Su università italiane e università americane ci sono alcuni luoghi comuni da sfatare. Non è vero che la situazione delle nostre sia così nera come si vuole a volte dipingerla. Né è vero che quelle di oltre oceano siano tutte eccellenti. La posizione dell’Italia nei ranking internazionali è del tutto adeguata al suo ruolo di settima potenza industriale del mondo. Se poi vogliamo creare anche da noi sedi di eccellenza, basta permettere la libera circolazione dei ricercatori. E aggiungere un rifinanziamento virtuoso degli atenei per i cosiddetti costi indiretti.
Lʼarticolo di Giovanni Abramo pone una questione importante: la valutazione del sistema universitario italiano e la necessità di costituire un polo di università di eccellenza o di world-class universities. Una giusta esigenza che deve essere inserita in un contesto conoscitivo circa la posizione delle università italiane e il sistema di classificazione di quelle americane, che costituiscono quasi sempre il punto di riferimento paradigmatico.
LUOGHI COMUNI DA SFATARE TRA AMERICA E ITALIA
Quando si parla di università di serie A e B si opera una semplificazione eccessiva rispetto alla realtà del sistema americano. La situazione è in realtà molto più articolata: vi sono tipologie di università molto differenti (ben trentatré per la Carnegie Foundation for the Advancement of Teaching), che vanno dalle very high research activity ai Tribal colleges. E quelle al top sono solo novantasei in tutto. Siamo quindi in presenza di un sistema di eccellenza che risponde a criteri ed esigenze funzionali diverse, in base ai servizi resi, alla qualificazione del personale docente, al tipo di titoli rilasciati, al numero di dottorati e così via.
In secondo luogo, la valutazione delle università italiane non è così disastrosa come spesso si è voluto dipingere negli ultimi tempi. Certo, in Italia i gruppi di ricerca migliori sono disseminati un poʼ qui e un poʼ là; e tuttavia non è del tutto vero che non sia possibile distinguere tra gli atenei. Secondo gli otto ranking attualmente prodotti a livello mondiale, vediamo che esiste una notevole convergenza: solo trentuno università italiane su novantacinque hanno un piazzamento in almeno due ranking (vedi figura 1). Se poi tra questi ranking vengono privilegiati quelli aventi carattere bibliometrico e che prendono in considerazione la qualità della produzione scientifica, vediamo che la performance delle università italiane migliora. Ad esempio, nellʼHeeact (Higher Education Evaluation and Accreditation Council of Taiwan) risulta che lʼItalia nel 2010 piazza ventinove atenei tra i primi 500, collocandosi al quarto posto a livello mondiale dopo Stati Uniti, Germania e Gran Bretagna, migliorando la propria posizione rispetto al 2007 (vedi figura 2). Non possiamo competere con le irraggiungibili trentacinque università americane che si collocano tra le prime cinquanta; e tuttavia rispetto alle altre nazioni del mondo la performance dellʼItalia è del tutto adeguata al suo ruolo di settima (o ottava) potenza industriale del mondo. Ciò conferma che se, da una parte, non ci sono punte di eccellenza paragonabili a quelle americane, tuttavia abbiamo un buon rendimento medio. Osserviamo infine, a beneficio di coloro che ritengono che solo le università private possano esser le depositarie dellʼeccellenza, che le università italiane presenti in tutti e otto ranking internazionali sono statali, ad eccezione della Cattolica di Milano: nessuna delle prestigiose università private è inclusa tra le prime 500.
Per quanto riguarda il problema del riconoscimento del merito, è importante notare che buona parte di quello che in Italia è il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) è costituito nelle università americane dai finanziamenti alla ricerca, dei quali una percentuale sino al 40-50 per cento viene indirizzata ai cosiddetti costi indiretti, ovvero allʼateneo, per mantenere strutture, laboratori, biblioteche e personale di supporto (oltre a dare una retribuzione aggiuntiva ai docenti). In tal modo, le università che hanno i ricercatori più bravi e sono in grado di assicurarsi più contratti per ricerca scientifica, hanno anche maggiori risorse. Ciò favorisce anche una politica di accaparramento dei migliori ricercatori da parte delle università. Inoltre, a differenza di quanto di solito si sostiene in merito alla predominanza dellʼintervento privato e industriale nel finanziamento della ricerca scientifica, di fatto solo il 6 per cento dei fondi proviene dellʼindustria (vedi figura 3).
