Con il regolamento attuativo della riforma dei servizi pubblici locali si passa da una norma che bollava come inefficienti tutte le gestioni in house a una disciplina che consentirà a buona parte di quelle stesse gestioni di autoproclamare la propria efficienza e ottenere la deroga. Le società in house così salvaguardate dovranno però rispettare il Patto di stabilità interno. Ovvero non potranno operare. Una proposta per garantire alle imprese, anche pubbliche, maggiori margini di autonomia strategica e di bilancio. Ma con criteri più seri per mantenere l’affidamento.
In settembre è entrato in vigore il regolamento attuativo della riforma dei servizi pubblici locali, quel decreto Ronchi che ha scatenato una vasta reazione culminata nella richiesta a furor di popolo dei referendum abrogativi della cosiddetta privatizzazione dell’acqua.
DEROGHE ALLA GARA
Il regolamento chiarisce ben pochi dei dubbi che il testo di legge lasciava aperti, soprattutto in materia di gare, limitandosi a prescrivere alcuni contenuti abbastanza ovvi.
In compenso detta una norma che in pratica ribalta il testo legislativo a proposito dei criteri che possono permettere il mantenimento della gestione in house fino alla scadenza naturale. Il testo della legge indicava infatti termini perentori per il decadimento dell’affidamento e l’avvio della gara, consentendo la deroga solo in caso di (
) situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato. Una formulazione piuttosto singolare (quali saranno mai le caratteristiche sociali che non permettono un efficace ricorso al mercato? Forse la minaccia di sommosse popolari? E cosa c’entra la geomorfologia del territorio con il mercato?), che comunque sembrava circoscrivere la deroga solo a casi eccezionali.
Il regolamento, invece, allarga in modo deciso la manica, consentendo la deroga a quelle gestioni che si dimostrino non svantaggiose per i cittadini rispetto a modalità alternative.
Per dare sostanza a questi criteri, vengono fissati alcuni indicatori: bilancio in utile o in pareggio, destinazione degli utili a nuovi investimenti, tariffe inferiori alla media; incidenza dei costi operativi sulle tariffe inferiore alla media. Dunque, quello che nel testo di legge era un caso eccezionale, diventa una situazione allargabile a buona parte delle gestioni attuali, soprattutto del Nord. Probabilmente non sarà sufficiente a fermare la macchina referendaria, ma certo rappresenta una concessione fondamentale ai sostenitori dell’acqua pubblica.
In un precedente intervento avevo espresso perplessità sulla reale efficacia di una gara in cui concorrono sia soggetti terzi rispetto all’amministrazione che bandisce, sia le aziende che da questa sono direttamente controllate.
Una gara siffatta sarebbe una singolarità tutta italiana. Negli altri paesi, e anche nella norma europea, l’impresa pubblica è vista come un’alternativa all’affidamento esterno, non come una concorrente per l’affidamento esterno. Ovunque, si riscontra una significativa coincidenza tra il soggetto cui competono le responsabilità l’ente locale e la scelta se fare in casa o rivolgersi all’esterno (nel qual caso, la gara è dobbligo). Va detto anche che questo non è necessariamente un viatico alle gestioni pubbliche: soprattutto dove l’ente locale non può contare su sussidi statali e pagherà direttamente, col proprio bilancio o con le tariffe dei suoi cittadini, il prezzo di inefficienze e dissesti, la scelta di affidamento esterno è praticata molto spesso. Invece di obbligare gli enti locali ad andare in gara in ogni caso, si creano le condizioni perché l’autonoma scelta di andarci o no sia fatta assumendosene pienamente la responsabilità, non solo politica ma anche economica.
EFFICIENZA E QUALITÀ
Alla luce dell’esperienza altrui, la retromarcia del legislatore è stata probabilmente saggia, almeno in linea di principio. Come evitare però che la deroga si risolva in una pace a tarallucci e acqua, in cui i gestori autoproclameranno la propria efficienza, contando come in passato sull’ombrello della finanza pubblica per nascondere le magagne, continuando a fare finanza allegra con la garanzia implicita di Pantalone?
I criteri che sono stati adottati nel regolamento sono discutibili.
L’efficienza non si può certificare col fatto di avere costi e tariffe inferiori alla media: in questo modo si premiano le gestioni che hanno la fortuna di operare in contesti favorevoli, non quelle efficienti.
Sarebbe più opportuno che la valutazione dell’efficienza si riferisse a un confronto econometricamente fondato. Il metodo tariffario normalizzato prevedeva una formula parametrica che doveva servire proprio a questo: ma quella formula, calcolata nel 1996 a partire da dati molto lacunosi e da allora mai aggiornata, non può rappresentare un riferimento credibile, ed evidentemente lo stesso legislatore dimostra di non fidarsene. Nulla vieta però di raffinare il modello, ricalcolando le formule a partire da dati più realistici e aggiornandole con tempestività.
