Ancor più della riforma dei tributi regionali e locali, il vero punto critico del federalismo fiscale è la definizione dei fabbisogni standard. Nei due schemi di decreti finora approvati sugli standard di comuni e province e sugli standard sanitari per le Regioni, il governo ha seguito due ispirazioni e due approcci metodologici profondamente diversi. Ma come far convivere le due accezioni, entrambe presenti nella Costituzione e nella stessa legge delega? Momenti di collegamento vanno ricercati in tutte le fasi del processo di decisione e di applicazione dei fabbisogni standard.
L’acceso confronto tra governo nazionale e autonomie sui decreti di attuazione della riforma del federalismo fiscale mostra con chiarezza che è la definizione dei fabbisogni standard a essere, ancor più della riforma dei tributi regionali e locali, il vero punto critico.
È allora sorprendente che il governo, nell’affrontare la questione, abbia seguito nei due schemi di decreti approvati in materia, quello sugli standard di comuni e province e quello sugli standard sanitari per le Regioni, due ispirazioni e due approcci metodologici profondamente diversi.
BOTTOM-UP E TOP-DOWN
Riprendendo una ben nota distinzione , i fabbisogni standard possono essere ricavati seguendo un approccio bottom-up. Innanzitutto si individua a livello nazionale un pacchetto di prestazioni minime da garantire, sulla base del finanziamento statale, in tutto il territorio nazionale: i livelli essenziali delle prestazioni – Lep. Queste prestazioni vengono poi valorizzate secondo un costo unitario efficiente (o medio) stimato mediante tecniche statistico-econometriche. I vantaggi di questo approccio consistono nella tutela dei diritti di cittadinanza definiti a livello centrale. I contro riguardano gli elevati requisiti informativi richiesti, la determinazione endogena dell’ammontare complessivo di risorse finanziarie e la conseguente necessità di frequenti aggiustamenti per assicurare coerenza tra il finanziamento necessario per la fornitura delle prestazioni e il vincolo di bilancio pubblico aggregato.
Sul versante opposto sta l’approccio top-down. I fabbisogni standard relativi di ciascun ente vengono ricavati aggregando i fattori rilevanti di variabilità tra territori nella domanda e nei costi di produzione dei servizi decentrati (demografici, socio-economici, territoriali, eccetera) con pesi determinati con procedure ad hoc o statistico-econometriche. Questi indicatori vengono poi utilizzati per ripartire un fondo determinato esogenamente in coerenza con le compatibilità macro-finanziarie. I vantaggi consistono nella programmabilità delle risorse, nel controllo degli aggregati finanziari, nei requisiti informativi relativamente limitati. Per contro, c’è il rischio di possibili divaricazioni fra il finanziamento effettivamente disponibile e i bisogni riconosciuti nei diversi territori.
Ebbene, nel decreto sui fabbisogni standard degli enti locali si segue , seppure in termini ancora molto abbozzati, un percorso dal basso verso l’alto, in cui si dovrebbero identificare delle prestazioni (ad esempio, per i comuni, quanta polizia locale, quanti asili, e così via) e poi valorizzarle, senza però una chiara chiusura in termini di compatibilità finanziarie generali. Al contrario, il decreto sugli standard sanitari segue chiaramente un approccio top-down: risolve un problema di perequazione finanziaria tra Regioni a partire da un fondo (il fabbisogno sanitario nazionale standard) determinato in coerenza con i vincoli di finanza pubblica.
E allora la questione centrale diventa: come far convivere, come mettere in comunicazione le due diverse accezioni di fabbisogni standard, entrambe presenti nella Costituzione e nella riforma sul federalismo fiscale? Momenti di collegamento vanno ricercati in tutte le fasi del processo di decisione e di applicazione dei fabbisogni standard.
FABBISOGNI STANDARD NELLA DECISIONE FINANZIARIA
Circa la prima fase, quella della determinazione dei fabbisogni standard, è critica la connessione con il processo di coordinamento dinamico della finanza pubblica previsto dalla riforma della contabilità pubblica, la 196/2009.È lì nel Patto di convergenza, nella Decisione di finanza pubblica, nella legge di stabilità, nei disegni di legge collegati che andrebbe collocata la decisione sulla dimensione del finanziamento complessivo delle diverse funzioni decentrate e quindi sui margini disponibili di variazione. Un approccio al contempo finanziariamente sostenibile e, almeno parzialmente, in linea con i richiami alla tutela delle prestazioni può essere un percorso top-down in cui però la decisione finanziaria sulla dimensione complessiva del fondo sia arricchita dalla considerazione degli standard di servizio.
In che modo? Alcune proposte.
1) Dovrebbe essere accresciuta la consapevolezza dei decisori pubblici sulle ricadute che le loro decisioni finanziarie possono avere sulle prestazioni effettive, mediante maggiori e migliori informazioni, simulazioni dei possibili effetti.
