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Aiuti da valutare

In tempi di crisi riprende vigore la scuola di pensiero contraria agli aiuti allo sviluppo, che produrrebbero fisiologicamente corruzione e dipendenza. I critici non considerano però che per missione l’aiuto interviene in aree dove è più difficile ottenere risultati. Comunque, proprio per rispondere alla crescente pressione dell’opinione pubblica globale sui risultati concreti che l’aiuto ha conseguito, i paesi donatori più impegnati hanno creato unità di valutazione sistematica dell’impatto degli interventi. I ritardi italiani.

La traduzione in italiano del best seller dell’’economista dello Zambia Dambisa Moyo “La carità che uccide” è l’’ultima delle pubblicazioni contro l’’aiuto pubblico internazionale allo sviluppo. (1) La tesi che la Moyo sostiene è radicale: l’’aiuto non solo ha fallito, ma fisiologicamente genera corruzione e dipendenza, contribuendo ad accrescere la povertà in Africa. E dunque la sua proposta è interrompere l’’aiuto internazionale.

PRO E CONTRO L’AIUTO

“La carità che uccide” si inserisce in un filone di pensiero che riemerge ciclicamente e che negli anni Novanta si esprimeva attraverso lo slogan “commercio, non aiuto”. Adesso il momento politico-economico è nuovamente propizio per sostenere che il taglio degli aiuti da parte dei paesi Ocse non solo è una spiacevole necessità dettata dall’’inderogabile risanamento dei bilanci pubblici, ma è una scelta che giova all’’Africa. La pubblicazione del libro è l’’occasione per avviare anche in Italia una riflessione sull’’efficacia e l’’impatto dell’’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps).
Il limite di tutte critiche sta nell’’eccessiva importanza attribuita all’’aiuto internazionale; il rovescio intellettuale di chi sostiene che l’’aiuto sia la soluzione alla povertà globale. Si sottovalutano dinamiche interne ai paesi in via di sviluppo, scelte di politica estera e il ruolo di altri flussi finanziari. Sebbene si contesti l’’Aps, non si affronta in maniera soddisfacente la questione di “cosa sarebbe accaduto senza l’’aiuto”. Non si considera né che l’’aiuto per sua missione interviene in aree dove è più difficile ottenere risultati né che fino alla fine degli anni Ottanta è stato soprattutto strumento del confronto tra blocchi e non un intervento per sconfiggere la povertà.
A livello di progetti e iniziative di cooperazione allo sviluppo esiste un vasto repertorio internazionale di valutazioni che dimostrano l’’impatto positivo dell’’Aps. (2) Ma i critici affermano che le migliaia di buoni risultati riscontrati a livello micro, non riescono a trasformarsi in dati macro misurabili attribuibili all’’aiuto. (3)
A livello macro, regressioni e metodi statistici sono utilizzati –- e spesso abusati – per dimostrare che l’’aiuto non funziona, ignorando quanto sia difficile stabilire una causalità chiara: la compresenza di aiuto e povertà non vuol dire che il primo causi a seconda. Si innesca una battaglia di posizioni ideologiche combattuta a colpi di regressioni costruite su dati di partenza non solidi. A fronte di modelli econometrici che evidenziano i limiti dell’’aiuto, ne seguono altri che ne dimostrano gli effetti positivi. Ad esempio, l’’aumento dei flussi d’’aiuto in un contesto di guerra civile ridurrebbe la durata del conflitto: il raddoppio dell’’aiuto potrebbe raddoppiare le probabilità di un’’interruzione delle ostilità. (4) Oppure, l’’aiuto avrebbe un effetto stabilizzante sul reddito procapite in paesi sottoposti a shock economici e aumenterebbe la sua efficacia nei paesi più vulnerabili. (5)

