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ITALIA A CORTO DI STRATEGIE SUL CLIMA

Dopo la conferenza di Copenaghen sul clima, i ministri europei tornano a dividersi sulle strategie per combattere i cambiamenti climatici. O meglio, il disaccordo è più precisamente sugli impegni quantitativi di riduzione delle emissione dei gas ad effetto serra nel 2020. Ma è davvero rilevante discutere sui numeri? Quanto al governo italiano, non ha mai esplicitamente riconosciuto che le attività umane contribuiscono ad aumentare la temperatura del pianeta e non ha una visione strategica su come affrontare il problema.

 

Al primo incontro dei ministri europei dell’ambiente post-Copenaghen che si è tenuto a Siviglia dal 15 al 18 gennaio, l’Unione Europea si è divisa in due blocchi: da un lato i paesi che insistono affinché l’impegno del 30 per cento sia mantenuto unilateralmente dall’Europa senza attendere le decisioni di altri e sia l’obiettivo da portare al prossimo appuntamento della conferenza di Città del Messico a fine 2010; dall’altro i paesi che ritengono più che sufficiente il 20 per cento. Non è un caso che i paesi che vogliono inasprire la stretta siano gli Stati leader dell’Unione: Francia, Germania, Spagna e Regno Unito. Così come non è un caso che l’Italia si metta dall’altra parte della barricata.
Ma perché? E soprattutto è così importante dividersi sugli impegni quantitativi o sono altre le ragioni delle diverse posizioni? C’è senz’altro un limite nella posizione italiana: l’assenza di una strategia nazionale nella lotta al cambiamento climatico, nonostante le molteplici azioni intraprese, soprattutto nell’ultimo quinquennio.

L’ITALIA E KYOTO

Nel 2012 termina il primo periodo di regolazione del protocollo di Kyoto. I paesi che vi hanno aderito si sono impegnati a ridurre le emissioni di gas serra di un certo ammontare nel periodo 2008-2012: gli impegni assunti da Italia ed Europa sono rispettivamente di -6,5 per cento e -8 per cento (la sola Unione a 15).
In uno scenario che mostrava nel 1990 emissioni di gas serra fortemente in crescita, la situazione è nettamente migliorata. (3) L’Italia si presenta parzialmente in ritardo rispetto ad altri Stati membri al primo traguardo del 2012, ma si avvicina all’obiettivo.
Il confronto dell’Italia con gli altri Stati membri mostra una minore capacità di “decoupling” del nostro paese, che non riesce a coniugare la crescita dell’economia e della popolazione con una più che proporzionale decrescita delle emissioni di gas serra. Nel periodo 1990-2007 l’Italia registra, infatti, una crescita dell’intensità di carbonio maggiore della media europea, e solo la Spagna fa peggio di noi (tabella 1).

Tabella 1: Intensità di carbonio rispetto alla popolazione e al Pil

  Gas serra pro capite Gas serra rispetto al PIL
  1990 2007 var. % 1990 2007 var. %
Italia 9,1 9,3 2,2% 507 429 -15,4%
Francia 9,7 8,4 -13,4% 475 325 -31,6%
Germania 15,4 11,6 -24,7% 726 427 -41,2%
Regno Unito 13,5 10,5 -22,2% 618 333 -46,1%
Spagna 7,4 9,9 33,8% 602 555 -7,8%
Polonia 12,1 10,5 -13,2% 3586 1629 -54,6%
Romania 10,5 7,1 -32,4% 5033 2475 -50,8%
UE 15 11,6 10,3 -11,2% 604 403 -33,3%
UE 27 11,8 10,2 -13,6% 755 473 -37,4%
Fonte: European Environment Agency, 2009

 