PER LA LIBERA CIRCOLAZIONE DEI RICERCATORI
E così veniamo al problema di come favorire anche in Italia una maggiore concentrazione di talenti nelle università migliori. Piuttosto che mediante una procedura dallʼalto, pilotata ministerialmente con la gemmazione di nuove università dove far convergere i migliori, la soluzione potrebbe essere una sorta di selezione naturale: permettere ai ricercatori migliori di migrare nelle università che, già da ora, sono in grado di offrire condizioni più vantaggiose per la ricerca e lʼavanzamento di carriera (e la retribuzione). Oggi ciò è impedito dal vincolo che lega il docente allʼateneo attraverso lo strumento del budget: chi vuole trasferirsi in unʼaltra università deve lasciare il proprio budget in quella di provenienza e quindi costringe la sede che lo accoglie a mettere a disposizione risorse aggiuntive. La mobilità risulta così impossibile e sono disincentivate le università che vogliono qualificarsi e migliorare i propri standard facendo vere e proprie campagne acquisti dei docenti e ricercatori migliori, assicurando loro condizioni al contorno più gratificanti. Con un meccanismo di libera circolazione dei ricercatori le università migliori verrebbero votate con i piedi non solo dagli studenti, ma anche dai docenti, mentre le peggiori sarebbero progressivamente abbandonate: si avrebbe una selezione darwiniana spontanea. Ciò potrebbe avvenire col semplice riassegnamento del corrispettivo budget del Ffo all’ateneo di accoglienza. Si potrebbe addirittura stabilire un premio di attrattività per gratificare con fondi aggiuntivi le università in grado di attrarre ricercatori. E ciò dovrebbe essere accompagnato da un rifinanziamento virtuoso delle università che, spostando i fondi aggiuntivi sui contratti di ricerca, dia loro più risorse mediante i costi indiretti, analogamente a quanto avviene nel sistema americano. Nel giro di qualche anno si verrebbero a formare in modo naturale delle università di eccellenza, senza discutibili operazioni verticistiche. A tale scopo è indispensabile la creazione di unʼagenzia indipendente per la valutazione dei progetti di ricerca da finanziare, in modo da evitare le solite camarille che ancora oggi sono di largo corso.
Due misure, non difficili da realizzare, che favorirebbero la qualificazione del sistema della ricerca verso poli di eccellenza, senza infliggere ulteriori traumi da riforme onnicomprensive a un sistema universitario già sotto stress da alcuni decenni.
Figura 1 Le università italiane per numero di piazzamenti nei maggiori ranking internazionali
Figura 2 Numero di università dei vari Stati per anno tra le prime 500 (Heeact)
Figura 3 Distribuzione per fonte dei finanziamenti in ricerca & sviluppo negli Usa nelle università e college nel 2008
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Fabio Ranchetti
Sono assolutamente d’accordo con la proposta di togliere ogni vincolo alla libera circolazione dei docenti/ricercatori (e degli studenti). Un provvedimento semplicissimo e molto efficace (eliminerebbe almeno una delle storture e assurde ingessature del nostro sistema universitario).
Alessandro
Nel ranking presentato nell’articolo noto come sia il Politecnico di Milano, sia quello di Torino, sia la Bocconi si trovino molto in basso. Ricordo un ranking molto diverso presentato dal Corriere della Sera non molto tempo fa. Qui i casi sono due: o uno dei due ranking mente, oppure ci sono ranking che sostengono qualunque idea, quindi perché dovremmo fidarci di uno o dell’altro?
Antonio Parrotti
Che informazione ci da il primo grafico? Onestamente non capisco che voglia dire. Mi sembra alquanto buffo sostenere che la Bocconi equivale all’Università di Messina. E lo stesso dicasi per Ca’ Foscari. Basta guardare il tasso di occupazione a cinque anni dei laureati in questi tre atenei per vedere che la qualità è drasticamente diversa e questo grafico fornisce un’immagine totalmente distorta del ranking fra le università italiane.
Giovanni Federico
Ma proprio al ranking di Taiwan bisogna attaccarsi per difendere l’indifendibile? Scommetto che nel ranking sloveno non ci piazziamo male. E perchè non ci facciamo un bel ranking noi, così svettiamo? Ma mi faccia il piacere…
Alberto Chilosi
Non mi risulta che in altri paesi chi si sposta da un’università all’altra si porti dietro la retribuzione. Ma al di là della originalità della proposta mi pare che i trasferimenti in un sistema siffatto risulterebero in forti concentrazioni senza alcun riguardo per l’attrattività scientifica della sede universitaria. Ogni sede avrebbe interesse a ricevere personale addizionale in quanto il costo di un collega in più con cui dividere la didattica sarebbe prossimo allo zero. Inoltre, tanto più basso il peso della didattica, tanto maggiore la capacità di ogni sede di attrarre coloro che privilegiano la ricerca o le attività extrauniversitarie, con effetto cumulativo. Ma in realtà le motivazioni principali della mobilità sarebbero quelle logistiche ed ambientali relative alla sede. Probabilmente le sedi periferiche verrebbero disertate indipendentemente dai meriti delle relative università e vi sarebbe una concentrazione dei docenti nelle grandi città, dove maggiori sono le possibilità di attività professionale e per il coniuge di trovare un’occupazione, con conseguenti problemi di congestione. Non credo che tutto questo sarebbe nel pubblico interesse.
