Le fondazioni bancarie non sono investitori istituzionali perché non rendono conto ad alcun risparmiatore delle loro scelte finanziarie e non hanno peraltro alcun obbligo di rendicontazione della redditività dei loro investimenti. Né sono autonome dalla politica, come mostrano gli ultimi riassetti ai vertici. Vanno dunque riformate, risolvendo l’anomalia di istituzioni non profit che esercitano funzioni di controllo nelle banche. Dovrebbero trasformare gradualmente le loro azioni in azioni di risparmio, evitando di incorrere in perdite in conto capitale.
Commentatori molto vicini al mondo bancario, come Massimo Mucchetti, in questi giorni hanno difeso a spada tratta le fondazioni. Mai si era vista difesa più strenua dello status quo. Eppure è stato Giuseppe Guzzetti, presidente dell’Accri, il sindacato delle fondazioni bancarie, a spiegarci perché le fondazioni vanno rifondate. Nel suo discorso alla Giornata del risparmio del 28 ottobre ci ha consegnato la seguente definizione degli organismi da lui presieduti: Le Fondazioni sono investitori istituzionali: presidio dell’autonomia delle banche, purché siano esse stesse capaci di salvaguardare la propria. Non è così. Oggi le fondazioni non sono certo presidio di autonomia perché non sono esse stesse autonome dalla politica e non sono neanche investitori istituzionali. Vediamo perché.
NON SONO PRESIDIO DI AUTONOMIA
Le fondazioni bancarie hanno dato ampia prova in questi anni e ancora di più negli ultimi mesi, con i riassetti dei vertici di Intesa-San Paolo e Unicredit, di non essere affatto autonome dalla politica. Attraverso le fondazioni, politici locali di ogni colore si sono arrogati il diritto di nominare i vertici delle maggiori banche italiane. Quindi il presidio non c’è. Il fatto è che le fondazioni stesse non sono autonome dalla politica. Sono guidate da persone come Angelo Benessia, Fabrizio Palenzona, Paolo Biasi, Dino De Poli e Andrea Comba che hanno dato ampia prova di avere come unico incentivo quello di massimizzare il potere, occupando (e facendo occupare a persone di fiducia) più poltrone possibili.
NON SONO INVESTITORI ISTITUZIONALI
Le fondazioni non sono investitori istituzionali. Non ne hanno affatto le caratteristiche. Non rendono conto ad alcun risparmiatore delle loro scelte finanziarie, peraltro assai poco trasparenti, dato che non hanno alcun obbligo di rendicontazione della redditività dei loro investimenti. Non sono agenti altamente specializzati nella gestione e intermediazione di fondi, come un fondo pensione o un fondo comune di investimento. Non sono in grado di gestire, anche intervenendo nel governo societario, le partecipazioni che detengono nei loro portafogli per conto della loro clientela. Gli incentivi degli investitori istituzionali sono ben identificati: ottenere il massimo rendimento, a parità di rischio, dal loro investimento, ed è questo aspetto che li rende desiderabili nel governo societario: offrono servizi di monitoraggio del management indirizzando le loro scelte verso quelle che massimizzano il valore dell’impresa nel lungo periodo. Hanno potenti incentivi a operare in questa direzione perché altrimenti i risparmiatori che affidano loro la propria ricchezza li abbandonerebbero verso altri lidi. Non è quello che accade nelle fondazioni dove non c’è nessun risparmiatore a sanzionarle per la cattiva performance dei propri investimenti.
Quindi le fondazioni oggi non sono né carne, né pesce e vanno rifondate. Ce lo chiede lo stesso Guzzetti. Prima di discutere come, è utile ricordare la genesi di queste creature. Come sono state fondate le fondazioni?
LA GENESI DI UN MOSTRO
Fino agli inizi degli anni Novanta l’Italia aveva un sistema bancario essenzialmente pubblico. Le fondazioni nascono come soluzione all’esigenza, imposta dalla Comunità europea, di privatizzare e liberalizzare il sistema bancario e passare da un modello amministrativo di gestione del credito a un modello di mercato, in cui le banche mirano a massimizzare i profitti e competono tra di loro. Mancando investitori istituzionali e un mercato azionario ampio (solo il 6 per cento delle famiglie deteneva azioni), e non volendo ricorrere a capitali stranieri di controllo, si inventarono le fondazioni. Le banche pubbliche e le casse di risparmio si trasformavano in spa, cedendo il loro pacchetto azionario a una fondazione che ne diventava il padrone.
Questo padrone: a) non sborsava una lira, solo acquisiva controllo su ingenti risorse finanziarie; b) gli veniva assegnato un compito di pubblica utilità (riversare i proventi del patrimonio da gestire per finanziare iniziative socialmente utili nei territori di riferimento) e allo stesso tempo gestire il pacchetto di controllo della banca partecipata. I due elementi sono all’origine del mostro, per usare le parole di Giuliano Amato, il loro inventore. E se un genitore definisce il figlio un mostro è sensato che a un occhio meno distorto da paterno affetto possa apparire qualcosa di peggio.
