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Pozzi di petroli a rischio dal Messico al Mediterraneo

Grande preoccupazione ha destato l’’annuncio di prossime trivellazioni petrolifere in acque profonde nel golfo libico della Sirte. Il timore è che possa ripetersi il disastro del Golfo del Messico con conseguenze questa volta fatali per il nostro mare. Bene se verranno prese misure di prevenzione. Ma il vero problema è che per il Mediterraneo ogni giorno transita via nave tutto il petrolio per il nostro continente e il rischio è continuo. La vera soluzione è una sola: la transizione verso un mondo senza combustibili fossili.

Con un tempismo che nella migliore delle ipotesi desta sorpresa e nella peggiore desta perplessità la Bp (“Beyond Petroleum”…) il 25 luglio ha confermato le indiscrezioni del Financial Times per cui presto inizierà una serie di trivellazioni nel Golfo libico della Sirte. Si tratta di un accordo risalente al 2007 che prevede la trivellazione di cinque pozzi in acque profonde, a 1.760 metri di profondità, 200 più in giù di quella del pozzo Macondo nel Golfo del Messico (GdM). La Bp spenderà 900 milioni di dollari in un periodo di 7 anni nell’’esplorazione di tre settori del golfo libico per un’’area di 54 mila chilometri quadrati, situata a 600 chilometri dalla Sicilia. L’’obiettivo sono giacimenti di idrocarburi del pre-Oligocene la cui ultra-profondità pone delle sfide tecnologiche considerevoli e la cui perforazione potrebbe richiedere fino a sei mesi di tempo.

OIL SPILL E PETROLIERE

L’’annuncio sul Mediterraneo arriva a tre mesi dall’’esplosione della piattaforma della Deep Water Horizon nel GdM, che dal 20 aprile al 15 luglio ha causato una fuoriuscita di 4,9 milioni di barili (780 milioni di litri) di petrolio sospinto verso le coste della Louisiana. Per farsi un’’idea delle dimensioni, corrisponde grosso modo alla quantità di petrolio prodotta finora dal più grande campo petrolifero del nostro paese, quello della Val d’Agri in Basilicata. Ancora a titolo di raffronto, nel 1989 furono versati 41 milioni di litri di greggio sul litorale dell’’Alaska in occasione dell’’altro grande oil spill che ha riguardato gli Stati Uniti, quello della petroliera Exxon Valdez. L’’operazione static kill ha utilizzato finalmente con successo una tecnica abituale per il settore petrolifero, ma mai sperimentata a quelle profondità e che richiede un minimo di 24 ore per essere portata a compimento. La Bp ha annunciato una perdita di 32 miliardi di dollari connessa all’’oil spill, 3 dei quali già sopportati.
Anche se forse la probabilità di un nuovo disastro a ridosso di quello americano potrebbe, per la legge dei grandi numeri, essere alquanto bassa, la distribuzione statistica che li caratterizza ha sicuramente le code molto “grasse”, indicando eventi dalla bassa probabilità di accadimento ma dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche. E’ in virtù di questo fatto che le annunciate trivellazioni in acque ultra-profonde nel mare Mediterraneo hanno destato nella Commissione europea nonché nel Governo italiano (buon amico dell’’ineffabile colonnello libico, ironia della sorte) grandissimo allarme.

LA SETE DI PETROLIO E LE NUOVE TRIVELLAZIONI IN ACQUE PROFONDE

È allora il caso di domandarsi –- standosene lontani da speculazioni di politica internazionale e cercando di lasciare da parte l’’impatto psicologico di tale annuncio – –se vi sono dei fattori sistemici che possono produrre potenziali disastri come quello del GdM e come quello paventato nel Mediterraneo. In realtà ve ne sono due, uno legato all’’altro.
Il primo è la sete di petrolio dell’’economia mondiale, non solo del mondo occidentale. Oggi il mondo ingurgita, stante la depressa situazione economica, 84 milioni di barili di petrolio ogni giorno, in riduzione dagli 86 pre-crisi. Il 61 per cento di questo ammontare se lo beve il settore dei trasporti, un settore (figura 1) in tendenziale continua crescita (1). L’’Agenzia internazionale dell’’energia prevede che il consumo mondiale di petrolio, in assenza di interventi, passerebbe dalle 4093 Mtoe del 2007 alle 5009 nel 2030, continuando a risultare la fonte principale e con una quota percentuale sostanzialmente invariata (figura 2). Se il mondo continua ad avere bisogno di energia, e di petrolio in particolare, allora è necessario assicurarne i rifornimenti. In mezzo a speculazioni circa i picchi e l’’esaurimento prossimo venturo delle riserve mondiali, accade che il 90 per cento di queste sia controllato dalle compagnie nazionali soprattutto dei paesi Opec, le cosiddette Noc (national oil companies) che tengono generalmente lontane o in posizione subalterna le grandi compagnie occidentali. Come conseguenza, Big oil deve andarsi a cercare il petrolio in zone più impervie e costose, dai campi ultra-profondi del GdM e della costa occidentale dell’’Africa, alle zone del Polo Nord e tra le sabbie oleose del Canada. Le oil majors sono per di più le uniche a possedere la tecnologia per questo tipo di operazioni (2). E questo è il secondo fatto. La capacità produttiva in acque profonde (da 2000 piedi, o 610 metri, di profondità e oltre) a livello globale è triplicata dal 2000 ad oggi ed è pari a più di 5 milioni di barili/giorno. I principali paesi interessati sono il Brasile (26 per cento), Gli USA nel GdM (22 per cento), l’’Angola (15 per cento) e la Nigeria (12 per cento). Seguono India (6 per cento), Egitto (5 per cento) e Norvegia (5 per cento). Le previsioni pre-disastro davano infine una capacità produttiva in crescita a 10 milioni di barili/giorno al 2015.

