L’accordo tra i ministri dell’Economia e delle Finanze dei paesi dell’area euro sulla riforma del Patto di stabilità e crescita ribadisce che sarà rafforzato non solo il vincolo sul deficit ma anche quello sul debito. Che però sono legati fra loro. E dunque una adeguata diminuzione del primo è condizione sufficiente per ridurre il secondo. Mentre un irrigidimento del vincolo sul debito potrebbe avere diversi effetti negativi e non serve neanche a rassicurare i mercati.
L’accordo tra i ministri dell’Economia e delle Finanze dei paesi dellarea euro sulla riforma del Patto di stabilità e crescita ribadisce che sarà rafforzato non solo il vincolo sul deficit, ma anche quello sul debito. E le sanzioni scatteranno anche nel caso in cui quest’ultimo non si riduca in modo adeguato.
La motivazioni addotte per questa scelta sono quelle sottolineate da Marco Buti e Martin Larch: prima e soprattutto nel corso della crisi, la dinamica del debito pubblico è stata guidata in misura sempre maggiore da fattori diversi dal deficit e il parametro del 3 per cento del Pil sul deficit non sarebbe più sufficiente a garantire un calo del rapporto debito/Pil.
DEFICIT E DEBITO SONO SEMPRE MENO LEGATI TRA LORO?
La variazione del debito tra l’anno t-1 e l’anno t è pari (a meno di alcuni fattori residuali) al fabbisogno finanziario dell’anno t e non al deficit. Il fabbisogno è il saldo tra entrate e spese, però, a differenza del deficit, è un saldo di cassa che include anche il risultato delle operazioni finanziarie che non entrano nel deficit (oltre alle operazioni effettuate dagli Stati per conto dell’Unione Europea). In realtà, nell’area euro la variazione annuale del debito, sino al 2007, è stata quasi sempre strettamente legata all’ammontare dei deficit. Il risultato delle operazioni finanziarie e gli altri fattori hanno inciso in misura trascurabile sull’aumento del debito. È solo con lesplosione della crisi, nel 2008, che gli Stati sono stati costretti a erogare ingenti somme di denaro al sistema finanziario in cambio di titoli, facendo crescere la quota di debito attribuibile alle operazioni finanziarie e riducendo molto l’incidenza del deficit sulla variazione del debito. In altre parole, durante l’ultimo decennio, la variazione del debito è rimasta strettamente legata al deficit se si escludono le risorse destinate a sostenere le banche e altre frizioni che hanno avuto un impatto occasionale.
In un contesto di questo tipo non è sicuro che imporre sia un vincolo sul deficit sia uno sul debito abbia senso. Se deficit e debito sono legati, una adeguata diminuzione del primo è condizione sufficiente per ridurre il secondo (sempre che non vi siano altre crisi bancarie) e costituisce la via principale per farlo. A conferma di ciò diversi economisti (Paolo Manasse, Giuseppe Pisauro) si sono affrettati, per l’Italia, a tradurre la regola sul debito in termini di deficit.
Un vincolo aggiuntivo sul debito avrebbe invece l’effetto di bloccare per il futuro ogni possibilità di sostegno alle banche che fossero in difficoltà (per i paesi con debito oltre la soglia del 60 per cento del Pil, circa la metà dei 27). Dal punto di vista dei contribuenti, questo sarebbe certamente auspicabile ma, per quanto la nuova regolamentazione sia restrittiva, non è da escludere che in futuro sia necessario aiutare di nuovo le banche e finché non si elabora una soluzione alternativa, temo che toccherà ancora ai governi farlo.
Inoltre, non sembra logico imporre il vincolo sul debito per quei paesi che lo hanno aumentato solo per effetto del sostegno alle banche. Li costringerebbe a cedere il più in fretta possibile i titoli acquisiti per ridurre il debito pubblico e non incorrere nelle sanzioni, senza tener conto del momento più conveniente per farlo. Le passate crisi bancarie mostrano che i tempi di recupero dei capitali pubblici erogati alle banche sono molto diversi tra paesi e nelle diverse crisi. (1)
Il rischio è che per non incorrere nelle sanzioni, i governi siano obbligati a svendere le partecipazioni.