UN’ANOMALIA MAI AFFRONTATA
Come la creatura di Frankenstein junior, anche le fondazioni sono stare riportate sul tavolo operatorio. La legge Ciampi del 1998 le obbligava a cedere la maggioranza azionaria e meglio definiva le loro funzioni di utilità sociale e la successiva legge Tremonti del 2001 imponeva che il 90 per cento delle attività delle fondazioni fosse concentrato nelle regioni di appartenenza, una scelta che ha stimolato gli appetiti dei politici locali nei confronti delle fondazioni. Ma l’anomalia vera (fare da padrone di qualcosa senza metterci dei soldi propri e gestire pacchetti con potere di voto e di nomina di amministratori in società for profit da parte di una istituzione non profit a forte caratterizzazione politica) non è mai stata risolta.
COME RIFONDARLE ALLORA?
Le fondazioni hanno storicamente avuto il merito di consentire il passaggio rapido da un sistema di banche pubbliche a uno di banche private, in concorrenza tra di loro, e quindi liberare l’intermediazione dall’invadenza dei partiti politici. Ma si è trattato di una soluzione di ripiego dettata dalle circostanze particolari di un paese con mercati asfittici e soprattutto timoroso di aprirsi ai capitali stranieri. A questo punto l’anomalia va risolta. Non è possibile perseguire obiettivi non profit e esercitare funzioni di controllo nelle banche. Non si fa bene né l’una né l’altra cosa. La nostra proposta è compiere l’ultimo passo per recidere permanentemente l’anomalia: il modo più semplice per farlo è quello di levare il diritto di voto agli investimenti delle fondazioni in entità che non siano strumentali al perseguimento dei loro obiettivi di utilità sociale, le banche in primis. Alle fondazioni deve dunque essere richiesto di trasformare gradualmente (e con modalità tali da evitare loro di incorrere in perdite in conto capitale) le loro azioni in azioni di risparmio. Un vincolo di questo tipo era già stato introdotto dal legislatore nella normativa sul risparmio ma abortì su pressione delle stesse fondazioni (1). Il fatto che fosse stato preso in considerazione dal legislatore ben dodici anni fa è, ulteriore indicazione della necessità di porre termine all’anomalia. Occorre ritornarvi ma con maggiore determinazione.
Ovviamente rimane aperto un altro problema: far ben funzionare le fondazioni come entità non profit. Qui la strada maestra non può che essere quella dell’accountability, della trasparenza dei bilanci, di un ruolo diverso dell’Accri, non sindacato, ma coordinatore di progetti di utilità sociale definiti su scala nazionale, garante che i progetti finanziati vengano valutati. In ogni caso, depurare le fondazioni del loro potere di influenza sulle banche è un primo passo necessario anche per affrontare e risolvere il problema del loro ruolo sociale.
La questione della creazione di adeguati investitori istituzionali passa per altre vie, a cominciare dal rafforzamento dei fondi pensione e dell’industria del risparmi gestito. Questa è la via maestra per non creare mostri.
(1) La legge Ciampi prevedeva infatti che dal 1 gennaio 2006, le fondazioni bancarie non potessero esercitare il diritto di voto nelle assemblee ordinarie e straordinarie delle società bancarie conferitarie e nelle società da esse controllate per le azioni eccedenti il 30 per cento del capitale rappresentato da azioni aventi diritto di voto nelle medesime assemblee.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
romano calvo
E’ chiaro il vostro intento di "liberare lintermediazione dallinvadenza dei partiti politici", meno chiaro è il modello di banca a cui aspirate. A scanso di equivoci, visto che si parla di "rifondazione capitalistica" dovreste coerentemente schierarvi: ritenete voi che il modello di banca sia quello americano, in cui una ristretta elite, perseguendo il proprio legittimo interesse, ha prodotto i disastri della crisi del 2008, oppure ritenete che occorra riportare l’attività finanziaria, anche quella delle banche centrali, sotto il controllo democratico finalizzandola ad obiettivi di sviluppo economico sostenibile? Personalmente mi sono convinto che il modello da seguire sia quello del Credito Cooperativo, delle Casse rurali e soprattutto della Banca Etica. E dellazionariato popolare.
Marcello Battini
Più che commentare l’articolo, mi sento in obbligo di dissentire nella maniera più assoluta dal rispettabilissimo commento di chi mi ha preceduto. L’ambiente richiamato dall’autore, quello delle piccole banche locali, non è esente da situazioni anche molto criticabili e non ritengo possibile che determinate attività bancarie, indispensabili in un’economia globalizzata, possano essere svolte da operatori locali. La piena disponibilità pubblica delle informazioni e una specchiata "governance" sono indispensabili per qualsiasi organismo che gestisca beni pubblici, ma anche privati, nel quale sia presente, in qualche modo, l’interesse della collettività. La scelta dei governanti può seguire molte strade. L’importante che, all’interno di ogni istituzione, si creino dei conflitti d’interesse, capaci di bilanciare il potere e che la pubblicità degli atti e l’esistenza di autorità esterne, insieme ad una buona legislazione, possa ridurre il rischio di errori e di malversazioni.