2) La decisione sul finanziamento complessivo andrebbe guidata. Se, ad esempio, sulla base dei costi standard efficienti si evidenziassero risparmi aggregati di risorse rispetto alla spesa storica, tali risparmi non andrebbero automaticamente acquisiti dal bilancio statale, ma dovrebbero essere oggetto di specifica decisione. Quanto di essi deve andare a riduzione del finanziamento aggregato? Quanto invece a migliorare i Lep e a sostenere gli enti territoriali in ritardo?
3) Una riduzione del finanziamento aggregato che andasse al di sotto di quanto implicato dai costi standard efficienti dovrebbe richiedere una procedura decisionale aggravata, attraverso un’esplicita revisione dei Lep.
4) La decisione sul finanziamento complessivo non andrebbe rivista anno per anno, ma dovrebbe mantenersi invariata nel medio periodo per garantire programmabilità alle risorse degli enti decentrati.
L’APPLICAZIONE DEI FABBISOGNI STANDARD
Una volta determinati, i fabbisogni standard vanno poi applicati per stabilire concretamente i flussi di trasferimenti perequativi a favore delle Regioni e degli enti locali.
Consideriamo innanzitutto la fase della transizione. Sul piano della perequazione finanziaria, bisognerebbe prevedere una regola per il passaggio graduale dalla spesa storica ai nuovi fabbisogni standard anche per favorire la sostenibilità politica della riforma. In termini di tutela dei Lep, occorre incentivare le Regioni o enti locali al di sotto della media nella fornitura dei servizi a conseguire un aumento dei livelli quali-quantitativi, condizionando i trasferimenti perequativi a favore dei singoli enti al loro effettivo avanzamento lungo il percorso di avvicinamento agli standard di servizio.
Va poi considerata la fase a regime, in cui i fabbisogni standard siano pienamente applicati. Occorre prevedere meccanismi sanzionatori da applicare agli enti decentrati nel caso di comportamenti devianti. Se il problema è finanziario (spesa eccessiva rispetto al fabbisogno standard), le sanzioni devono essere della medesima natura: aumenti automatici della pressione fiscale, introduzione di vincoli alle spese, fino alla possibile ineleggibilità degli amministratori locali. Ma se la deviazione concerne la fornitura di prestazioni al di sotto dei livelli standard dei servizi, le sanzioni devono essere differenti. Serve un sistema di monitoraggio che consenta confronti fra le diverse amministrazioni su indicatori sintetici, su aggregati di prestazioni in una prospettiva di yardstick competition. Se da tale sistema emergesse che un certo ente è al di sotto della media nella fornitura dei servizi sarebbe utile puntare su sanzioni politiche come commissariamento e ineleggibilità. E ancor di più su interventi di affiancamento, sullo sviluppo di competenze tecniche e gestionali a livello locale. È questo l’approccio più promettente per ricondurre le amministrazioni che deviano su percorsi di convergenza verso i livelli standard.
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alessandro
Buongiorno, mi pare che il problema sia, come suol dire, nel manico. Landamento dei costi, in sanità, è correlato con levoluzione demografica. I costi salgono in proporzione con le classi di età e si spende di più dove la popolazione è più anziana (lo ricordava pochi giorni fa V. Mapelli). I comuni, in teoria, dovrebbero spendere di più (se escludiamo i servizi funerari…) dove la popolazione è più giovane e dove cresce mediamente di più (non consideriamo il mero invecchiamento); costano gli asili nido, la vigilanza, le manutenzioni scolastiche, i pasti, la nettezza urbana. Da una prima analisi (utilizzando dati di bilancio 2007-08-09 di Comuni veneti), invece, a me pare che i costi correnti dei servizi pubblici erogati dagli enti locali crescono di più proprio dove, paradossalmente, la demografia mostra minor effervescenza, e dove quindi risiede popolazione con meno ricambio, mediamente via via sempre più anziana. Se fosse proprio così, bisognerebbe mettersi d’accordo soprattutto sugli obiettivi, oltre che sulla metodologia.
maria rosa vittadini
Ricordate la riforma del trasporto pubblico locale del 1981? Anche in quel caso lo strumento chiave fu lidentificazione di un costo standard nazionale di produzione del servizio al quale via via le aziende avrebbero dovuto adeguarsi riducendo nel tempo le risorse pubbliche per il ripiano dei loro disavanzi. Anche allora erano previsti incentivi e disincentivi. Poi le Regioni rivendicarono la necessità di definire un costo standard regionale per tener conto delle differenze nella morfologia dei territori, nella base economica, nei livelli di mobilità e così via. Poi ancora il costo standard di riferimento regionale di fatto si adeguò al livello delle aziende meno efficienti, tanto per non scontentare nessuno. Le aziende più efficienti ne furono addirittura penalizzate. E poi si abbandonò tutto e si passò alla mitizzazione della concorrenza e delle gare in una riforma ancora una volta incompiuta, che mantiene il trasporto pubblico in un guado tanto incerto quanto inefficiente. Con i nuovi costi (fabbisogni?) standard siamo sicuri di non star mettendo in piedi un ennesimmo carrozzone destinato ad un analogo, ma più ampio e più grave, fallimento?