Una proposta di legge affronta due temi finora trascurati nel nostro sistema di welfare: le necessità di cura delle persone non autosufficienti e la conciliazione con il lavoro remunerato. Ma la norma riesce a essere contemporaneamente vecchia, ingiusta e inefficace. Perché lo strumento scelto è il pre-pensionamento, che favorisce l’uscita dal mercato del lavoro e non la conciliazione. Perché non adotta un approccio universalista e garantisce condizioni più vantaggiose ai lavoratori pubblici. Perché scarica ancora una volta sulle famiglie l’onere del lavoro di cura.
Nella seduta del 14 maggio la Camera ha approvato quasi all’unanimità le Norme in favore dei lavoratori che assistono familiari gravemente disabili. (1)
Il testo, che ora passa all’esame del Senato, rappresenta la sintesi di ben quattordici proposte di legge presentate da esponenti di pressoché tutte le parti politiche. La norma affronta due temi fin qui troppo trascurati nel sistema di welfare italiano: (i) le necessità di cura delle persone non autosufficienti; (ii) la conciliazione tra lavoro remunerato e cura dei familiari non autosufficienti. La soluzione proposta, tuttavia, riesce a essere insieme vecchia, ingiusta e inefficace.
UNA PROPOSTA VECCHIA E INGIUSTA…
È vecchia perché invece di promuovere la conciliazione favorisce l’uscita dal mercato del lavoro, con uno strumento, il pre-pensionamento, per altro in contrasto con tutti gli obiettivi di innalzamento dell’età del ritiro dal lavoro. Inoltre adotta un approccio non universalista, che introduce benefici diversi a seconda della situazione lavorativa e del tipo di contratto di chi presta la cura. Moltiplicando, ancora una volta, la frammentazione e complessità del sistema di welfare italiano.
È ingiusta perché garantisce condizioni molto diverse, e più vantaggiose, ai lavoratori del settore pubblico rispetto a quelli del settore privato. I dipendenti pubblici che si prendono cura di un familiare potrebbero beneficiare, dopo 35 anni di contributi, di un periodo di cinque anni di esonero anticipato dal servizio con il 70 per cento della retribuzione complessiva. Diversamente, per i lavoratori del settore privato, inclusi gli autonomi, è previsto un vero e proprio pre-pensionamento, sulla base sì di una storia contributiva più ridotta, ma a condizioni complessive molto più rigide: la lavoratrice deve avere almeno 55 anni di età (il lavoratore 60), avere almeno 20 anni di contributi e soprattutto deve aver convissuto ed essersi presa cura del familiare negli ultimi 18 anni. Aver accudito un familiare lasciandolo nella propria abitazione, per rispetto della sua vita e abitudini (come consigliano anche tutte le politiche dell’ageing in place) non conta. Anche la definizione di famigliare è più stringente: il beneficio spetta solo al coniuge, al genitore o al figlio della persona con disabilità; solo nel caso in cui questi famigliari siano impossibilitati a fornire cura, fratelli e sorelle possono usufruire del beneficio. Le norme sono ingiuste anche perché limitano il riconoscimento economico del lavoro di cura solo ai lavoratori/lavoratrici. Il costo per l’Inpdap e l’Inps di questi pre-pensionamenti alla fine andranno a carico della collettività. Il che sarebbe giusto se valesse per tutti, non solo per alcune categorie. Chi ha dovuto lasciare il lavoro proprio a motivo delle responsabilità di cura, oltre al danno ora sperimenta anche la beffa.
…MA ANCHE INEFFICACE
La norma proposta è inefficace perché, in presenza di un sistema pensionistico contributivo, rischia di avviare a una vecchiaia di ristrettezze economiche chi si pre-pensiona per continuare ad accudire un familiare. È inefficace perché scarica ancora una volta sulle famiglie (di fatto sulle donne) l’onere del lavoro di cura, senza preoccuparsi né della appropriatezza delle cure né delle disuguali risorse umane e di altro tipo presenti nelle famiglie. Inoltre riconosce la necessità di cura solo quando è ormai estrema. Come se la non autosufficienza si desse sempre totalmente da subito, e non si sviluppasse per lo più nel tempo, provocando domande di cura di intensità, oltre che qualità, diverse. Se poi sommiamo questo criterio a quelli di età anagrafica e contributiva, è chiaro che la legge è inefficace anche perché arriva troppo tardi, quando i giochi sono già fatti e molte lavoratrici sono state costrette a uscire dal mercato del lavoro, oppure a far ricoverare in istituto il familiare.
