Le donne bolognesi in età lavorativa guadagnano dal 25 al 76 per cento in meno dei loro concittadini maschi, a seconda della fascia d’età (si veda il grafico sotto). Lo afferma una ricerca condotta dal Dipartimento di Programmazione del Comune di Bologna sui redditi Irpef dei cittadini di questa città, presentata recentemente all’Istituto Gramsci.
Questo risultato dovrebbe far riflettere chi ritiene che la fornitura pubblica di servizi sociali alle famiglie, in particolare di asili nido, sia la panacea che può consentire alle donne di avere le stesse opportunità lavorative degli uomini, soprattutto le stesse retribuzioni e le stesse possibilità di carriera.
Bologna è forse la città italiana che ha la maggiore densità di asili nido e che offre i migliori servizi sociali alle famiglie (210 milioni di euro spesi dal Comune, ossia ben il 40 per cento delle sue spese correnti secondo la stessa ricerca). Tutta l’Emilia Romagna, in realtà, primeggia in questa classifica, come ci hanno recentemente ricordato Daniela Del Boca e Alessandro Rosina e nel loro libro "Famiglie Sole"(Il Mulino, 2009). Proprio grazie a questi servizi, sostengono Del Boca e Rosina, i tassi di fecondità e di partecipazione al lavoro delle donne sono relativamente alti e crescenti in Emilia Romagna mentre sono bassi e decrescono in Campania, dove i servizi sociali alle famiglie scarseggiano e sono di bassa qualità.
È possibile che asili e servizi alle famiglie siano un fattore importante per facilitare una maggiore partecipazione delle donne al lavoro e una maggiore fecondità, anche se chi sostiene questa idea dovrebbe spiegare come mai la fecondità e l’offerta femminile di lavoro siano più alte in paesi dove questi servizi sono praticamente assenti. Ma alla luce dei dati sulle differenze di reddito tra donne e uomini a Bologna, è almeno altrettanto evidente che gli asili possono al massimo essere una palliativo per i sintomi della malattia, non la terapia che ne risolve le cause.
MA LE DONNE LAVORANO DI PIÙ
E questo perché la vera origine del problema sta nel modo in cui i compiti familiari sono allocati tra donne e uomini all’interno delle famiglie. Questa è la tesi che insieme ad Alberto Alesina ho proposto nel libro "L’Italia fatta in casa" (Mondadori, 2009). Finché le donne italiane lavoreranno in totale 80 minuti in più degli uomini (sommando il lavoro casalingo a quello retribuito) e soprattutto finché saranno loro ad essere sempre "on duty" per la famiglia anche nei momenti in cui lavorano fuori casa, esse non potranno esprimere nel lavoro retribuito la stess energia e la stessa produttività degli uomini. Possiamo costruire tutti gli asili che vogliamo, ma non vedremo grandi risultati se sarà sempre la madre a "staccare" comunque alle 16.00, qualsiasi cosa succeda in ufficio, per riportare a casa i figli. Oppure se sarà sempre lei a farsi carico di trovare una soluzione quando l’asilo rifiuta i figli perché ammalati. E gli esempi potrebbero continuare, considerando molti altri compiti familiari, dalla lavatrice rotta che allaga la casa ai nonni anziani da accudire.
Forse costruire asili a spese del contribuente può essere una buona idea per altri motivi, ma sembra difficile sostenere che questo intervento possa risolvere in modo significativo il problema degli squilibri di genere e i dati di Bologna supportano questa tesi. Se veramente gli italiani ritengono che gli squilibri di genere siano un problema, allora bisogna intervenire sul modo in cui i compiti familiari sono divisi tra uomini e donne. Ad esempio riducendo le tasse sul lavoro femminile come da noi proposto.Ma anche se i motivi per auspicare la costruzione di asili nido pubblici fossero altri (diversi dalla equiparazione delle differenze di genere), bisognerebbe comunque valutare se essi giustifichino l’onere imposto ai contribuenti, in particolare quelli che figli non ne hanno. Per quale motivo, infatti, chi non ha figli dovrebbe finanziare chi ha liberamente scelto di averne? Io ad esempio ne ho quattro e non vedo motivi per cui la società debba farsi carico di questo.