D’altra parte, l’obiettivo ultimo del Patto deve essere quello di prevenire gli effetti negativi che conti pubblici fuori controllo possono produrre nel singolo paese in difficoltà e negli altri paesi membri. Il principale tra questi è l’aumento dei tassi di interesse legato al rischio di insolvenza degli Stati. Le analisi empiriche mostrano che l’aumento del debito ha effetti molto inferiori sul tasso di interesse di quanto non ne abbia il deficit. (2)
A conferma di ciò, quest’anno, lo spread nel rendimento dei titoli di Stato a dieci anni rispetto al rendimento dei Bund tedeschi è cresciuto in Irlanda, Portogallo e Spagna, molto più di quanto non sia cresciuto in Italia. Ma il debito pubblico di Irlanda, Portogallo e Spagna è molto inferiore al debito italiano. Viceversa, tutti e tre i paesi hanno registrato nel 2009 deficit molto più consistenti dellItalia.
Forse è sufficiente rendere più stringente il vincolo sul deficit, come ha correttamente proposto la Commissione, soprattutto nelle fasi cicliche positive. Si possono prevedere sanzioni più onerose, per i paesi che violano il limite sul deficit avendo un debito pubblico oltre la soglia del 60 per cento. Sembrerebbe una soluzione più razionale di quella sinora prospettata.
(1) Negli Usa, la vendita delle partecipazioni negli istituti finanziari acquisite nel 2008-2009 è stata avviata da tempo e sta fruttando elevate plusvalenze, ma ha riguardato solo le partecipazioni il cui valore di borsa era superiore all’investimento pubblico iniziale. Le altre partecipazioni verranno tenute sino a quando non risulti conveniente venderle (per questa ragione non sono state ancora vendute le partecipazioni acquisite in City).
(2) Le ultime stime del Fondo monetario indicano che per un aumento di un punto di Pil del deficit si registra, nel medio periodo, un aumento di 20 punti base nei rendimenti dei titoli di Stato mentre un identico aumento nel rapporto debito/Pil fa crescere il rendimento di soli 5 punti base (IMF, The state of public finances cross country. Fiscal monitor: November 2009).
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Massimo Corsi
Dato che non sono un esperto di conti pubblici vorrei chiedere dei chiarimenti rispetto al nuovo patto di stabilità riguardante il debito pubblico di uno stato UE: questione che verrà affrontata al prossimo ECOFIN. Si vocifera che una decisione potrebbe essere quella di portare il debito pubblico di uno stato UE al 60% del suo PIL. Dai dati MEF il PIL italiano 2009 è di 1520,870 mld di Euro. Ammettendo una crescita annua dell’1% per gli anni 2010-13 il PIL dovrebbe essere circa 1582.623 mld di Euro. Se l’ECOFIN decide per la soglia del 60%, il debito pubblico italiano dovrà essere a fine 2013 di circa 949,574 mld di Euro. Dato che il debito pubblico per il 2010 è di circa 1820 mld di Euro (se non maggiore) lo stato italiano dovrà cercare circa 287,670 mld all’anno per i prossimi tre anni per rispettare il vincolo UE. (Si parla anche di una rateizzazione decennale, che comunque porterebbe la cifra annua ad oscillare tra i 70 e gli 80 mld di Euro). Queste cifre mi sembrano molto alte e sproporzionate rispetto a quanto leggo sui giornali. Vorrei chiedere quale sia il calcolo giusto da fare: o comunque cosa occorre tenere in considerazione per questo tipo di calcoli. Grazie.
La redazione
Il vincolo indicato nella proposta della Commissione europea richiede che i paesi che hanno il rapporto debito/PIL maggiore della soglia del 60% devono ridurlo ad una passo di almeno 1/20 l’anno che verrà valutato su un periodo di tre anni. Non è ancora chiaro se e da quando verrà applicato il vincolo.
Se lo fosse a partire dal 2012 l’anno base sarebbe il 2011. In questo anno la Commissione indica che il rapporto debito/PIL è pari al 120,2%. Quindi nel 2012 l’Italia dovrebbe ridurre il suo debito di circa 3 punti di PIL e arrivare a fine anno con un debito pari al 117,2. L’anno dopo si dovrebbe ricalcolare la differenza tra 117,2% e 60% e il debito si dovrebbe ridurre di 1/20 della differenza che è pari a 2,9 punti di PIL e così via. Essendo il vincolo asintotico non si arriva mai alla soglia del 60%. Diciamo che
per portare il debito sotto il 65% del PIL si dovrebbe aspettare il 2060. Un tempo abbastanza lungo.
