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QUANDO IL PIL FA I CONTI CON IL CAPITALE INTANGIBILE

Il Pil non misurerà la felicità, ma finché resta l’indicatore principale della statistica economica occorre cercare di calcolarlo al meglio. Oggi le spese per beni intangibili sono contabilizzate tra i costi, perché si ipotizza che non contribuiscano alla produzione futura. Se invece si considerano tra i beni capitali, il quadro della crescita economica di un paese diventa sostanzialmente diverso. Il capitale intangibile dell’Italia si compone per una quota molta alta di investimenti in consulenze. Mentre rimane bassa la spesa in ricerca scientifica.

Il Pil non basta per misurare il benessere economico, e ancor meno la soddisfazione sociale, ci viene ripetuto negli ultimi tempi. Finché il Pil resiste come l’indicatore principale della statistica economica, però, occorre farne buon uso e cercare di misurarlo al meglio.

QUANDO LA RICERCA È UN COSTO

Un tema importante è quello dei cosiddetti “beni intangibili” (software, originali di opere artistiche, ricerca e sviluppo, marketing), che contribuiscono alla crescita economica potenzialmente quanto i “beni tangibili” (macchinari, costruzioni, mezzi di trasporto) ma che attualmente sono solo in parte contabilizzati come componenti (investimenti) del prodotto interno lordo.
Le attività intangibili sono oggi classificate tra gli input intermedi poiché si suppone che esauriscano il loro ruolo di fattori produttivi nell’arco di un solo periodo di tempo. In altri termini, si ipotizza che non contribuiscano in nessun modo alla produzione futura. Di conseguenza le spese sostenute per acquistare “beni intangibili” sono contabilizzate tra i costi e non compaiono tra le componenti che spiegano la dinamica del Pil. Numerosi studi hanno invece dimostrato che se classificato tra le spese per investimenti, il capitale intangibile dà conto della dinamica della produttività del lavoro e del progresso tecnico e organizzativo consentendo di spiegare con maggior precisione la crescita del Pil. (1)
La considerazione esplicita della spesa sostenuta dalle imprese per sviluppare attività intangibili tra i beni capitali e non tra le spese correnti, fa quindi emergere un quadro della crescita economica di un paese sostanzialmente diverso da quello attuale.
La spesa in ricerca e sviluppo (R&S) rappresenta in questo senso il caso più emblematico. Ad esempio, l’attività preparatoria svolta dalla Apple per il lancio dell’iPod, dallo sviluppo tecnologico al marketing, e le spese connesse, vengono considerate attività transitorie e quindi contabilizzate tra i costi sostenuti dalla Apple. In realtà, però in questo processo, l’attività di R&S effettuata dalla azienda di Steve Jobs svolge il ruolo di fattore produttivo a tutti gli effetti. Al pari di un macchinario come il tornio, le nuove conoscenze, generate dall’attività di ricerca e sviluppo, vengono utilizzate ripetutamente nel processo produttivo, tanto da poter essere assimilate a un bene capitale.