L’Italia registra, tuttavia, un’inversione di tendenza a partire dal 2005: un fenomeno comune alla gran parte dei paesi per i minori tassi di crescita dell’economia, ma che è maggiore nel caso italiano per effetto delle azioni adottate.
Dal 2005 si sono infatti intensificate le misure che puntano a una riduzione delle emissioni, come per esempio l’incentivazione alle fonti rinnovabili e gli obblighi di miglioramento dell’efficienza energetica dei servizi. Nella fase II (2008-2012) lo strumento del mercato dei permessi di emissione (Emission Trading System) è utilizzato in maniera molto più incisiva imponendo agli impianti regolati un tetto stringente alle emissioni. (4) Il governo ha finanziato, attraverso il fondo Kyoto nelle ultime Finanziarie, progetti internazionali al fine di ottenere crediti di emissione dai meccanismi di cooperazione internazionale. Parzialmente efficaci anche le azioni per la rimozione delle emissioni attraverso un uso più efficiente del territorio e delle aree verdi.
La tabella 2 indica le emissioni nel 2005 e 2007, l’obiettivo di ridurre del 6,5 per cento le emissioni rispetto al 1990 da raggiungere nel 2012 e la ripartizione degli effetti di riduzione future delle emissioni a fronte delle misure. (5)

Tabella 2: Gas serra e obiettivo Kyoto 2012
(dati in milioni di tonnellate di CO2 equivalente)

Gas serra 2005 552,8
Gas serra 2007 577,9
Obiettivo Kyoto nel 2012 (-6,5% emissioni 1990) 485,8
Sforzo totale da conseguire 2008/2012 -67,1
Sforzi conseguiti con misure nazionali -17,6
Sforzi assegnati a ETS 2008-2012 -18,1
Crediti da cooperazione finanziati con fondi pubblici -17,1
Pozzi di assorbimento -5
Gap rispetto all’obiettivo Kyoto 2012 9,2

Fonte: dati verificati UNFCCC; previsioni IEFE-Bocconi

Se nel 2005 la situazione vedeva un eccesso di emissioni di 11 punti rispetto al 1990, le proiezioni mostrano ora una riduzione del 4,7 per cento per effetto delle azioni intraprese.

I LIMITI DELLA POLITICA ITALIANA

Un’analisi dell’Agenzia europea dell’ambiente del 2009 mostra il forte legame tra le politiche europee e quelle nazionali in materia di clima ed energia. Il 56 per cento delle misure realizzate dagli Stati europei nella lotta al cambiamento climatico deriva dall’attuazione di direttive e regolamenti comunitari; il 24 per cento riguarda modifiche e integrazioni alla legislazione nazionale per effetto della disciplina comunitaria e solo il rimanente 20 per cento discende da norme e misure di carattere nazionale. Le politiche sul clima dell’Italia sono quasi esclusivamente attuazione di quelle europee. La sola eccezione è data dalle iniziative delle amministrazioni locali e dalle politiche decentrate, in particolare regionali, in materia di sviluppo sostenibile.
La dipendenza dalle politiche sovra-nazionali mostra in realtà il limite di fondo delle scelte italiane sul clima: ci si adatta alla politica dell’Unione Europea senza una visione strategica e una nostra posizione sul problema del cambiamento climatico. Quando il premier inglese Gordon Brown richiama il Rapporto Stern, quello francese Nicholas Sarkozy le conclusioni del Rapporto le Grenelle, la tedesca Angela Merkel e lo spagnolo Josè Zapatero fanno propri i risultati delle relazioni Ipcc, si tratta sempre di un riconoscimento esplicito che le attività umane contribuiscono ad aumentare la temperatura del pianeta e che il cambiamento climatico determina forti rischi (e costi) nell’eco-sistema. È in base a questo riconoscimento che i leader europei affermano con decisione la necessità degli sforzi per contrastare l’aumento dei gas serra. Non sono rilevanti i numeri in sé, ma la forza che possono avere nel diffondere questo messaggio e nel farsi carico delle esternalità negative che il cambiamento climatico genera. Si tratta innanzitutto di riconoscere e cercare di allargare la partecipazione di ogni singolo Stato alla difesa del pianeta, così come avviene per le altre ragioni di approvvigionamento di servizi di Difesa: nessun individuo li pagherebbe, ma tutti li desiderano. Il governo italiano non ha mai reso esplicita questa assunzione e non ha una visione strategica sul problema del cambiamento climatico.
Un secondo limite del governo italiano è ritenere la strategia europea lesiva della competitività dell’industria nazionale. Negli ultimi cinque anni l’industria della clean economy ha fatto registrare risultati nettamente migliori rispetto ad altri settori industriali, con effetti positivi anche sull’occupazione. A questo hanno contribuito certo le misure di incentivo, ma le tecnologie si sono ampiamente diffuse anche in presenza di una minore capacità di spesa delle imprese e delle famiglie nel mercato nazionale e internazionale. I consumatori sono sempre più sensibili alle problematiche ambientali e accettano di buon grado un piccolo aumento dei prezzi. Occorre certo limitare gli sprechi e i costi per i consumatori e salvaguardare gli investimenti. Ma tutto questo è alla base della politica europea che colloca gli impegni di lotta al cambiamento climatico all’interno dei primari obiettivi di competitività e di efficienza dell’industria e del mercato interno. Un esempio per tutti: l’esclusione delle imprese a rischio del cosiddetto “carbon leakage” dalla ripartizione degli oneri per la lotta al cambiamento climatico.

