    Forse semplifico troppo, ma non riesco a non pensare che il bonus è una frazione del profitto. partiamo da un esempio: se ai fruttivendoli non fosse proibito vendere fiori e foglie allucinogene (sempre di verdura si tratta) probabilmente i loro commessi beneficerebbero di bonus molto più alti, essendo il profitto della vendita di quel tipo di merce molto più elevato di quello derivante da patate e pomodori. Per cui, limitare il valore assoluto dei bonus senza prima proibire, o fortemente limitare, certi prodotti finanziari è un errore. Massimo

  6. enrico pandolfo

    Non credo sia il Bonus la cause dei nostri problemi. Magari lo fosse cosi sarebbe di facile soluzione la crisi etc… Personalmente penso sia giusto legare una parte dello stipendio ai risultati per favorire la produttività, riconoscere i meriti e motivare i dipendenti. In un’ economia di mercato le banche hanno “sacrosanto” diritto di fissare i salari, i bonus etc… Purché si assumano le responsabilità qualora non fossero più “efficienti” e proficue. Tuttavia abbiamo visto come sia insostenibile per il nostro sistema economico il fallimento di banche il cui fatturato supera il GDP di alcuni paesi. Gli stati devono perseguire chi ha sbagliato e non semplicemente scambiare i prestiti con la promessa di non concedere bonus (come in USA). Qualora non si posso realisticamente venire a capo dei responsabili bisogna ridisegnare il sistema. Banche più snelle che in caso di chiusura non trascinino dietro di se interi paesi, prodotti meno complessi, limitare il leverage, perseguire penalmente i responsabili etc… Non possiamo permetterci che decisioni prese davanti a dei PCs possano impunemente stravolgere le nostre vite.

  7. l'upereri

    Molto semplicemente: da troppo tempo e da parte sia dei mezzi d’informazione sia nei corsi di studi universitari e post-laurea si insiste sul binomio incentivi-produttività e impegno. Non sono più giovanissimo ed ho fatto in tempo a conoscere dirigenti che credevano in quel che facevano senza bisogno di incentivi. Oggi parlo personalmente con capi e capetti che non muovono un dito se non serve a raggiungere i loro obiettivi, lo dicono tranquillamente e lo fanno anche vedere. Non sono un capo ma (o forse proprio per questo?) faccio con scrupolo il mio lavoro e risolvo problemi creati da gente che percepisce stipendi assai maggiori del mio.Ho rinunciato a far parte di questo genere di persone e così posso continuare a far bene il mio lavoro, con tanti saluti a bonus, produttività, budget e tutto il bla, bla, bla.

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