LE TRE COMPONENTI DEL CAPITALE INTANGIBILE

Da tempo si è compreso che fattori “intangibili” quali la capacità organizzativa e imprenditoriale, la ricerca scientifica e lo sviluppo di nuovi prodotti, ma anche il marketing, il design e la progettazione architettonica, nonché il talento artistico, sono rilevanti per lo sviluppo economico al pari della quantità e qualità di lavoro e di capitale fisico.
Ora, nei paesi avanzati come anche in quelli emergenti, si fa strada il concetto di “capitale intangibile”, che fornisce una “piattaforma” d’insieme per tener conto di tutti questi elementi, prima considerati singolarmente ignorando le loro sinergie. Una ricerca condotta presso il Luiss Lab, nell’ambito del progetto Innodrive della Commissione europea (www.innodrive.org) che coinvolge altri otto istituti di ricerca europei, sta elaborando le prime stime coerenti su scala continentale della spesa in beni capitali intangibili e degli effetti dell’accumulazione di questi ultimi sulla crescita economica.
I beni intangibili si possono suddividere in tre grandi componenti: quella relativa all’informazione computerizzata (principalmente software); quella relativa alla proprietà intellettuale scientifica e artistica; e quella relativa alle competenze economiche (capitale organizzativo, marketing, capitale imprenditoriale e manageriale). Con Massimiliano Iommi abbiamo per ora raccolto dati comparabili sulla dinamica dell’accumulazione di questi fattori per i 27 paesi dell’Unione Europea dal 1995 a oggi. Non sorprende che alcuni tra i nuovi paesi dell’Unione (Repubblica ceca, Slovacchia, Polonia) abbiano compiuto un vero e proprio balzo negli investimenti in capitale intangibile, dal momento dell’ammissione ai negoziati di accesso all’Unione, a metà anni Novanta, fino al loro ingresso nel 2004 o 2007.
Tra i grandi paesi, la Svezia, il Regno Unito, la Spagna e l’Italia sono quelli che hanno ridotto sensibilmente l’accumulazione di capitale intangibile nella prima metà dello scorso decennio. Ma mentre Regno Unito e Svezia partivano da tassi di incremento annuale pari al 6 per cento circa del Pil, Spagna e Italia si attestavano al 3 per cento del Pil (figure 1 e 2).
Ancor più rilevanti sono le differenze nella composizione del capitale intangibile (tabella 1). Non solo – come ci si attenderebbe – per l’Italia pesa meno l’investimento in software rispetto a paesi quali la Finlandia, ma questa componente ha subito una contrazione tra il 1995 e il 2005, a differenza di quanto accaduto in Germania. Tra le componenti della proprietà intellettuale, in Italia, la voce “sviluppo di nuovi prodotti”è aumentata, in linea con la Germania, mentre rimane bassa la spesa in R&S. In compenso, l’Italia ha una quota molto alta di spesa per le competenze economiche, dalla consulenza al capitale organizzativo e manageriale: oltre il 50 per cento, contro il 40-45 per cento dei paesi del Centro-Nord Europa.
Certamente, la crisi finanziaria e la recessione hanno spostato l’enfasi del dibattito economico sulle politiche di stabilizzazione macro e sulle questioni regolatorie, e hanno fatto giustizia di “modelli nazionali” di sviluppo insostenibili (i casi di Regno Unito e Spagna insegnano). Che dire del modello economico italiano (Pmi, settori “tradizionali”)? Resisterà anche questa volta? Ci auguriamo piuttosto che la crisi costringa anche l’Italia a modificare il suo “capitale intangibile”, spostandolo in parte dall’imprenditorialità e dalla consulenza verso la ricerca scientifica. Speriamo inoltre che nel lungo periodo necessario per misurare correttamente i fattori immateriali e incorporarli come investimenti nei conti nazionali, i policy maker tengano comunque conto del ruolo fondamentale che i beni intangibili svolgono nella dinamica del Pil.

(1) VediCorrado, Carol, Charles Hulten, and Daniel Sichel, 2005, “Measuring Capital and Technology: An Expanded Framework,” in Carol Corrado, John Haltiwanger, and Daniel Sichel, eds., Measuring Capital in the New Economy, Chicago: University of Chicago

Tabella 1: la composizione degli investimenti in capitale intangibile (1995-2005). Fonte Luiss Lab.

  Finland Germany Italy Netherlands
  1995 2000 2005 1995 2000 2005 1995 2000 2005 1995 2000 2005
Informazione computerizzata 20,2 18,1 21,5 13,5 17,0 18,3 15,8 15,5 13,9 16,1 21,3 22,1
Proprietà intellettuale 34,5 40,4 41,2 37,0 39,4 38,7 26,8 26,8 31,4 28,5 27,2 31,2
R&S Scientifico 26,7 34,7 35,5 30,2 29,9 29,3 13,0 11,4 12,5 18,1 15,1 17,5
Creazioni Artistiche 0,1 0,0 0,0 0,1 0,2 0,2 1,5 1,8 1,9 0,0 0,0 0,0
Sviluppo di nuovi prodotti 5,3 3,0 3,2 6,0 8,6 8,7 5,3 7,4 8,9 9,1 10,8 12,6
Progettazione architettonica
e ingegneristica
2,3 2,4 2,2 0,6 0,5 0,3 3,4 2,9 2,9 0,4 0,4 0,2
Competenze Economiche 45,3 41,5 37,3 49,5 43,7 43,0 57,3 57,7 54,8 55,4 51,4 46,7
Consulenza 8,0 9,9 8,4 11,9 10,7 11,5 18,8 16,7 19,4 18,3 16,8 14,3
Ricerche di mercato 0,4 0,7 0,6 1,6 0,9 1,2 2,9 3,9 2,8 1,9 2,9 2,9
Capitale Umano “Firm specific” 15,8 11,5 7,7 10,9 9,6 8,5 11,9 9,6 8,0 17,5 14,7 12,3
Capitale Organizzativo 21,0 19,5 20,7 25,1 22,4 21,8 23,8 27,5 24,7 17,8 17,0 17,1
                         