adriano velli
L’accurata analisi di Alessandro Fontana non fa una grinza. I dati del commento di Corsi sono sostanzialmente giusti. Entrambi dimostrano purtroppo che nelle riunioni fra Eurogruppo e ministri Ecofin si è ormai superata la soglia del delirio. E’ questo il vero problema dell’Euro. Per quanto riguarda l’Italia vale forse la pena di ricordare che il nostro paese è entrato nell’Euro con un debito pari al 130 per cento del Pil contro il sessanta previsto dal trattato di Mastricht. Non si può certo dire che l’allora presidente della Buba Hans Tietmayer, il cui assenso è stato determinante, sia stato superficiale o sprovveduto. In realtà sapeva benissimo che in in Italia c’erano tutte le risorse finanziarie per sottoscrivere interamente il debito e perfino delle eccedenze. E’ anche vero che il nostro paese si era impegnato a un piano di convergenza che si è puntualmente avverato con il debito sceso in pochi anni al 104 per cento del Pil. Ora è risalito al 120 per il solo effetto della crisi finanziaria che ha determinato un decremento del denominatore, appunto il Pil. Credo che qualsiasi persona sana di mente possa giudicare l’opportunità di interventi sul debito in questo momento.
La redazione
In verità non siamo entrati nell’euro con un debito pubblico del 130% del PIL ma del 105,7%. La riduzione forte del debito si è avuta prima di entrare nella moneta unica, negli anni 90. Nel 1994 il debito era pari al 121,8% del PIL, il valore più elevato registrato negli ultimi 50 anni. In verità dall’entrata nell’euro è stato fatto ben poco per far scendere ancora il debito e con la crisi sta tornando ai massimi storici. Andava fatto di più negli anni 2000 e molto va fatto ora.
angelo
Io credo che le sanzioni siano insufficienti l’Europa deve prevedere di commissariare quei paesi, quelle amministrazioni a vari livelli con dirigenti nuovi anche di paesi diversi da quello da commissariare. Sarebbe una proposta da inoltrare al governo europeo?
La redazione
Non è possibile commissariare un paese sulla base dei trattati attuali. E quindi non è possibile riformare il patto in questo senso poiché i trattati lo vietano. La modifica dei trattati richiederebbe un voto di conferma da parte dei cittadini dei paesi membri e questo al momento è da escludere perché niente fa pensare che sarebbe positivo. La riforma del Patto procede quindi nell’ambito di paletti ben definiti. Come sanzione estrema quella del commissariamento sarebbe ragionevole, viste le esternalità negative che la crisi di un paese può produrre negli altri paesi membri ma è molto forte. In realtà sarebbe sufficiente svincolare la valutazione della politica di bilancio (quella sui deficit e debiti eccessivi) e le decisioni in merito alle sanzioni (anche quelle attuali) da organismi intergovernativi come l’Ecofin. I Ministri delle finanze sono restii a
comminare sanzioni a paesi i cui responsabili della politica economica sono colleghi dello stesso organismo. Se però le decisioni sulle sanzioni e sulla valutazione dei conti pubblici vengono delegate a un organismo terzo rispetto ai governi nazionali, questi ultimi, di fatto, perdono parte della loro sovranità sulla politica fiscale. Questo è il punto che non si riesce a superare anche perché l’organismo che dovrebbe essere deputato a svolgere queste funzioni, la Commissione europea, non sempre è sembrato adeguato a svolgere questo ruolo.
m.giberti
Ho letto con preoccupazione l’ultimo editoriale di Eugenio Scalfari su Repubblica del 19/12 Sono sempre più stupito che la finanza internazionale sia così indifferente alla nostra situazione debitoria e così allarmata per la situazioni di paesi come Portogallo e Spagna che hanno un rapporto PIL/ Debito più basso del nostro ed un debito pro capite inferiore. Mi viene un dubbio: non sarà che gli speculatori internazionali sono talmente esposti sul nostro debito che preferiscano non svegliare il cane che dorme? Forse per questo Tremonti continua a non preoccuparsi ed anzi lascia correre il debito verso valori allucinanti? Prima o poi però la situazione scoppierà ed allora, altro che Grecia! Vorrei far notare che il nostro Presidente del consiglio continua bugiardamente a vantare per le nostre emissioni un rating AAA mentre se uno controlla su qualsiasi fonte il rating risulta un A stentato. M.Giberti
Giuseppe Bonora
Mi permetto solo di fare da profano una considerazione: mi sembra che il tutto stia in piedi nella misura in cui le banche, dopo essere state irrorate di denaro da parte degli Stati, ritornino ad essere sane e quindi emittenti solvibili. Diversamente gli Stati hanno oggi un credito (titoli acquistati) che rischia di rimanere inesegibile. Cordiali saluti