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LA CORTE COSTITUZIONALE, UN MODELLO PER L’UNIVERSITÀ

Come ridefinire l’assetto di governance degli atenei, evitando l’autoreferenzialità, ma garantendone l’autonomia? Un modello possibile è quello della Corte costituzionale. La nomina dei membri del consiglio di amministrazione sarebbe così affidata a soggetti diversi, ciascuno dei quali non sceglierebbe più di un terzo dei componenti. Ricordando che la gestione quotidiana dell’ateneo è affidata al rettore, mentre il ruolo del Cda è quello di fornire una guida strategica e una supervisione indipendente dell’operato degli altri organi di governo interni.

Nel dibattito in corso sulla riforma dell’università c’è un consenso piuttosto ampio sulla necessità di ridefinire l’assetto di governo interno degli atenei, la cosiddetta “governance”, attualmente caratterizzata da un’eccessiva autoreferenzialità. Non c’è invece consenso sui rimedi da adottare. In alcune proposte ispirate ai modelli esteri, incluso il recente disegno di legge Gelmini, si pone al vertice delle università un consiglio d’amministrazione con una maggioranza (o quasi) di membri “esterni”, ossia diversi da docenti, studenti e altro personale dell’ateneo. Molti temono però che questo possa mettere a rischio l’indipendenza degli atenei. Si teme soprattutto l’ingerenza di politici o imprenditori non disinteressati, o di altri faccendieri privi di scrupoli, di cui il nostro paese è purtroppo ben fornito. Si chiede, giustamente, quale meccanismo di nomina si potrebbe mettere in piedi per evitare tali rischi. Una nomina dall’interno, affidata al rettore o al senato accademico, non risolverebbe davvero i problemi di autoreferenzialità. Ma una nomina politica non sembra consigliabile in Italia, visti gli esempi non proprio entusiasmanti che ci vengono da altri settori, quali la sanità. Come fare allora per garantire ai Cda degli atenei la necessaria indipendenza e autorevolezza?

L’ESEMPIO DELLA CORTE COSTUZIONALE

In realtà, una soluzione efficace a questi problemi esiste. La si può osservare già all’opera negli atenei di altri paesi europei o in molte università americane. Ma un ottimo esempio c’è anche in Italia, ed è quello offerto dalla nostra Costituzione nel definire la composizione di un alto organo dello Stato di cui è fondamentale garantire la massima indipendenza e autorevolezza: la Corte costituzionale.
Qual è la soluzione adottata? Innanzitutto, la nomina dei membri della Corte è stata suddivisa tra vari soggetti, in modo che nessuno ne possa nominare la maggioranza: per un terzo è affidata al Presidente della Repubblica, per un terzo al Parlamento e per un terzo è suddivisa tra diversi organi dell’alta magistratura. Inoltre, i membri non sono nominati tutti insieme, ma scaglionati nel tempo, in modo da diluire ulteriormente il potere di influenza di ciascun soggetto nominante, da scoraggiare criteri di lottizzazione e da creare maggiore attenzione alla nomina di ogni singolo membro. I giudici della Corte hanno poi un mandato lungo (nove anni) e non sono rinnovabili, in modo che una volta nominati non siano più facilmente condizionabili. Infine, i membri devono rispondere a determinati criteri di qualità ed esperienza professionale.
Questi semplici principi, con poche modifiche, possono essere adottati anche per la nomina dei consigli di amministrazione degli atenei. Si potrebbe anche lasciare alle università stesse la scelta dei soggetti cui affidare le nomine, purché nessun soggetto o gruppo di soggetti riconducibili a interessi simili possa nominare più di un terzo circa del consiglio. Un terzo del Cda, ad esempio, potrebbe essere nominato dal senato accademico dell’ateneo, rappresentativo di docenti e studenti. Un altro terzo potrebbe essere indicato da un insieme di soggetti esterni che gli atenei individuino come propri stakeholders, quali ordini professionali, associazioni rappresentative delle imprese del territorio, accademie scientifiche e culturali, associazioni di laureati dell’ateneo, amministrazioni pubbliche locali, ecc., separatamente o anche raccolti in un’unica assemblea. La nomina dell’ultimo terzo potrebbe infine essere affidata allo stesso Cda in carica, con un meccanismo di cooptazione, in modo da rendere non prevalente né la nomina interna né quella esterna e da favorire l’acquisizione delle competenze giudicate necessarie. Va invece evitata la nomina di quote di componenti da parte del rettore, visto che il Cda ha tra i suoi compiti primari quello di controllarne l’operato.
Seguendo poi le altre regole relative alla Corte costituzionale, le nomine dovrebbero essere scaglionate nel tempo e per mandati lunghi, nonché richiedere un’alta qualificazione individuale dei nominati. Per soddisfare quest’ultimo requisito, sarebbe anche opportuno far precedere ogni nomina da una procedura trasparente di ricerca e selezione di una rosa di candidati da proporre al soggetto nominante, anche mediante un eventuale bando pubblico per raccogliere candidature.
Si potrebbe dubitare di un’analogia tra il Cda degli atenei, spesso equiparato a un organo di pura gestione, e un organismo giurisdizionale come la Corte costituzionale. Ma l’analogia è valida, perché il vero ruolo del Cda non è quello di portare avanti la gestione quotidiana dell’ateneo, che va invece affidata al rettore e al suo staff di collaboratori e dirigenti, ma è quello di fornire una guida strategica all’ateneo, nonché una supervisione indipendente dell’operato del rettore e degli altri organi di governo interni, per garantire il pieno ed efficace perseguimento della missione istituzionale pubblica dell’ateneo.