Totale “capitale intangibile” 100,0 100,0 100,0 100 100 100 100 100 100 100 100 100

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  1. Piero

    Sa perfettamente che sotto sotto, dietro le apparenze, non solo nel pubblico ma anche nel privato, le consulenze sono in buona parte una tecnica di redistribuzione del reddito, oppure di costruzione di relazioni fiduciarie che ben poco hanno a che fare con il capitale umano.. chiuque lo sa…

  2. Franco STATISTICO

    Interessantissimo l’articolo sui beni che non si possono toccare. In un primo momento avevo sperato che si trattasse dei beni universali dell’acqua e dell’aria, ma, anche riducendo l’ersame a quelli che non producono direttamente capitale toccabile, si immette nella considerazione del sistema calcolatore dell’economia un approfondimento critico di indubbia importanza. E ciò se non altro per constatare la estrema caducità dei criteri presi in considerazione. In altre parole a mio giudizio il tentativo di analisi è sì meritorio perchè sposta l’esame su un elemento dissimile e futuro, ma a questo punto dovrebbe coinvolgere il discorso più gravoso e complesso dell’intero capitale dei beni, naturali compresi, usati e a disposizione per la produzione.

  3. marcello battini

    Condivido il precedente commento. A questo mi sento d’aggiungere altre voci la cui valenza non è proprio cristallina: creazioni artistiche, sviluppo di nuovi prodotti, progettazione architettonica, ricerche di mercato, capitale organizzativo. Le voci più in sofferenza, rispetto agli altri paesi, sono quelle meno opache: ricerca e sviluppo, capitale umano. Scuola ed università dove sono?

  4. Riccardo

    Mi permetto, in accordo a quanto affermato nel post precedente, che una componente significativa di questi costi intangibili di management sono tutt’altro che investimenti intangibili. Reputo una grande distorsione nei dati presentati trattandosi, il settore delle consulenze, di un settore estremamente poco liberalizzato che reputo tale sia per esperienza professionale ma facilmente confutabile dai dibattiti scaturiti in seguito al tentativo di liberalizzazione delle professioni avuto luogo con il decreto Bersani nella precedente legislatura. Infine, parte di detti costi non sono finalizzati a investimenti diretti a migliorare la struttura organizzativa dell’azienda ma a tutelarsi da un sistema legislativo che, per carenza dell’attività e inopia del legislatore, tende ad essere estremamente confuso, arbitrale e poco comprensibile agli stessi esperti (sia per questioni civili che per problematiche fiscali). Infine, se davvero si fosse accumulato così tanto capitale manageriale, come mai non si è chiesto l’autore dell’articolo perché mai al mondo non godiamo di alcuna fama di efficienza? Purtroppo non si tratta, a mio parere, di un investimento ma di uno spreco.

  5. silver

    Giusto: il PIL non riesce a misurare la felicità ma… per il resto, scuola e ricerca scientifica in Italia sono diventate costi inutili. Se ne stanno accorgendo in molti, anche "finalmente" tanti genitori che sono alle prese con la Riforma. Possibile che gli Uffici Scolastici regionali non scendano a Roma a riscuotere quello che avrebbero dovuto incassare in anni di lavoro delle loro scuole, possibile che alle elementari di una zona multietnica di Torino (P.Palazzo) si faccia ormai tranquillamente a meno del mediatore culturale-così prezioso per la famosa "integrazione" e anche nella scuola media di mia figlia (Circ. 1, Centro) si debba decidere di fare un mercatino di Pasqua per cercare di far cassa? E i ricercatori di Scienze che sono pronti a incrociare la braccia dove li mettiamo?… ma guai a verificare costi e efficacia delle consulenze! Si potrebbero scoprire cosette scabrose…? P.S. complimenti per il sito, andremo a Roma il 12 con tanti rotoli di carta igienica-scusate lo sfogo.

  6. dante10

    Scusate l’ignoranza, ma non ho mai capito se l’aumento delle tariffe e dei servizi (postali, bancarie, energetiche ecc.) si traducono in un aumento dei Pil mentre in realtà impoveriscono il paese perchè gravano sulle famiglie (e quindi frenano sullo svilupo dei consumi) sui costi delle imprese (diminuendone la competitività).. Si pensi solo alla bolletta energetica e a tutti i servizi che in italia sono più costosi che altrove.

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