Da tempo si discute di trasformare l’indennità di accompagnamento per introdurre anche in Italia un sistema simile almeno a quelli tedesco o francese, finanziati da una assicurazione obbligatoria. Ove si offre una combinazione di sostegno economico e di servizi, privilegiando i servizi, su base universale e graduata a seconda del livello di dipendenza. Dove le famiglie possono scegliere in qualche misura il mix preferito di cura familiare, servizi pubblici e servizi di mercato, con l’effetto non trascurabile di creare domanda di lavoro regolare. Ma non se ne fa mai nulla, salvo qualche sanatoria per le badanti che lascia alle famiglie tutto l’onere economico e organizzativo. Per chi sta nel mercato del lavoro e insieme si fa carico di un familiare dipendente sarebbero più utili, oltre ai servizi, congedi temporanei, con contributi figurativi per non perdere l’anzianità contributiva.
È probabile che di fronte alla necessità della manovra finanziaria queste norme non arrivino mai al dibattito in Senato. Ma se davvero si volesse affrontare in modo serio il bisogno di cura delle persone non autosufficienti e dei familiari che si occupano di loro, occorrerebbe avere un atteggiamento meno dilettantesco e più attento alle circostanze concrete in cui questi bisogni si presentano.
(1) Il testo definitivo non è ancora disponibile, ma il testo unificato base si trova a questo indirizzo.
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Peppe 46
Ho quasi 64 anni e percepisco un’indennità di disoccupazione che termina a Giugno prossimo. Ho una sorella che vive con me e fortunatamente ha una pensione di circa 850 euro ma è affetta da una serie di malattie che ci ha portato a chiedere una indennità di accompagnamento non accettata. Questa è la diagnosi della commissione: enfisema polmonare, sclerosi sub aortica, poliartrosi, declino cognitivo iniziale, ridotta capacità motoria, ridotta autonomia personale tale da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale e di relazione. Giudizio finale: "persona handicappata in situazione di gravità. Ospedale civile di Pescara 21/11/2007"!!!!! La mia situazione contributiva è tale che pur avendo un numero di anni contributivi 34 , gli stessi sono suddivisi tra Inps e gestione separata Inps e secondo la legge Dini, non possono essere totalizzati se non a 65 anni o con 40 di contributi. A Luglio non so cosa inventarmi. Inutile commentare le baby pensioni, quelle dei deputati e chissà quanti altri. La ammiro quando appare in qualche intervento a Ballarò. Saluti.
Alberto Cavaliere
E’ una proposta assurda, speriamo che non sia approvata. Il requisito della convivenza con il familiare disabile rimanda ad un modello familiare in via di superamento. Gli sforzi dei figli che hanno genitori disabili sono rivolti a mantenere il familiare nel proprio contesto abitativo e territoriale ricorrendo all’aiuto delle badanti che comunque integra (non sostituisce) l’impegno di cura. Spesso chi ha genitori invalidi ha anche figli che studiano e non hanno ancora raggiunto l’indipendenza economica e non accoglierebbe volentieri la riduzione di reddito connessa al prepensionamento. Fortnatamente le Regioni, attraverso i piani di zona hanno iniziato ad intervenire in maniera totalmente diversa, fornendo cioè contributi per aiutare le famiglie nel pagamento delle badanti, in base a certificazioni di invalidità e Isee. Viene il dubbio che gli estensori della proposta siano ideologicamente contrari al ricorso alle badanti, in quanto foriero di incremento dell’immigrazione, e coltivino l’idea nostalgica di un contesto familiare pre-industriale.
loris
..Si dovrebbe tenere conto in un periodo di forti controlli di spesa , che le Regioni (vedi Veneto) erogano contributi sanitari pro die/pro capite a tutti gli anziani non autosufficienti riconosciuti come tali da apposite commissioni, indipendentemente dal loro reddito e da quello dei loro familiari. Affrontando questo capitolo si ricaverebbe un forte risparmio.
Laura Benigni
Ho quasi sessantacinque anni e assisto mia madre, malata di sindrome di Alzheimer dal 1991, ma ho anche una consistente esperienza di altre forme di malattie e di assistenza familiare e di complessità nell’organizzare l’ assistenza, per esperienza familiare diretta. Organizzare l’ assistenza domiciliare richiede impegni organizzativi ed economici notevoli. Ho anche esperienza nella organizzazione dei piani sociali di zona perchè di questo mi sono occupata dal 2000. L’ incapacità e la non volontà di occuparsi realmente del lavoro di cura necessario per la non autosufficienza è purtroppo una responsabilità italiana molto pesante e trasversale dal punto di vista politico.Credo che le ultime gravi proposte dovrebbero indignare uomini e donne, ma soprattutto le donne che conoscono il problema in prima persona. Più che relazioni sulle pari opportunità, credo che ciascuna anziana ancora autosufficiente dovrebbe pretendere una pagina sui giornali locali e nazionali, specializzata sui maltrattamenti piccoli e grandi nei confronti degli anziani. E’ paradossale che proprio la nazione del familismo amorale e di una certa gerontocrazia residua, sia incompetente nel rappresentarsi la realtà.
