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LA RIGIDA PRIMAVERA DEL CLIMA

Ora che gli Stati Uniti hanno faticosamente approvato la riforma della sanità, è probabile che torni all’ordine del giorno la questione del clima e dell’energia, l’altro grande tema del programma elettorale di Obama. Così il negoziato internazionale potrà ripartire. Ma i tempi appaiono ancora lunghi: bisognerà aspettare il 2011 per l’agognato accordo. Intanto, le questioni sul tappeto sono diverse e molto complesse. E i paesi che hanno ratificato il Protocollo di Kyoto non possono più rimandare decisioni che li traghettino nel post-2012.

Ora che l’America di Barack Obama ha faticosamente (e si spera per davvero) approvato la riforma della sanità, c’è da attendersi che si rimetta in moto l’altro grande tema del programma elettorale del presidente, quello del clima-energia. Si risveglierebbe così anche l’attenzione internazionale sulla questione dei cambiamenti climatici, dopo il gelo mediatico calato all’indomani del deludente esito della conferenza di Copenaghen. Complice anche la meteorologia alle nostre latitudini, l’appuntamento del 31 gennaio 2010 è passato nel completo disinteresse dei non addetti ai lavori.

L’ATTENZIONE SU COPENAGHEN

Della conferenza sul clima di Copenhagen, prima durante e dopo, s’è detto e scritto tanto, compresi gli innumerevoli bilanci. E tra gli elementi positivi va inclusa proprio l’impressionante copertura che il tema dei cambiamenti climatici e il vertice danese hanno avuto sui media tradizionali e soprattutto nelle cronache e nei commenti che blog e social networks via internet hanno permesso. La consapevolezza dell’importanza del tema per le pubbliche opinioni di tutto il mondo ci è parsa una rilevante eredità di Copenhagen.
Ciò nonostante, la tensione mediatica è ben presto svanita. Negli Stati Uniti, dopo lo smacco del seggio senatoriale perso dai democratici nel Massachusetts, ha tenuto banco la riforma sanitaria. In Europa sono stati la recessione, la perdita di posti di lavoro e il problema della stabilità finanziaria fuori e dentro i confini a dominare la scena.

COS’È SUCCESSO IL 31 GENNAIO?

L’accordo di Copenaghen rimandava la soluzione del problema clima, nei suoi vari aspetti, al 2010, alla Cop16 di dicembre a Città del Messico, passando per il non trascurabile appuntamento di fine gennaio. Il cosiddetto Copenhagen Accord, siglato in zona cesarini nella capitale danese da Stati Uniti e dai paesi del Basic (Brasile, Sud Africa, India e Cina), di cui hanno poi “preso nota” i rappresentanti dei 192 paesi della Cop15, prevedeva infatti che i vari stati annunciassero entro la fine di gennaio 2010 quali erano le intenzioni di ciascuno per contribuire al contenimento dell’incremento della temperatura globale entro i +2oC. (1)
In particolare, i paesi dell’Annex 1 (del Protocollo di Kyoto: paesi sviluppati ed economie in transizione) dovevano quantificare i propri obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni al 2020 rispetto a un dichiarato anno base (Quantified Economy-Wide Emission Targets, o Qewet), mentre i paesi non-Annex 1 (quelli in via di sviluppo) dovevano indicare le azioni di mitigazione che intenderebbero adottare senza ulteriori specificazioni richieste (Nationally Appropriate Mitigation Actions, o Nama).
Per la verità, già nei giorni precedenti Copenaghen, mentre montava l’aspettativa mediatica dell’annuncio del grande agognato accordo, si erano registrati in rapida successione annunci simili, forse motivati dal desiderio e dall’esigenza di ciascun paese di non essere da meno degli altri. (2) Questi stessi paesi, con una lettera ufficiale alla Convezione sui cambiamenti climatici dell’Onu, hanno poi confermato a gennaio quanto precedentemente annunciato. (3) (vedi tabella)
Dunque, 119 su 192 paesi si sono presentati all’appello del 31 gennaio, in rappresentanza di oltre l’80 per cento delle emissioni globali. È perciò difficile condividere l’opinione di coloro che avevano bollato l’iniziativa del Basic+Usa come “undemocratic” in quanto deviava dal processo dell’Onu disegnato per offrire uguale voce a ogni nazione. A parte il fatto che tra i paesi più attivi nel cercare di boicottare l’iniziativa si erano distinti Venezuela, Bolivia, Cuba e Sudan, il dato rilevante è l’alta percentuale di emissioni che i paesi impegnati rappresentano. Altra cosa è naturalmente l’adattamento ai cambiamenti climatici e la vulnerabilità di certi paesi o regioni e gli interventi e i mezzi necessari per farvi fronte.