Il Mtn potrebbe così recuperare la funzione che aveva in origine, ossia vincolare le tariffe solo alla copertura dei costi efficienti; per i gestori che non riuscissero a sostenersi finanziariamente con tali tariffe potrebbero scattare forme di commissariamento e, come extrema ratio, il ritiro anticipato dell’affidamento e la gara.
Quanto all’equilibrio della gestione, limitarsi al conto economico (ossia all’esistenza di un utile netto) è fuorviante. In un settore in cui una parte significativa delle poste a bilancio sono ammortamenti e accantonamenti, ossia poste congetturali, gli spazi per la contabilità creativa sono enormi, mentre l’elevata esposizione finanziaria le rende assai vulnerabili al costo del capitale e ai fatti che possono condizionare la formazione dei margini operativi. Col risultato che aziende in utile fino allanno prima possono trovarsi pochi mesi dopo sullorlo del dissesto (per una storia illuminante si veda il mio Buchi nell’acqua).
Dovrebbero invece essere costruiti indicatori di solidità finanziaria che dimostrino la capacità dell’azienda di sostenere i suoi impegni nei confronti del mercato, monitorando con attenzione l’evoluzione dell’indebitamento, lo sfruttamento della leva finanziaria e il rapporto tra livelli di indebitamento e margini operativi.
I criteri prescelti tacciono poi completamente della qualità del servizio. In un contesto nel quale ancor oggi una buona parte delle gestioni è addirittura priva di carta del servizio, e tra quelle che ce l’hanno molto spesso gli impegni sono generici e non soggetti a verifiche né sanzioni, la norma del regolamento suona come un via libera alla rincorsa verso il basso della qualità. Alla salvaguardia dovrebbero essere invece ammesse solo le gestioni in grado di offrire un livello di qualità almeno pari ai minimi e che dimostrino la capacità di attuare i programmi di investimento. Non basta prevedere l’adozione della carta del servizio, come fa il regolamento; si potrebbe invece riprendere quanto a suo tempo previsto dal disegno di legge Lanzillotta: la carta diviene parte integrante del contratto e il suo monitoraggio e sanzione deve essere un compito fondamentale del soggetto affidante.
In parallelo, l’esperienza di altri paesi, dove la gestione pubblica funziona e l’autosufficienza economica è presa seriamente, mostra che percorsi di efficientamento significativi possono essere stimolati anche usando la carota. Il benchmarking istituzionale, ad esempio, pare abbia stimolato notevolmente l’iniziativa delle gestioni per recuperare margini di efficienza. Anche l’elaborazione di confronti comparativi rientrava tra le competenze del Coviri, ma non è mai stata seriamente effettuata a causa del debole profilo istituzionale e delle scarse risorse a disposizione. Solo di recente la Commissione ha lanciato un sistema informativo che dovrebbe raccogliere in modo puntuale i dati economici, finanziari e gestionali; a due anni di distanza lamenta un numero di risposte intorno al 20 per cento, ma non dispone di alcun potere sanzionatorio per costringere le imprese a rispondere.
Come si vede, per tutte e quattro le nostre proposte è fondamentale l’esistenza di un regolatore di settore, tema su cui il governo ha lasciato intravedere qualche apertura, ma solo a parole.
Stiamo passando invece da una norma castigamatti, che bollava tutte le gestioni in house come inefficienti a prescindere, a un regolamento libera tutti che crea i presupposti perché chiunque, tirando un po’ la norma dalla sua parte, possa affermare di meritare la deroga. In compenso, le società in house così salvaguardate dovranno rispettare il patto di stabilità interno ossia, in pratica, non potranno indebitarsi, oltre a dover rispettare una serie di vincoli tipici del sistema pubblico, dal controllo della Corte dei conti all’obbligo di bandire gare e concorsi. Come dire che potranno restare, ma non potranno operare.
Con la nostra proposta, le imprese anche pubbliche potrebbero godere di maggiori margini di autonomia strategica e di bilancio, controbilanciata però da criteri più seri per mantenere l’affidamento.