Elena
Non riesco a ricostruire gli 8 ranking considerati nella prima figura: Taiwan, QS, TimesHE, Shanghai, Leiden…Scimago?, Webometrics? e? Comunque mi sembra un poco forzato dire che la posizione delle università italiane nelle classifiche mondiali sia adeguata al suo ruolo di settima potenza, ci saranno una trentina di atenei entro le prime 500, ma sempre dopo la 200 posizione, mentre Francia e Spagna fanno "una figura" migliore. E’ invece indubbio che l’Italia ha un buon -riconosciuto- livello medio, che è esattamente il fattore (non certo l’unico né il principale) che le sfavorisce in questi ranking (ovvero Francia e Spagna stanno messe meglio perché hanno alcune università di eccellenza che ottengono buoni piazzamenti).
Marcello Romagnoli
Finalmente qualcuno che scrive qualcosa di oggettivo e non di pancia. Vorrei aggiungere inoltre che dall’ultimo rapporto Ocse risulta che i finanziamenti per studente sono in Italia più di 4000 dollari inferiori alla media Ocse. Non è cosa da poco perchè è difficile fare i matrimoni con i fichi secchi. Metto comunque le mani avanti dicendo che i fichi secchi li adoro. Detto ciò comunque credo che l’istituzione di un sistema di valutazione oggettivo sia indispensabile. Sistema sul quale basare una parte importante di finanziamenti e di progressione di carriera. Questa deve essere bidirezionale, si può salire e si può scendere. Circa la mobilità io non la vedo come un bene assoluto. Inoltre ciò vorrebbe dire spostare persone e famiglie con vantaggi che sono dubbi. Aprirei infine una finestra sulla reale capacità di misura di queste classifiche perchè non mi è noto dove prendano i dati e come facciano a misurarne alcuni francamente immisurabili.
federico mazzarella
Ma che senso ha un ranking in cui Normale di Pisa e la Scuola Superiore di Trieste sono dietro a Bari? E la vogliamo finire di difendere l’indifendibile universita’ italiana? Ho studiato al politecnico a milano e basta mettere un paio di nomi di stimatissimi ordinari in Google Scholar per accorgersi che producono meno conoscenza della maggior parte degli assistant professor statunitensi che lavorano nello stesso campo.
bob
Prima di parlare delle Università eccellenti, dovremmo vedere la situazione culturale in genere di questo Paese. Io direi deprimente rispetto ad anni indietro. Talmente deprimente che è sorto anche un partito (non faccio il nome ma è facilmente intuibile) che rappresente in tutto e per tutto questo stato di cose. La situazione delle Università è la stessa degli aeroporti. Abbiamo fatto credere (ai creduloni) che ogni città piccola o grande potesse avere il suo aeroporto. Adesso si sta vedendo come andrà, ne rimarranno sì e no 10, gli altri chiuderanno. Così l’Università, una volta per laurearsi si partiva per non più di 10 destinazioni, oggi con l’invenzione delle sedi distaccate lo puoi fare anche a Canicattì. Allora no Università di qualità, ma posti di potere e di impiego fasullo. Non potendo dare risposte a questa follie, il mediocre politico si è inventato Nord-Sud, che non è altro che mettere contro la povera gente. La semplificazione tanto cara agli imbecilli per cui se superi il passo della Futa sono tutto rose e fiori e centri di eccellenza. Io per quel poco che ho girato il mondo, credo ancora che la scuola italiana in generale dia numeri a tante realtà straniere.
Marcello Romagnoli
Indubbiamente ci sono troppe università in Italia, ogniuna ha un costo di personale amministrativo e di struttura nella catena di comando. Una per regione sarebbe abbastanza, magari con sedi distribuite sul terrirorio e minore burocrazia. Circa le classifiche occorre guardarci con molta attenzione perchè hanno indici non misurabili. Una parte del risultato non dipenden dalle università come ad esempio la voce finanziamenti, strutture o nr.studenti/docente. Queste ci penalizzano non poco. Vedo che poi ci sono persone che godono taffazianamente nel criticare le nostre università. Chissa cosa ci guadagnano.