L’AGENDA DEL 2010

Ma come si procederà da questo punto in avanti?
Anzitutto gli appuntamenti internazionali. I negoziati in ambito Unfccc ripartono da Bonn ad aprile (9-11), per poi approdare di nuovo a Bonn (31 maggio-11 giugno) e infine a Cancun, in Messico, per Cop16 (29 novembre-10 dicembre). Se ufficialmente prevale ancora l’idea che a fine anno l’accordo di Copenaghen porterà all’atteso trattato vincolante, già circolano i pareri che collocano lo storico evento un anno più avanti, nel 2011, alla Cop17 del Sud Africa. La ragione appare abbastanza evidente e convincente: non sarà possibile varare la riforma della politica climatica ed energetica statunitense prima della fine di quest’anno.
Dopo la riforma della sanità, il presidente Obama intende rilanciare subito l’offensiva sul fronte della riforma delle regole della finanza, dei nuovi controlli su banche e derivati e dei poteri aggiuntivi agli organi di vigilanza. È inoltre in cantiere una riforma scolastica che cambia il sistema di valutazione degli studenti, per recuperare il ritardo accumulato con i concorrenti asiatici nella qualità dell’istruzione. E soprattutto Obama può ora rimettere al centro della sua azione l’economia e gli stimoli all’occupazione, la preoccupazione numero uno per gli elettori. Sul fronte ambientale, invece, Barack Obama ha intenzione di convocare ad aprile un nuovo summit del Major Economies Forum (Mef), le diciassette più grandi economie del pianeta, nel tentativo di trovare un accordo sui tagli delle emissioni di gas serra che possa servigli anche a sbloccare la legge sul clima al senato Usa.
È così che il numero dei veri attori nel negoziato sulla riduzione delle emissioni si ridimensiona rispetto alla totalità del tavolo Onu. Il fatto sembra scandalizzare alcuni, ma pare essere la tendenza emersa a Copenaghen, pronta a riproporsi anche nel corso di quest’anno. È probabilmente la natura terribilmente complessa del tema a indicare questa come una delle possibili strategie di semplificazione. Se un gruppo limitato di paesi, che tuttavia rappresenti un’elevata percentuale (diciamo l’80 per cento) delle emissioni globali, riesce a negoziare un accordo efficace di riduzione delle proprie emissioni, l’obiettivo si può dire in buona parte raggiunto.
E il negoziato sui cambiamenti climatici è davvero estremamente complesso. Non vi è solo infatti la riduzione delle emissioni di gas-serra attraverso opportune politiche di mitigazione, che incidono largamente sui consumi energetici e quindi prevedono interventi a carico di complessi sistemi infrastrutturali. Vi è anche il grande tema della deforestazione e dell’uso del suolo, la cosiddetta Redd,Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation: le emissioni di gas-serra provengono per circa il 30 per cento da usi non-energetici legati al suolo, alle foreste e all’agricoltura. Per alcuni paesi, tra cui Brasile, Russia, Indonesia, queste tipologie di intervento sono assolutamente cruciali, perché quei settori generano importanti quote di attività economica e reddito per importanti fasce di popolazione. È dunque necessario l’apporto finanziario della comunità internazionale per favorire l’adozione di comportamenti e pratiche che evitino la continua riduzione dei grandi serbatoi di carbonio terrestri.
L’altro tema cruciale, giustamente emerso in modo dirompente nella capitale danese, è quello dell’adattamento delle regioni più povere e vulnerabili del mondo agli effetti avversi dei cambiamenti climatici. Qui si parla di Africa, e si parla di ingenti interventi finanziari a carico soprattutto di quei paesi che sono maggiormente responsabili del fenomeno e che sono pure quelli che possono (o dovrebbero) permettersi tali interventi. I nodi da sciogliere sono molteplici, in quanto non è per nulla chiaro da dove dovrebbero provenire i fondi necessari, se saranno genuinamente nuovi e addizionali, come saranno allocati e verso dove incanalati. A ciò si aggiunga che un aspetto dell’intervento riguarda anche il trasferimento di know-how tecnologico da imprese private o pubbliche dei paesi sviluppati: questo discorso diventa assai delicato perché resta da chiarire se si tratti di concessione di licenze, cessioni gratuite ovvero onerose di brevetti e simili.
È possibile, e forse auspicabile, che almeno per buona parte del percorso questi aspetti del negoziato siano portati avanti su tavoli separati, in quanto gli attori non sono sempre gli stessi.
C’è infine una questione che si tende a dimenticare: l’osservanza degli impegni. Il problema era già successo a Kyoto, ma a Copenaghen la Cina ha fatto muro contro la possibilità di accettare verifiche esterne sui progressi compiuti nel soddisfacimento degli impegni presi, in quanto violerebbero la sovranità di un paese. Se la questione della misurazione, notificabilità e verificabilità (Monitoring, Reporting and Verifiability) è un’ulteriore dimensione del problema, non va dimenticato che anche il discorso delle sanzioni dovrà essere affrontato.
Vi è un ultimo aspetto che entro breve dovrà essere discusso e risolto. A Bali nel 2007 il percorso del negoziato era stato sdoppiato in due gruppi di lavoro: uno sugli ulteriori impegni per i paesi Annex 1 sotto il Protocollo di Kyoto (AWG-KP) e uno sulle azioni cooperative a lungo termine sotto la Convenzione quadro (AWG-LCA). Il primo gruppo abbraccia tutti i paesi che hanno ratificato il Protocollo, e che quindi sono impegnati nel primo periodo di commitment che va dal 2008 al 2012. Il gruppo di lavoro doveva contribuire a decisioni finali che a Copenaghen non sono state prese, lasciando così aperto un varco che va chiuso al più presto per dare certezze a operatori, organizzazioni e stati circa il loro destino dopo il 31 dicembre 2012: si pensi allo schema di commercio internazionale dei permessi previsto dal protocollo oppure ai noti Cdm.
Con una legislazione già approvata al 2020, su questo fronte l’Unione Europea è pronta e appare inevitabile che si assuma la leadership per preparare il terreno per il post-2012. Dalla firma del Protocollo a Kyoto nel 1997 alla sua entrata in vigore nel 2005 sono passati nove anni. Aspettare la Cop17 del Sud Africa e il suo possibile accordo onnicomprensivo potrebbe essere suicida.