Mary
Perché non tiene conto di tutte le situazioni che si potrebbero produrre in caso di un familiare invalido. Cosa avverrebbe ad esempio se si dovesse assistere un familiare gravemente invalido e si fosse ben lontani dall’età pensionabile? A me accadde 5 anni fa, quando avevo 42 anni e a quell’età non si può di certo pensare al prepensionamento. E con l’andare del tempo, con l’innalzamento generale dell’età pensionabile il problema sarà sempre piu’ ricorrente. Il fatto è che non solo si riduce l’assistenza economia (mi risulta che nell’ipotesi di manovra finanziaria fosse prevista anche una riduzione dell’importo dell’assegno di accompagnamento), ma vengono sempre piu’ ridotti i servizi domiciliari, vengono innalzate le rette delle RSA per anziani e invalidi, la burocrazia è aumentata, rendendo ancora più difficoltoso il districarsi tra ASL, medici di base e istituzioni pubbliche e private. Insomma, come spesso accade questi provvedimenti hanno piu’ valenza dimostrativa e demagogica che non utilità pratica.
Fernando
Appare inverosimile che il comparto di appartenenza di un dipendente pubblico (avente familiari disabili) possa rappresentare una discriminante verso laccesso alla fruizione delle norme in favore dei lavoratori che assistono detti familiari. Nella mia famiglia, composta da quattro persone conviventi, tre di queste sono disabili in situazione di gravità (art 3, comma 3, Legge 104/92) nonchè invalidi civili al 100%. Mio padre, (94 anni), lotta da 10 con un tumore, mia madre (91 anni), cardiopatica con ossigeno e carrozzella sempre al seguito; queste persone dovrebbero assistere e controllare mio fratello, di anni 65, affetto da sindrome di down. Infine me stesso (anni 57) dipendente regionale con 35 anni di anzianità contributiva (escluso, per comparto!, dalle norme a favore dei lavoratori che assistono familiari disabili). Esiste un concetto di equità che appartiene alle persone intellettualmente oneste, concetto che al momento, nellapparente sentire comune, può essere tranquillamente superato dai prioritari fattori economici anche a danno dellapplicazione della medesima tutela verso cittadini nelle medesime condizioni. Sassari 31 magio 2010. Fernando.
Elisa
La cosa "interessante" (fra molte virgolette, naturalmente) è che sul voto unitario alla Camera su questo testo di legge è stata espressa grande soddisfazione generale, da parte di tutti i gruppi. "Dopo tanti anni il riconoscimento del lavoro di cura compie un passo avanti significativo, di alto valore simbolico e sociale". L’obiettivo dichiarato, a livello di politics e di intenti, è quello di estendere la normativa anche ai lavoratori momentaneamente esclusi. Punto. E nessuno, come sottolinea l’autrice, si pone il problema della conciliazione. Sembra proprio che il tema non sia in agenda. Si potrebbe porre il problema a qualche senatore, (se la norma non è già stata discussa in Senato). Il testo non verrà ovviamente stravolto, ma magari, almeno a livello di dibattito, qualcuno potrebbe far presente la cosa…
pietro
Non si può che essere d’accordo con la Prof.ssa Saraceno perchè non vi è una precisa volontà di definire una normativa che affronti il problema alla radice come anche indicato dalla legge quadro nazionale 328/00.
Eraclio
Ma a Roma sanno cosa significa avere un non autosufficiente in casa? Prima si informino, visitino strutture per anziani e per persone con altre disabilità (mentali, fisiche ecc.) poi pensino – anche se da qualche anno i politici si sono privatizzati pure il cervello – e si mettano nei panni di chi deve accudire (nel senso più ampio del termine) una persona non autosufficiente. E’ chiaro che fino ad un certo punto la persona può essere gestita in casa, poi però crescono impegno (24 ore su 24) e qualità degli interventi richiesti e allora cominciano i veri problemi (ti servono infermieri, medici, attrezzature). Io faccio questo ragionamento su me stesso: se mio padre diventa non auto sufficiente, se posso lo gestisco io, ma poi credo che a conti (economici e affettivi) fatti mi convenga farlo accogliere in una casa di riposo dove potrà essere accudito professionalmente. Io andrò a trovarlo sempre e sarò piu attento alle sue richieste umane e particolari perchè non sarò stressato dal rincorrere infermieri, medici, badanti. E’ proprio sbagliato?
Tommaso
Non sono aggiornato in questo campo, ma se davvero questo testo diventerà legge e se quanto detto nell’articolo copre bene il tutto, l’Italia sarà ancora di più un paese alla deriva.