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LE MISURE IMMEDIATE

Appare chiaro che l’’esplosione della piattaforma nel GdM ha enormemente accresciuto la preoccupazione per le possibili conseguenze di un analogo evento nel mar Mediterraneo (3). Se si verificasse un simile incidente, nel giro di un mese l’’equilibrio ecologico ed ambientale del nostro mare sarebbe irreparabilmente devastato. La reazione è stata dunque quella di imporre e chiedere moratorie alle nuove trivellazioni. Il nostro ministro Stefania Prestigiacomo ha annunciato che non si potranno trivellare pozzi entro cinque miglia delle nostre coste (la linea su cui si attesta la maggioranza delle richieste di concessione) e a 12 miglia dalle aree marine protette. Ma anche a livello europeo il commissario all’’energia Oettinger ha proposto una serie di misure che comprendono: una moratoria sulle nuove trivellazioni in attesa di fare piena luce sulle cause e responsabilità dell’’incidente nel GdM (con l’’adozione di misure correttive per operazioni di “frontiera” come la revisione e il rafforzamento dei piani di emergenza sulla base delle migliori pratiche, la concessione di autorizzazioni in base alla dimostrazione della capacità del gestore di affrontare eventi critici in particolari condizioni di funzionamento), il rafforzamento dei livelli di prevenzione esistenti con regimi autorizzativi severi ed approfondite verifiche e controlli, il completamento dello stress test sulla legislazione esistente in materia, lo sforzo per unire le forze con i partner per rafforzare le norme internazionali e regionali esistenti. Nonostante l’’inopportuna replica dei portavoce della Bp, secondo cui la società ha esperienza di queste cose da 45 anni e non deve ricevere lezioni da nessuno, quello che l’’incidente del pozzo Macondo ha dimostrato è che le oil majors, o per lo meno la Bp, hanno tecnologie e capacità idonee per estrarre petrolio in acque profonde, ma non la capacità e le tecnologie per rimediare ad una perdita di petrolio di grandi dimensioni in tempi rapidi o rapidissimi.

…MA IL PROBLEMA DEL MEDITERRANEO È UN ALTRO, PIÙ GENERALE…

Dai luoghi di estrazione il petrolio deve essere trasportato, e questo può essere fatto per tubo o per nave. Grande parte del petrolio che alimenta i paesi europei proviene dal Medio Oriente o (più recentemente) dalla zona del Caspio e gran parte di questo transita su navi che attraversano il mar Nero, il Bosforo, lo stretto dei Dardanelli, il canale di Suez e quindi riprendono il largo nel Mare Nostrum. Nel 2007, quando la produzione mondiale di petrolio era di 87 milioni di barili al giorno, 43 milioni di questi erano portati in giro su navi petroliere. Per il budello turco –- uno dei tratti al mondo più difficile da navigare e con il punto più stretto di mezzo miglio –- transitano ogni anno 50 mila navi, delle quali 5.500 sono petroliere che trasportano 2,4 milioni di barili di petrolio al giorno.
Vi sono ovviamente numerose considerazioni di natura sia economica che politica (transiti, attacchi terroristici) alla base della scelta tra trasferire petrolio via terra ovvero via mare, ma le statistiche ci dicono che gli oil spill verificatisi per rotture ed incidenti alle navi sono stati storicamente i più numerosi e quantitativamente significativi. Tra il 1971 e il 2000 il 45 per cento del petrolio versato nelle acque statunitensi è stato dovuto a petroliere e chiatte, mente solo il 16 per cento a rotture di oleodotti. L’’oil spill più grande della storia è stato ad oggi quello del Golfo Persico del 1991 quando le truppe irachene ritirandosi dal Kuwait durante la prima guerra del Golfo aprirono pozzi e conduttore versando 8 milioni di barili di greggio nel mare del golfo. Ma grandi incidenti per le rotture delle petroliere e superpetroliere si sono verificati in diverse parti del mondo, e precisamente in 112 nazioni dal 1960 ad oggi. X interessante notare che gli hot spot identificati da questa classifica indicano il GdM con 267 episodi, seguito dalla regione del nordest degli Stati Uniti con 140 e, buon terzo, il Mediterraneo con 127 perdite.