(1) La strategia europea nella lotta ai cambiamenti climatici è tra l’altro contenuta nella nuova legislazione introdotta nell’aprile 2009, nota come “pacchetto clima energia” o strategia 20-20. Guce L 140/1-146 del 5 giugno 2009.
(2) Draft decision Cop 15 del 18 dicembre 2009 in http://unfccc.int/resource/docs/2009/cop15/eng/l07.pdf
(3) Si veda l’ultima comunicazione di monitoraggio Com (2009)630.
(4) Pna II approvato con decreto 18 febbraio 2008.
(5) Risultati della ricerca in corso presso Iefe-Bocconi su “La politica clima energia in Italia”.

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LA RISPOSTA AI COMMENTI

13 commenti

  1. francesco

    Complimenti alla dottoressa D’Orazio per la faziosità delle opinioni espresse, perchè di opinioni si tratta. Ci si aspetta che un accademico, a differenza di un politico, sostenga le sue affermazioni con dei dati, cosa che qui non avviene. La D’Orazio scrive “Negli ultimi cinque anni l’industria della clean economy ha fatto registrare risultati nettamente migliori rispetto ad altri settori industriali, con effetti positivi anche sull’occupazione”, ma quali sono i dati a supporto di queste frasi buttate lì, in stile politichese? Esiste una robusta letteratura economica che provi gli effetti positivi della green economy sull’occupazione in Italia? Che la citi! L’aumento dell’occupazione nei settori verdi è maggiore della diminuzione dell’occupazione nei settori più energivori e inquinanti? L’articolo è banale, poco documentato e fa acqua da tutte le parti: sotto un profilo giuridico (la direttiva 2009/29 prevede l’estensione dell’impegno al -30% solo se gli altri paesi extra-UE adottano target simili) ed economico (esempio: l’Italia ha tra le emissioni pro-capite più basse d’Europa). E poi mancano i riferimenti bibliografici. Qual è il documento EEA citato?

    • La redazione

      Premesso che non comprendo perchè si sostenga che l’articolo sia "fazioso" dato che richiama dei limiti oggettivi della politica italiana sul clima, limiti dati innanzitutto dalla non presa di posizione del fenomeno effetti del cambiamento climatico (primo punto: l’Italia pensa che dobbiamo difendere il pianeta dall’aumento della temperatura o "subisce" passivamente la legislazione presa da altri?)e solo in secondo luogo da una non corretta valutazione del rapporto tra costi e benefici. In realtà i miei dati fanno vedere che l’Italia ha realizzato passi in avanti negli ultimi cinque anni e che ci sono le condizioni per continuare in questa direzione, quindi non comprendo neppure le polemiche di altra natura.
      Di studi empirici sugli effetti della c.d. clean economy ce ne sono diversi. Consiglierei di vedere quelli svolti per la CE (Ecofys et alii, aprile 2009; ETUC, ISTA, SDA, febbraio 2007. Sono scaricabili dal sito della Direzione Energia e della direzione ambiante. L’Ademe – agenzia francese dell’ambiente – ha svolto un’analisi empirica sull’occupazione per conto del Governo. Trova uno studio simile anche sul sito del Ministero ambiente e energia tedesco. La perdita di competitività dei settori energy-intensive (in caso in cui "difficilmente" possano trasferire i maggiori costi sui prezzi finali ai consumatori è tutelata dalle numerose misure di compensazione previste dalla legislazione europea, di cui si fa cenno nell’articolo) .
      I dati sull’intensità di carbonio rispetto alla crescita del PIL e della popolazione 1990-2007 sono presi dal rapporto annuale di monitoraggio dell’EEA: "GHG trends and projections in Europe 2009" EEA Report n. 9/2009.