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DIFFICOLTÀ E RISCHI SULLA STRADA DEL FONDO MONETARIO EUROPEO

  1. Alberto Sdralevich

    E’ un’ottima proposta, e mi sembra giusto lasciare che siano le università a stabilire negli statuti quali soggetti abbiano il potere di nomina. Sarebbe anche bene che i componenti esterni fossero più del 40% previsto dal disegno di legge, e avessero la maggioranza nel CDA. E almeno quelli che svolgono impegni pesanti (per esempio partecipazione alla Giunta) dovrebbero essere retribuiti adeguatamente.

  2. Carla Crivello

    La stringata analisi che premette alla sua proposta – e la proposta stessa – mi sembrano lungimiranti e non basate su semplifazioni banalmente efficientiste. Restano ovviamente alcuni punti da definire. Per esempio: scomparirebberono le quote di rappresentanti delle componenti interne eletti con votazione? Rimarrebbero inalterate le funzioni del rettore e del direttore amministrativo?

  3. Oliviero Carugo

    Caro Dott. Marrucci, ci sono due punti deboli nella sua proposta. Uno riguarda la vaghezza con la quale gli stakeholders vengono identificati (ordini, lobbies padronali, accademie, ex-alumni associations, sindaci e quant’altro). L’altro e’ molto piu’ basic: forse non hai capito che le Universita’ stanno per fare la fine delle ASL. Ci sara’ sempre meno potere al rettorato e sempre piu’ negli uffici amministrativi opportunamente lottizzati. Possiamo protestare, certo. Ma destra e sinistra pari sono.

  4. antonio solombrino

    Il metodo prospettato è interessante e va ulteriormente approfondito nel dibattito. Salvaguardare, tuttavia,la “qualità” dei designati. La revoca per “inadeguatezza” dovrebbe comunque essere sempre prevista.

  5. rosario nicoletti

    Sono da molto tempo convinto che uno dei maggiori guai dell’università siano i CdA formati da una maggioranza di docenti eletti dai colleghi. I guai erano limitati quando non vi era l’autonomia: in regime autonomo, ogni stortura è possibile, non essendovi alcun controllo "esterno". Ed è inutile agitare lo spauracchio delle ASL: tra l’altro, non è neppure vero che sono tutte inefficienti. Il sistema prospettato da Marrucci potrebbe funzionare: così come molti altri sulla stessa falsariga.

  6. Tommaso Sinibaldi

    Va ribadito, credo, innanzitutto un principio fondamentale : il CdA è espressione della proprietà; se l’Università è privata è espressione della Fondazione o quantaltro ; se l’Università è pubblica è espressione della collettività. Diciamo una cosa che dovrebbe essere ovvia, ma che in Italia non lo è affatto : i professori non sono i proprietari dell’Università. Questa è la ragione per cui i professori non dovrebbero far parte del CdA o al più esservi in una componente del tutto minoritaria. Per quello che ne so è quanto d’altronde accade in altri paesi : i professori non fanno parte del Board. La "svendita" dell’Università ai privati non c’entra : i componenti del CdA possono essere benissimo espressione del pubblico, ma non essere professori. Ciò detto, la proposta di Marrucci mi sembra certamente assai interessante e da approfondire.

  7. Tommaso Sinibaldi

    Una ragione importante per cui i professori non dovrebbero essere nel CdA. Il CdA aveva (ed ha ancora,spero) il potere di confermare o meno una cattedra (dirottandola ad esempio ad altro insegnamento) quando il titolare va in pensione. E’ un grosso spazio di cambiamento, ove si pensi al gran numero di docenti che sta andando in pensione in questi anni. Ma gli attuali CdA di professori non prendono neanche in considerazione questa possibilità (questa è la mia vissuta esperienza). La ragione è chiara : un CdA di professori non tocca il sacro principio della "proprietà" e della "ereditarietà" della cattedra.

  8. Beatrice Penati

    La proposta è sensata, ma suppone – come spesso, e a ragione, si ripete su questo sito – un serrato controllo a valle sulla qualità e quantità della ricerca, collegato alla distribuzione dei finanziamenti pubblici. Altrimenti anche i più egregi amministratori potrebbero essere tentati a fare scelte non virtuose, senza poterle (o doverle) correggere nel ciclo successivo. In ogni caso, la nomina ‘mista’ proposta da Marrucci introdurrebbe giustamente un meccanismo di controllo sulla retribuzione: se questi signori decidono (come è logico) il loro stipendio, si potrebbe avere il caso paradossale di università con ottimi risultati e dipartimenti meritevoli obbligati a tagli, mentre il CdA si auto-premia. E i docenti, furiosi, devono stare a guardare perché non possono condizionare il CdA. E’ talora successo Oltremanica dopo l’ultimo RAE. La presenza tanto esecrata di membri scelti dal senato accademico potrebbe invece porre un freno a questi ardori.

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