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LE “VERE” MISURE

Cosa suggeriscono allora le considerazioni fatte finora? A parte le necessarie ed assolutamente opportune misure temporanee e di breve termine, è il mondo contemporaneo e così anche l’’Europa con i suoi trasporti (figura 3) a non potere né volere fare a meno del petrolio di cui si rifornisce. Le importazioni perciò non cesseranno (figura 4), le trivellazioni non si fermeranno, ed il trasporto via terra e via mare continuerà ancora a lungo. Le buone pratiche ed i comportamenti responsabili hanno la funzione di rendere meno probabili incidenti come quelli del GdM e particolarmente alta la guardia deve essere tenuta nel Mediterraneo. Questo suggerisce un ruolo importantissimo per la politica europea ed internazionale.
Ma ancora una volta –(ebbene sì, ancora una volta)– non bisogna perdere di vista le “vere” soluzioni, quelle che consentono di risolvere questi problemi in maniera definitiva. Sono queste le misure di cui la politica può sempre meno permettersi di tralasciare. Queste soluzioni si chiamano transizione verso economie tendenzialmente senza petrolio (ed altri combustibili fossili), che poi vuole anche dire economie tendenzialmente senza emissioni, con un ambiente e la sua biodiversità maggiormente preservati, ed in questo caso anche con meno incidenti.

(1) Heavy fuel oil, Jet fuel, diesel e gasoline sono tutti derivati del petrolio.
(2) Una curiosa coincidenza vuole che il 6 marzo 2010 il settimanale The Economist pubblicasse nel suo Technology quarterly un lungo articolo dal titolo “Plumbing the depths” che esordiva dicendo che una recente serie di progressi sta permettendo alle compagnie petrolifere di scoprire e recuperare petrolio su fondali marini sempre più difficoltosi.
(3) Per fare un confronto tra i due pozzi bisogna considerare (a) quanta acqua c’’è prima del fondale (1760 metri in Libia contro 1500 nel GdM) e (b) a che profondità si trova (se si trova) il petrolio (5600 metri sul livello del mare nel GdM, mentre in Libia non si sa perché non hanno ancora trivellato).

Figura 1: Evoluzione dei consumi per fonte nel settore dei trasporti – Mondo
Fonte: IEA, Energy Technology Perspectives 2010

Figura 2: Consumi mondiali di energia primaria per fonte nello scenario di base
Fonte: IEA, World Energy Outlook 2009

Figura 3: Consumi finali di energia per fonte e per settore – OECD Europa
Fonte: IEA, Energy Technology Perspectives 2010

Figura 4: Produzione, import ed export per fonte – OECD Europa
Fonte: IEA, Energy Technology Perspectives 2010

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  1. Bruno Stucchi

    Se qualcuno riuscisse a produrre cemento e acciaio senza emissioni, vincerebbe tutti i Nobel a disposizione..

  2. Giuseppe Salmè

    L’eruzione di un pozzo per la coltivazione di un giacimento di idrocarburi è l’evento maggiormente temuto dai tecnici della perforaziione.L’eruzione avviene allorchè ,raggiunto lo strato mineralizzato, la pressione di fondo, più o meno intensa, tende ad espellere il materiale più leggero attraverso il foro di perforazione o da fratturazioni geologiche che possono avvenire per eventi naturali. La pressione di fondo non è minimamente influenzata dalla profondità in cui si trova lo strato geologico mineralizzato Ma dalla situazione idrostatica preesistente e assolutamente prevedibile considerata l’evoluzione raggiunta dalle tecniche di perforazione. Premesso ciò si può affermare senza tema di smentite che la pressione di fondo esistente nei giacimenti individuati e studiati nel Mediterraneo e nell’Isola di Sicilia non raggiunge gli alti livelli esistenti in altri giacimenti, come quello del Macondo L’estrazione degli idrocarburi dai pozzi siciliani avviene mediante un’azione di pompaggio grazie alla quale il minerale viene aiutato a vedere la luce. Sessanta e più anni fa, andò in eruzione il pozzo n.9 del giacimento di Ragusa unico caso nella storia degli idrocarburi siciliani

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