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LE VALUTAZIONI SISTEMATICHE

Di recente, data l’’impossibilità a rispondere una volta per tutte alla domanda se l’’aiuto funzioni, molti economisti dello sviluppo ed esperti di cooperazione hanno cominciato a interrogasi su singole iniziative per capire quali elementi determino risultati positivi. In particolare, hanno avuto molto successo i test di controllo a campione (Randomized control trial), mutuati dall’’industria farmaceutica. I cosiddetti randomistas disegnano programmi di sviluppo simili in una stessa area geografica, variandone solo pochi aspetti, in modo da stabilire quale elemento abbia consentito il maggiore successo. Ad esempio, un programma di educazione elementare gratuito verrà ideato variando o il numero di insegnati o la presenza un pasto o un piano di disinfezione intestinale. Infine, si valuterà quale delle tre varianti sia quella associata alla maggiore resa scolastica. I randomistas riescono a fornire risposte su “cosa” funzioni e “dove”, soprattutto su interventi di piccola scala, ma non riescono a spiegare il “perché” del successo.
Un’’altra modalità di gestione dell’’aiuto che valorizza i risultati e che si sta facendo rapidamente strada con il nuovo esecutivo inglese è il rimborso secondo i risultati ottenuti (cash on delivery)  dal paese partner. (6) Ad esempio, per ogni chilometro di strada costruita o per ogni nuovo alunno che si diploma a scuola, i paesi donatori versano un rimborso pattuito. Anche quest’’approccio non è una panacea e tra le difficoltà s’’indicano: finanziare i costi iniziali degli interventi, la possibile penalizzazione di aree che partono svantaggiate, la difficoltà a misurare obiettivi più astratti, come il rivendicare i propri diritti da parte di gruppi più marginali. (7)
Per rispondere alla crescente pressione dell’’opinione pubblica globale sui risultati concreti che l’’aiuto ha conseguito, i paesi donatori finanziariamente più impegnati hanno creato unità di valutazione sistematica dell’’impatto degli interventi. Ad esempio la cooperazione danese ha una struttura di valutazione separata dall’’agenzia che esegue gli interventi di cooperazione, con uno staff di otto persone e di un bilancio di 3 milioni di dollari all’’anno. In altri casi si sono avviate vere campagne di comunicazione pubblica di massa per dimostrare che l’’investimento di denaro pubblico ha prodotto risultati, come nel caso inglese con la campagna “UK Aid works”.
Per l’’Italia, dal 2002 non è stata prodotta alcuna valutazione sistematica diffusa pubblicamente. (8) Un’’unità di valutazione è stata ricostituita nel 2008 e da allora ha lavorato a un piano di lavoro triennale, ma fino a oggi non era stata dotata di un proprio bilancio, che le garantisse l’’effettiva operatività. In tempi di tagli all’’amministrazione pubblica, è difficile chiedere che si preservi l’’investimento pubblico per la cooperazione allo sviluppo -– già tagliato del 56 per cento nel 2008 –- se non è possibile presentare alcun risultato. Ma nel caso del nostro paese, la mancanza di risultati è più da attribuirsi alla negligenza nell’’attività di valutazione dell’’amministrazione che agli effetti perversi dell’’aiuto.
(1) Moyo D., “La carità che uccide”, 2010.
(2) Dac, Derc.
(3) Si tratta del “Paradosso micro-macro”, Monsley (1986).
(4) Joppe de Ree,Aiding violence or peace, Journal of economic development 88, 2009.
(5) Chauvet l. Guillamont F.,Aid and growth revised, 2004.
(6) Center for global development, Cash on delivery, 2010.
(7) Cafod, Cash on delivery concern, 2009.
(8) Ocse/Dac. “Peer review of Italy”, novembre 2009.

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La risposta ai commenti

  1. AM

    La tesi non è certamente nuova. Già negli anni ’80 si evidenziavano gli effetti negativi degli aiuti alimentari sulla produzione agricola nei paesi sottosviluppati, soprattutto nell’Africa sub-sahariana (J. Cathie 1982). Diminuzione della produzione agricola e migrazione interna dalle aree rurali verso le città. Oggi assistiamo al secondo passo: migrazione dalle aree urbane dell’Africa sub-sahariana verso l’Europa.

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