  2. alberto clò

    Se avesse avuto modo di aggiornare i dati, ampiamente superati, del 2007 avrebbe avuto modo di constatare come, complice la recessione, gli obiettivi di Kyoto siano ahimè alla nostra portata. Nel 2009 le emissioni sono già al di sotto dei livelli del 1990. Va da sé che la validità delle conclusioni non può che derivare dalla correttezza dei dati.

    • La redazione

      Preciso che ho utilizzato i dati sulle emissioni "verificati" e non quelli non definitivi (cioè non certificati da EEA e UNFCCC)…in ogni caso la sostanza non cambia nell’articolo si dice che l’Italia si avvicinerà al primo obiettivo Kyoto (cioè quello del 2012). Ribadisco che l’articolo lamenta tutt’altro deficit nella strategia italiana: ovvero innanzitutto una presa di posizione nazionale e una complementarietà tra le politiche UE e quelle nazionali….solo da ciò può derivare un’analisi dei dati e una conseguente selezione degli strumenti di intervento efficiente e soprattutto realizzabile per il nostro sistema….le letture "selettive" dell’articolo non posso prenderle in considerazione….sono frequenti in argomenti di questo tipo dove gli interessi in gioco sono tipicamente "conflittuali" (per ovvi motivi redistributivi)….il messaggio dell’articolo vuole essere proprio questo. Spetta alla politica perseguire obiettivi "pubblici" come la lotta al cambiamento climatico cercando di essere efficiente ed efficace per tutto il sistema economico e sociale italiano. Conseguenza logica: la politica è carente perchè non dice quale sia il proprio obiettivo. Mi auguro che arrivino anche commenti dalla parte della disciplina della "politica"

  3. marco

    Non mi sembra corretto continuare ad ignorare il rapporto del NIPCC che smonta le tesi del IPCC ed è stato sostenuto da 32.000 scienziati di varie nazioni e svariate discipline. Mi pare che il NIPCC abbia le carte più in regola del IPCC. O mi sbaglio? Comunque vale la pena di leggerlo: "Nature, Not Human Activity, Rules the Climate" – easily readable, factual summary of the Nongovermental International Panel on Climate Change (NIPCC). Sarebbe anche interessante ragionare seriamente sulle "energie rinnovabili". Alcune come il fotovoltaico attuale sono estremamente antieconomiche e vengono installate sopratutto da grosse società che speculano sui contributi governativi. Sono risorse buttate che potrebbero essere usate per finanziare ricerche serie sulle tecnologie più promettenti (geotermico, nucleare 4G, ecc). Un’ultima osservazione sulla green economy: ricordo di avere letto un anno fa un’analisi di una società finanziaria sugli incentivi alle rinnovabili in Spagna, che sosteneva che per ogni posto di lavoro creato nel settore se ne perdono altri due altrove; varrebbe la pena di ragionarci seriamente.

  4. Elio Gullo

    Mi pare che la D’Orazio non abbia fatto altro che rilevare quanto accade, ovvero l’assenza di politiche industriali ed energetiche degne di un paese G7. E la mancanza di politiche in tal senso è indipendente da quale lato della "tifoseria" ci si schieri. Anche se i gas serra fossero ininfluenti sul clima resta il fatto che la produzione di energia nel nostro paese è basata in larghissima percentuale sull’utilizzo di combustibili fossili che non possediamo e le cui scorte non sono eterne. Il piano di ritorno al nucleare – ancora un abbozzo, direi – risolve solo parzialmente la situazione e non altera il livello di dipendenza da pochi fornitori di materiale fissile anch’esso con scorte finite e limitate. Non cogliere i trend di crescita della green economy sulla quale la maggioranza degli analisti (o tutti?) concordano, è un indice di un atteggiamento di retroguardia dannosissimo. Peraltro non si capisce cosa si vorrebbe tutelare: la Fiat? Le PMI? Temo, però, che sia molto peggio: assenza di visione strategica per mancanza di "risorse" umane (leggasi "teste pensanti").