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Giovanni
Concordo pienamente con le considerazioni del prof. Massarutto, anche se non credo che sarà così facile per gli ee.ll. tenere in vita gli affidamenti in-house, nonostante il regolamento abbia allargato un po’ le maglie. Vorrei solo precisare due ulteriori sviluppi, l’uno auspicabile, l’altro meno: 1) la recente sentenza 325/2010 del 17/11/2010 ha escluso che le società pubbliche affidatarie del SII siano tenute ad applicare il patto di stabilità, dichiarando lillegittimità costituzionale dellart. 23-bis per la parte relativa a questo aspetto; 2) nella fase di pubblicazione del regolamento di attuazione del 23-bis è sparito il quarto criterio per la valutazione dell’efficienza delle società in house, quello relativo ai costi operativi, l’unico che forse aveva un qualche minimo senso; restano quindi i criteri dei bilanci in utile (quali? tutti? l’anno scorso?), del reinvestimento dell’80% degli utili (e fin qui…) e della tariffa inferiore alla media (oltre a premiare i più fortunati, questo criterio premia i gestori che fanno meno investimenti!)
La redazione
Grazie delle due precisazioni e delle segnalazioni. Mi sembra che siamo d’accordo nel sostenere che il regolamento offre più un’occasione per tirare a campare che per salvare i migliori: i criteri premieranno i più fortunati e quelli che faranno meno investimenti. Dunque, sarà un tirare a campare orientato alla mera sopravvivenza: esattamente il contrario di ciò di cui il paese ha bisogno.
Massimo Parisi
Di recente ho letto che negli States qualcuno ha cominciato a comprare fonti idriche importanti. I love America; ma sono Europeo, Italiano. Penso a sinistra ed ammiro le riforme del primo Mussolini. Penso che la mutualità (quelle vera, non quella dell’evasione fiscale) sia la migliore forma del vivere civile tra civili. E inutile ripetere quanto l’acqua sia importante per tutti i viventi; tanto quanto il sole, il vento, la riproduzione sessuale. Questo il pensiero politico. Il pensiero tecnico-economico deve realizzare la disponibilità, il più gratuitamente possibile, del Bene Universale Acqua Potabile ai terminali sociali (famiglie, ospedali, opifici alimentari, caserme, etc.) e del bene sturmentale acqua (industria, servizi) ad un prezzo che: parliamone! Certo gli investiementi per una doppia linea sarebbero importanti, e le fonti sono forse sempre le stesse. Vediamo se esistono “americani” interessati a produrre, ad un prezzo comunque amministrato, acqua strumentale; con investimenti di lungo periodo e partecipazione diffusa, tanto quanto le vecchie cartelle dei mutui di un tempo, per l’integrazione delle future pensioni. Scusate, lo spazio e la competenza sono poche.
La redazione
Purtroppo, in un modo o nell’altro, il costo lo dobbiamo pagare, come utenti che pagano le tariffe o come cittadini che pagano le tasse.
Alessadro Morini
Anzitutto volevo segnalare che in forza della sentenza della Corte Costituzionale del 17.12.2010 le società che svolgono l’inhouse non sono vincolate al patto di stabilità. Un asPetto credo debba essere segnato: MTN non è strumento di efficenza ma funzionale ai soli piani di investimento perché aggancia la remunerazione del gestore al livello degli investimenti e non ad altri interventi di efficentamento. Le gestioni in house possono poi presentare un altro rilevante rischio costituito dalla cattura del regolatore.
La redazione
Grazie anche a lei della precisazione sulla sentenza (l’articolo era stato inviato prima che essa venisse emessa, e dunque non aveva potuto tenerne conto). Il riferimento al MTN contenuto nell’articolo è alla formula econometrica per il calcolo dei costi operativi standard. Il MTN prevede che in tariffa vadano i costi operativi effettivi nel primo anno, ma poi nei successivi si imponga un efficientamento minimo obbligatorio che è tanto più elevato quanto più il costo effettivo dista da quello standardizzato. Purtroppo, questo costo standard è stato calcolato nel 1996, con dati di partenza estremamente lacunosi, e da allora mai aggiornato, sebbene la legge lo prevedesse. In ogni caso condivido la critica al MTN per gli altri aspetti da lei citati, precisando che il rischio di cattura del regolatore sussiste in ogni caso, e non solo nelle gestioni in house. Se il governo avesse dedicato più energie a fare le cose di sua spettanza (riformare il MTN, tra le altre) invece che ad immaginare improbabili palingenesi sarebbe forse stato meglio.
luigi del monte
Dato che comunque qualcuno deve pagare l’acqua (con le tariffe o con le tasse) perchè non privatizzare l’acquedotto facendone una grande infrastruttura in condominio suddivisa equamente tra gli abitanti del paese? Ovviamente questi “millesimi” sono legati alla proprietà immobiliare e affini e non alla persona. Cioè il trasferimento di quota avviene come “pertinenza” dell’appartamento. Il comune e le varie SpA ne restano fuori, i cittadini eleggono un cda, un amministratore che non deve creare utili ma deve minimizzare i costi salvaguardando gli investimenti. Forse è una provocazione ma credo che sia la cosa migliore.