(1) Il testo del documento si trova qui: http://unfccc.int/resource/docs/2009/cop15/eng/l07.pdf
(2) http://versocopenhagen.blogspot.com/2009/12/guida-copenhagen-gli-stati-ai-blocchi.html
(3)http://unfccc.int/home/items/5264.php, http://unfccc.int/home/items/5265.php e http://unfccc.int/meetings/items/5276.php

Tabella: Obiettivi di riduzione annunciati dopo l’Accordo di Copenhagen al 31 gennaio 2010

Nazione Quanto Entro quando Relativamente a quando
Annex 1 – QEWET al 2020
Australia 25% o 5%-15%   1990
Bielorussia 5-10%   1990
Canada 17%   2005
Croazia 5%   1990
EU 20-30%   1990
Giappone 25%   1990
Kazakhstan 15%   1992
Nuova Zelanda 10-20%   1990
Norvegia 30-40%   1990
Russia 15-25%   1990
USA 17%   2005
Non-Annex 1 (NAMA) (selezione di paesi)
Brasile 38-42% 2020 2020 BAU
Messico 30% 2020 2020 BAU
Sud Africa 34% 2020 2020 BAU
Corea del sud 30% 2020 2020 BAU
Indonesia 26-41% 2020 2020 BAU
Cina 40-45% CO2/GDP 2020 2005
India 20-25% CO2/GDP 2020 2005

Note: BAU è lo scenario tendenziale al 2020 in assenza di interventi; CO2/GDP indica il grado di carbonizzazione di un’economia: si tratta di un target relativo e non assoluto di riduzione delle emissioni.

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  1. Rinaldo Sorgenti

    Beh, non è che Obama sia rimasto fermo e, superata la speculativa dialettica elettorale, ha ben chiarito quello che gli USA debbono fare per il recupero dalla pesante crisi economica e come il Paese deve indirizzare gli sforzi in campo energetico. Appunto la: "green economy" cioè quella del biglietto verde. Dopo tutto quanto avvenuto negli ultimi 2 anni, il fallimento di Copenhagen ha evitato di farci precipitare nell’abisso, alla luce anche degli scandali emersi sulla "costruzione" delle rilevazioni climatiche. Nella speranza che un pò di buonsenso cominci ad illuminare i Governanti, se proprio si vuole fare qualcosa, sarebbe utile che ci si indirizzasse ad azioni comunque utile per l’insieme. Quindi, sarebbe quanto mai opportuno rivedere i contenuti del: "Asia-Pacific Partnership on Clean Development and Climate" lanciato nel 2005 e sottoscritto da USA-Cina-Giappone-India-Sud Korea-Australia-Canada, che consiste nel finanziare (con una % del PIL dei Paesi OECD) il trasferimento tecnologico nei Paesi poveri ed in via di sviluppo. Questo, oltre a produrre risultati concreti, permetterebbe anche di sostenere la ripresa economica nei Paesi avanzati che finanziano il meccanismo.

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