Calogero Massimo Cammalleri
La invito a leggere il manifesto per l’università italiana (attualmente reperibile in home page del sito), approvato dal Conpass (Coordinamento Nazionale dei Professori Associati) il 15 novembre us, anche con riferimento alla sua proposta di mobilità del budget individuale. Come il suo intervento anche un "manifesto" non può entrare nei dettagli, ma se lo ritiene sarei ben lieto di illustrarle i meccanismi ipotizzati (e non esplicitati) per rendere possibile la mobilità delle risorse, nel nostro manifesto prevista. Vorrei anche rispondere a chi, sul punto, obietta che nei altri paesi non è prevista tale mobilità economica, che qui non siamo negli altri paesi. Dunque a situazione specifica il suo rimedio. E poi smettiamola con questo complesso di infrorità, infantile complemento di una ingiustificata quanto diffusa xenofilia. Guardare altrove è necessario, indispensabile, ma poi occorre fare proprie le idee, non copiare o peggio scimmiottare i modelli di popoli e società affatto diverse dalla nostra. Modelli diversi non sono per definizione migliori o utili; c’è prima da salvare il molto salvabile che c’è già.
bob
Assegnato al docente della Sapienza Giorgio Parisi il più importante riconoscimento per la fisica dopo il Nobel. I suoi studi spaziano dai "sistemi complessi", alla biologia (studiando le reti neurali) e alla matematica (sistemi di calcolo sempre più potenti)" ..e non credo sia un caso isolato. Alla faccia delle tabelle e delle statistiche fatte ad uso e consumo per discorsi da bar dello sport, da mediocri politici da curva sud.
AM
Nei convegni internazionali e nelle pubblicazioni i nostri docenti offrono spesso contributi di ottimo livello in molte discipline. I meno giovani sono penalizzati dall’insufficiente conoscenza della lingua inglese. Sempre nelle pubblicazioni siamo penalizzati dal fatto che i principali editori sono all’estero e che non è facile quindi per un docente di un’università italiana far pubblicare i propri articoli sulle riviste scientifiche più importanti.
mark
Sono perplesso leggendo i commenti di questo articolo ben scritto. Il discorso da portare avanti principalmente, credo sia quello di trovare rimedio al numero basso di pubblicazioni che i nostri fanno sulle riviste internazionali. Più che parlare di quanto sia buona la qualità della didattica e della preparazione di base (usando qualche esempio raro di eccellenza nella ricerca per sostenere la "bontà" del sistema universitario italiano), mi concentrerei più sulla/e soluzione/i da adottare per spingere i nostri a fare ricerca di qualità. Ad esempio, parlare di un sistema di incentivi mi sembra un buon inizio. Implementare un pò di concorrenza tra i docenti, fare in modo che questi siano valutati per la qualità ed il livello di pubblicazioni ed il servizio reso agli utenti (se volete, chiamateci studenti), fare in modo che a queste valutazioni corrispondano delle conseguenze sia positive sia negative, mi sembra essere la premessa fondamentale per poter pensare di costruire seriamente Università di qualità e, per estensione, produrre eccellenze.
Giuseppe De Nicolao
Grazie a Coniglione per aver scritto un buon articolo su un argomento difficile. Aggiungo qualche commento sul problema delle classifiche. Classificare gli atenei è molto difficile e comporta un grado di arbitrarietà per due ragioni principali. Prima di tutto, la scelta degli indicatori ed il peso relativo ad essi assegnato non saranno mai oggettivi. Ci sono indicatori che finiscono per misurare la disponibilità di risorse (il numero di premi Nobel per esempio): come possono essere competitivi gli atenei di una nazione la cui spesa per formazione universitaria (misurata come % del PIL) è tra le ultime dei paesi OCSE? Altri indicatori sono autoreferenziali: quando si considera la "reputazione" misurata in base a questionari fatti circolare nella comunità accademica si innesca un meccanismo in cui la classifica degli anni precedenti influenzerà le misure di reputazione degli anni a venire.
Enrico
L’articolo e le cifre confermano quel che già si sapeva: molte università italiane sono di livello buono o molto buono (altrimenti, del resto, non seminerebbero ricercatori in giro per il mondo). Quanto alleccellenza, però, è fuorviante considerare esclusivamente la presenza in uno spropositato ranking di 500 università – in media due e mezza per ogni Stato del mondo intero! – senza considerarne la posizione: battiamo vari Stati nei 500 ma ne veniamo sonoramente battuti nei 50, 100, 200 (si pensi a Giappone e Paesi Bassi se vogliamo ignorare Gran Bretagna e Stati Uniti). Una nota allultimo grafico (che rappresenta non tutti i finanziamenti a ricerca e sviluppo, ma solo quelli per le scienze e lingegneria). Se pure soltanto il 9% dei fondi delle università americane proviene dallindustria in quanto tale, sta di fatto che il 40% proviene da fonti diverse dallo Stato. E il dato, a mio parere, più importante in quel 40% è la metà che proviene dalle istituzioni stesse, vale a dire le rendite costanti delle loro dotazioni: Harvard ha 27 miliardi di dollari, Yale 13, Cambridge 4 miliardi di sterline, Oxford 3 le università italiane, sostanzialmente, nulla.