La redazione
La sua proposta non è campata in aria. A livello teorico è stata più volte proposta come un’alternativa al servizio pubblico di tipo tradizionale (le segnalo in particolare alcuni contributi pubblicati su Annals of Public Sector and Cooperative Economics). Nel mondo esistono alcune esperienze del genere, in America Latina o anche in Europa: in Galles, ad esempio,l’infrastruttura idrica è di proprietà di una fondazione no-profit, e in altri casi gruppi di utenti possono optare per autogestire in proprio il servizio (es. nelle aree di nuova espansione urbana). In Italia esistono casi simili in alcune infrastrutture energetiche (es. l’impianto di
teleriscaldamento a biomasse di Dobbiaco e San Candido, in Alto Adige). Nel settore idrico, questo modello funziona già abbastanza bene per le infrastrutture al servizio delle zone di insediamento industriale, o per i consorzi di bonifica (che sono appunto dei "condomini" di agricoltori). In Olanda, enti simili ai consorzi di bonifica, le Waterschappen (anch’esse una sorta di condominio, di cui si è parte in quanto proprietari di beni immobili entro un certo territorio) gestiscono il drenaggio urbano e la fognatura. A volte può funzionare anche per i servizi urbani, ma poi ogni condominio dovrà comunque prendere le sue decisioni in qualche modo, inventando dei sistemi di rappresentanza (non credo che si potrebbero fare assemblee con un milione di condomini). Come ognuno ben sa, le
amministrazioni condominiali non sono necessariamente meglio dell’ente pubblico per quel che riguarda la propensione alla corruzione, alla collusione con i fornitori, all’inefficienza. Insomma, un’opzione in più, da prendere in considerazione come alternativa ai modelli consueti, ma non certo la pietra filosofale.
Francesco G.
Il sistema acqua sappiamo che ha bisogno di interventi. Ho letto epserienze di tipo diversi di gestione. Mi riallaccio alla discussione "condominiale". Credo che, qualunque strada gli enti locali scelgano, sia necessario trovare il modo di coinvolgere nella pianificazione, nella programmazione e nel controllo i soggetti che con e sull’acqua fondano il loro benessere e la possibilità di stare sempre meglio: i cittadini, le imprese, le associazioni, gli artigiani, gli operatori turistici, per citarne alcuni. Non è immediato trovare la formula adatta. Una formula che si potrebbe applicare ad altri servizi, anche non a rete. Vi ringrazio per gli spunti che avete fornito.
Roberta Dalmasso
Ho letto il testo del decreto Ronchi e il regolamento attuativo al quale Lei si riferisce, ma mi resta una dubbio in proposito: quando Lei afferma che il regolamento permetterebbe il mantenimento delle gestioni in house fino alla fine del contratto di affidamento (una volta dimostrato che tale opzione non risulta distorsiva della concorrenza, ossia non competitivamente svantaggiosa per i cittadini), si riferisce al fatto che esse possono concludersi secondo i termini previsti dal contratto purché cedano almeno il 40% del capitale a soggetti privati, secondo il comma 8 della legge 166/2009? Oppure è ancora possibile il mantenimento delle gestioni in deroga all’affidamento ordinario anche senza il vincolo della cessione delle quote? La ringrazio per la precisazione, Roberta Dalmasso
La redazione
Secondo il decreto, la gestione in house può essere mantenuta così com’è, senza cedere il 40% e arrivando alla scadenza naturale dell’affidamento inizialmente previsto, se ricorrono i presupposti per ottenere la deroga di cui al comma 3. Nel testo della legge tale deroga era trattata come qualcosa di eccezionale, subordinata per giunta a un parere dell’Autorità garante per la concorrenza. Si parlava di "situazioni eccezionali che a causa delle particolari caratteristiche del territorio servito non consentono un efficace ricorso al mercato". Ma nel regolamento attuativo approvato a settembre, vengono stabiliti requisiti molto più laschi: basta avere la tariffa inferiore alla media nazionale e i bilanci in ordine.
Con questo criterio, buona parte delle gestioni in house, soprattutto al nord, sarà legittimata a richiedere la deroga. Tuttavia, come ho provato a spiegare nell’articolo, si tratta di una norma "libera tutti" che in realtà non premia le gestioni efficienti, bensì quelle fortunate, o quelle che non fanno investimenti, e grazie a questo hanno tariffe basse pur coprendo i costi.