Ammesso e non concesso che gli asili nido pubblici favoriscano la fecondità (che come detto sopra è maggiore della nostra anche in paesi in cui lo stato non offre questi servizi), siamo proprio sicuri che in Italia sia una buona idea incrementare la popolazione, già crescente per via dell’immigrazione? La densità in Italia è di 195 persone per chilometro quadrato contro 32 della media europea. Forse gli italiani ricominceranno a fare figli, senza incentivi pubblici, quando l’onda dei 50enni prodotta dal "baby-boom" sarà passata.
Si sente anche dire a volte, soprattutto in ambienti di sinistra, che faccia bene ai bambini stare in asilo nido fin da subito dopo il parto. Può darsi, ma non mi risulta che di questo ci siano prove statistiche convincenti, ossia prove che soddisfino gli stessi requisiti di validità statistica che riteniamo necessari ad esempio per stabilire la validità di una terapia medica. Numerosi studi recenti, tra cui quelli del premio Nobel Jim Heckman mostrano l’enorme importanza dei primi anni di vita del bambino per la sua performance futura, ma siamo ancora ben lontani dal poter affermare con cognizione di causa se sia meglio la famiglia o il nido per un neonato.
Allora, non è forse meglio tassare di meno le donne e quindi le famiglie (magari sussidiando con vouchers quelle povere) in modo che madri e padri siano effettivamente effettivamente liberi di scegliere come e dove educare i loro figli e quanto tempo a loro dedicare?
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Giuseppe Moncada
Le considerazioni di Ichino sono dettate, secondo quella che è la mia esperienza di nonno, da molto buon senso. Sono innovative. Chi si ritiene di essere di sinistra debba cominciare a liberarsi da idee precostituite se effettivamente si vuole che questa società migliori. Io vivo in Sicila, mia figlia vive a Busche, ha una figlia di 20 mesi, la sta facendo crescere in modo egregio. Sua suocera maestra di scuola materna, vive in un paese vicino, asserisce, avendo avuto, e avendo contatti con molti banbini, che la nipotina, poichè stimolata dalla sua mamma ha una marcia in più rispetto alle altre. Mia figlia insegna Matematica e Oss. Scientifiche alla scuola per adulti, serale, in un paesino vicino casa sua. Fino alle ore 17 sta con la figlia, alle 17 è il padre, tornato dal lavoro, che l’attudisce. Avrebbe potuto portarla all’asilo nido, non l’ha fatto. Ha fatto bene. La stessa esperienza vi posso comunicare per la nipote di un mio collega che vive a Cinquale. La sua nipotina è stata seguita e dalla madre e dai nonni, vivendo nello stesso plesso. Penso che la stessa cosa dovrebbe essere fatta per aiutare gli universitari. Borse di Studio e alloggi nelle sedi. Non università decentrate.
Luciano Abburrà
Il contributo di Ichino mi sembra utile, perchè mette in dubbio alcuni giudizi che non sembrano poi così certi. Il tasso di fecondità delle donne emiliano-romagnole (senza immigrate) è 1,29, mentre quello delle campane è 1,42 (Istat, Indicatori demografici 2009). I tassi di copertura degli asili nido nelle due regioni sono rispettivemente il più alto e il più basso d’Italia. La crescita recente della fecondita è stata maggiore in Emilia Romagna per l’eccezionale apporto delle immigrate (con un tft di 2,20 generano il 21,4% dei nati in E-R, contro il 2,7% in Campania), ma anche per il livello eccezionalmente basso raggiunto dal tft nel 1995 (0,97): ma allora gli asili nido in E-R non erano certo meno numerosi che altrove. Se poi fosse vero che 2/3 delle famiglie italiane non desiderano il nido per i propri figli (Istat, Essere madri in Italia, 2005), forse la ricerca di altri strumenti di flessibilità non sarebbe immotivata. Di fatto, da solo, il nido non è mai una soluzione esaustiva, a fronte della variabilità e incertezza dei bisogni di cura. Ma poi, chi l’ha detto che prendersi cura di un bambino molto piccolo non sia ritenuto un bene anche per chi lo fa?