  5. giovanni pede

    Per amor del vero, l’industria automobilistica italiana è stata molto meno protetta di quella tedesca dalla normativa sulla riduzione delle emissioni di CO2. Infatti, se da un lato l’Italia è da tempo costantemente ai primi posti in Europa per le emissioni medie del venduto, dall’altra, citando gli Amici della Terra: “Il Position Paper sulla nuova politica europea per la riduzione della CO2 delle auto, elaborato da Amici della Terra insieme all’ISAT (Istituto per le scelte ambientali e tecnologiche), evidenzia che la differenziazione degli obiettivi (in funzione del peso delle vetture, n.d.c.) avrà effetti profondamente regressivi sulle scelte dei consumatori: nel caso delle auto diesel, i costi del segmento delle piccole auto salirebbero del 21%, mentre per il segmenti medio e grande l’impatto è praticamente inesistente; per le auto a benzina il maggior costo per il segmento “piccole” sarebbe del 10%, mentre per gli altri segmenti verrebbe limitato al 4%." Di conseguenza, se manca una strategia, questo è purtroppo a danno degli interessi industriali nazionali, l’esatto contrario di quanto apparirebbe da qualche commento frettoloso.

  6. Luigi Del Monte

    Un’analisi dati seria non va a guardare la variazione percentuale, bensì il valor assoluto.Se una macchina ha un rendimento del 98% e un’altra del 48%, il miglioramento (in precentuale) di un solo punto è di (99-98)/98 nel primo caso (1%) mentre di (49-48)/48 nel secondo (circa il 2%).Chi ha fatto meglio? Il secondo, ma perchè si trovava in una posizione peggiore. Guardando la prima tabella si vede subito che per i gas serra pro capite siamo i terzi dietro a romania (paese in via di industrializzazione) e francia che guarda caso produce e ci vende il energia elettrica con centrali atomiche per l’80% che, cm è risaputo, non sono clima-alteranti. Molto + interessante la seconda colonna che mostra che noi siamo quarti dietro a Francia, Regno Unito e Germania.Tutti paesi produttori di energia nucleare. cmq interessante vedere che hanno fatto passi da giganti senza indebolire la loro economia, ma cmq bisogna vedere da dove sono partiti. forse hanno solo rinnovato le loro centrali. Mi piacerebbe vedere qst dati di altri paesi tipo USA, CINA INDIA.. Stupida la politica del 20-20-20.COmE si fa a ridurre del 20% le emissioni di CO2 senza guardare il livello di consumi pro capite?

  7. BUBASTIS

    Dopo la storia delle email taroccate, dopo l’ultima brutta figura dell’IPCC sullo scioglimento dei ghiacciai dell’Himlaya, prendendo atto che la temperatura media globale negli ultimi 10 anni non e’ aumentata e la considerando che volendo ridurre drasticamente le emissioni di CO2 entro il 2030 usando solo le fonti alternative, nel mondo bisognerebbe installare in due decenni quanto segue: A) 3,8 milioni di torri eoliche da 5 MW (cioe’ aventi ciascuna una potenza 5 volte superiore a quella delle torri attualmente installate in Italia), B) 89000 impianti fotovoltaici da 300 MW ciascuno, cioè l’equivalente di circa 9 miliardi di tipici impianti fotovoltaici domestici da 3 kW; C) 270 nuove dighe idroelettriche (potenza non specificata); D) nuove installazioni geotermiche (numero non specificato). Costo previsto centomila miliardi di dollari, pari a circa 200 milioni di miliardi delle vecchie lire, ovvero 2 seguito da 17 zeri, ovvero piu’ di sedicimila euro per ciascun abitante della terra nell’arco di una ventina d’anni, forse non sarebbe male assumere un atteggiamento prudente sulla strategia da adottare per le affrontare il problema del riscaldamento globale.

  8. Rinaldo Sorgenti

    E’ incredibile l’insieme di pregiudizi e luoghi comuni che ispira l’articolo che si basa sull’adesione totale all’assioma ispirato dagli studiosi IPCC (i cui 4 rapporti di sintesi per i politici sono stati smentiti ripetutamente dagli scienziati del clima), cioè che i "cambiamenti climatici" saebbero sostanzialmente dovuti all’attività antropica! I numeri al riguardo sono eclatanti: La CO2 (un gas raro nell’atmosfera e pari allo 0,035%) derivata da tutte le attività antropiche è valutata essere meno del 4% di quello 0,035%, cioè lo 0,000014 assoluto. Circa la politica italiana, forse l’autrice dimentica la mozione di indirizzo al Governo, approvata dal Senato nell’Aprile 2009 che mette chiaramente in discussione questo credo ideologico all’AGW. Infine, sarebbe utile fare una riflessione sul valore di emissione "procapite" di CO2 italiano e compararlo a quello di tutti gli altri Paesi ricchi e sviluppati Ue, per rendersi conto che l’Italia è il Paese più virtuoso della Ue (con la sola eccezione della Francia, causa il 78% di E.E. da nucleare). Quando si discute degli obiettivi di riduzione bisognerebbe ricordare la fregatura inflittaci dai ns. "amici" Ue col BSA-1998.

  9. Rinaldo Sorgenti

    Colgo lo spunto del commento di Elio Gullo che fa una veloce disamina delle diverse fonti per concludere (come si sente spesso dire – speculativamente, anche da alcune candidate – nella campagna elettorale in corso) che il Nucleare non risolverebbe il problema degli approvvigionamenti energetici, perchè anche la previsione strategica del Governo al 2030: darebbe solo il 25% (un quarto della produzione di EE)! E vi sembra poco, per un Paese quasi totalmente privo di risorse naturali? Ma perchè, c’è davvero qualcuno che può illudersi (e così contribuire a confondere l’immaginario popolare – la stragrande maggioranza – che non conosce a fondo le differenze tecnologiche e funzionali delle diverse fonti) che si possa sopravvivere con il 100% a FER, visto che si dice siano "gratis"? Un Paese come il ns. dovrebbe invece puntare ad avere un "Mix delle Fonti" estremamente diversificato e bilanciato (l’esatto opposto di quanto ha sempre avuto e continua ad avere, a totale nostro danno!), per ridurre il rischio strategico, ridurre il costo della EE, sostenere e difendere la competitività del Sistema Paese (tipicamente trasformatore) e l’occupazione. (Fiat e Alcoa docet?). Parliamone!

  10. Achille

    Il titolo mi sembra chiaro e condivisibile. Ma che razza di lettori e commentatori ha il sito? Trova conferma dai diversi articoli che la cultura energetica nel nostro paese sia nulla o quasi, a tutti i livelli d’istruzione. L’invito che faccio a tutti è quello di guardare al di là delle nostre belle Alpi cercando di capire quello che nel resto d’Europa è stato già fatto e continua ad essere perseguito. L’idea italiana, questa sì tutta ideologica, della via nucleare è a dir poco illusoria, pericolosa e anti economica. Il conto energia finale verrà pagato a caro prezzo da tutti noi e ancor più dai nostri figli. Mi raccomando comunque: puntate gli occhi oltre le Alpi e cercate di capire le novità che si affacciano all’orizzonte anche sul lato ‘francese’. Se vi spingete più a nord poi gli esempi e le applicazioni innovative basate sull’uso da fonte rinnovabile sono l’azione diffusa prevalente e pulita.

  11. Rinaldo Sorgenti

    Come non convenire con l’ultimo commento a firma di "Achille"? Giustamente, guardiamo a Nord e agli esempi di Germania e Danimarca, per comprendere che forse le cose non dovrebbero continuare ad andare (effettivamente per pura ideologia, tutta italiana!), come è avvenuto finora. Forse è opportuno un semplice riepilogo della situazione in Europa. Vi è una regola semplice ed efficace che in questi casi può aiutare a decidere (quando si hanno idee confuse) da che parte stare e che consiste nel guardare nel “giardino” dei nostri vicini (tedeschi, inglesi, spagnoli, olandesi e anche danesi) per osservare come questi cugini producono l’elettricità che consente loro di conservare un ambiente salubre e piacevole, di mantenere il benessere e di sviluppare l’occupazione, senza compromettere il loro habitat congeniale, che qui di seguito riepiloghiamo: 30% da carbone; 28% da nucleare; 22% da gas; 3% da olio combustibile; 10% da idro; 3,3% da eolico e solare; 3,7% da altre (principalmente rifiuti e biomasse). Parlare di "utopia nucleare italiana" è davvero sorprendente. Basti considerare che l’Italia non ha mai smesso di utilizzarla, "ahinoi d’importazione, sic"!

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