I finanziamenti statali allo spettacolo hanno raggiunto nel 2009 i livelli del 1985 in termini nominali. In termini reali lo stanziamento annuale si è praticamente dimezzato in venticinque anni. Eppure è stato mostrato che esistono ricadute economiche positive dirette e indirette dal consumo di spettacolo. Affidarsi esclusivamente ai meccanismi di mercato porterebbe alla sopravvivenza solo delle produzioni più popolari o commerciali. Ecco perché in molti paesi occidentali l’intervento dello Stato in questo settore è generalmente considerato necessario e fondamentale.
Nel 1786 Domenico Cimarosa compone una farsa per musica, L’impresario in angustie, che narra le vicende di un impresario teatrale alle prese con rivalità e conflitti fra il compositore, le cantanti e il librettista per la messa in scena di una nuova opera. La farsa si conclude con la bancarotta dell’impresario e la chiusura del teatro, ponendo fine in questo modo anche ai litigi tra i diversi personaggi.
FONDI: DA UNA PIZZA AL MENÙ MCDONALDS
Guardando alle proteste di questi giorni per l’ennesimo taglio al Fondo unico per lo spettacolo (Fus) l’epilogo dell’opera di Cimarosa sembra riproporsi: mentre imperversa la bagarre fra operatori, politici e governo la situazione dei teatri appare al collasso. Analizzando i dati forniti dal ministero per i Beni e le attività culturali, infatti, si scopre che i finanziamenti statali al settore hanno raggiunto nel 2009 i livelli del 1985 in termini nominali, mentre in termini reali lo stanziamento annuale allo spettacolo si è praticamente dimezzato in venticinque anni.
Se si considera quanto costa in un anno il mantenimento dei teatri per ogni singolo cittadino si scopre che mentre nel 1985 ogni cittadino rinunciava all’equivalente attuale di una serata all’anno in pizzeria, nel 2010 il ministero pensa che ogni cittadino valuti l’utilità dell’esistenza di teatri dopera, di istituzioni musicali, di prosa, di compagnie di danza e della produzione di film italiani quanto il consumo di un menù completo da McDonalds con gelato come dessert.
Ma è davvero questo il livello di utilità che ogni cittadino trae dall’esistenza dei teatri italiani?
I BENEFICI DELL’INVESTIMENTO PUBBLICO IN CULTURA
In effetti l’esistenza di una motivazione razionale nel supportare la produzione e distribuzione di spettacoli dal vivo deriva dalla presenza di benefici che non sono goduti privatamente dallo spettatore teatrale, ma dalla collettività in generale.
È stato mostrato che esistono ricadute economiche positive dirette e indirette dal consumo di spettacolo, come ad esempio la diminuzione dei livelli di disoccupazione, l’incremento dell’attrattività turistica di un determinato territorio, i benefici goduti dalle cosiddette creative industries (moda, design, agenzie di pubblicità e così via) o dall’indotto dei teatri.
In secondo luogo, esisterebbe un beneficio di cui godrebbero le generazioni future. I consumatori attuali, sostenendo e frequentando oggi i teatri, rendono possibile la pratica di alcuni tipi e tecniche teatrali nel presente permettendo che queste non vengano dimenticate (e possano quindi essere godute) in futuro.
Infine, un’ultima serie di ragioni che motivano la non desiderabilità dell’offerta esclusiva di spettacolo attraverso il meccanismo del mercato è riconducibile al fatto che un sistema del genere porterebbe alla sopravvivenza unicamente delle produzioni più popolari o commerciali. Questo farebbe venir meno di alcune importanti caratteristiche del settore e in primis della libertà espressiva degli artisti, soffocati dalla necessità di appiattirsi sui gusti della domanda. Come dimostrato da molti economisti il fenomeno si manifesta nei grandi teatri d’opera americani, che raggiungono un pareggio economico solo puntando sul tutto esaurito e quindi su opere del repertorio classico (Puccini, Verdi, Rossini) che incontrano il maggior favore di pubblico.
Ovviamente, da sempre, esistono forti critiche all’intervento dello Stato nel settore: ad esempio, il sostegno statale all’arte tipicamente vincolato a determinati parametri, magari decisi da qualche burocrate o politico, non necessariamente illuminati, potrebbe minacciare la libertà di espressione quanto o più della temuta tirannia del mercato. Inoltre, è noto che il finanziamento all’arte, nei modi in cui viene di norma realizzato, può presentare aspetti regressivi (i più poveri, attraverso il pagamento dei tributi contribuirebbero a sostenere le istituzioni culturali frequentate di solito dai più ricchi).
Tuttavia, l’analisi delle modalità in cui le politiche culturali si sono sviluppate in diversi paesi occidentali dimostra come, in forme più o meno estese, l’intervento dello Stato in questo settore sia stato generalmente considerato come necessario e fondamentale. O perlomeno produca per i cittadini un beneficio superiore a un pranzo completo da McDonalds.
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Michele
Sono contento che in questo articolo si sia sottolineato il limite insito nell’affidare il destino dell’arte, in genere, e del teatro, in particolare, alle sole leggi del mercato. In altre occasioni (anche su questo sito, per la verità) mi è capitato di leggere pareri del tutto contrarie che mi hanno trovato in disaccordo. Non mi si fraintenda: la mia opinione è che, in realtà, non si possa prescindere nè dall’intervento dello Stato nè dalla "mano invisibile" tenendo conto che stiamo parlando pur sempre di un bene pubblico come la cultura. Purtroppo il problema, a mio avviso, sta a monte e cioè nella costruzione di un pensiero critico nell’opinione pubblica, che troppo spesso preferisce una pseudo-cultura finalizzata solo a distrarre e mai a formare. La scarsa consapevolezza di sè, della propria storia e delle proprie origini costituiscono il terreno fertile di slogan più o meno espliciti (di sicuro ben visibili nella non azione concreta di questo governo) quali " La cultura non dà da mangiare!". Qui a scioccare non è tanto la miopia di discorsi di questo tipo quanto la mancanza di indignazione dell’intera società civile.
Stefano
Dato che per molti il punto centrale di tutta la questione sta nel ritorno economico dell’offerta culturale (gli investimenti in cultura sono una perdita per lo Stato o ci si guadagna?) sarebbe opportuno fornire qualche riferimento bibliografico quando si afferma genericamente che "È stato mostrato che esistono ricadute economiche positive dirette e indirette dal consumo di spettacolo".
Marcello Battini
Sarò molto breve, ma esplicito. Non sono contrario all’intervento pubblico, a prezzi di mercato, per creare e conservare le infrastrutture necessarie (teatri). Ma gli attori, registi e compagnia bella, devono essere solo ed esclusivamente pagati tenendo conto dei ricavi del botteghino. Forse, in questo modo, alcuni personaggi, non so quanto bravi, o fortunati, potrebbero guadagnare meno di un lavoratore metalmeccanico. Bene, se insoddisfatti, possono sempre fare un altro mestiere, magari il metalmeccanico.
marotta giuseppe
Il problema è in chi dal dopo guerra ad oggi ha gestito la cultura in questo paese, dilapidando risorse umane ed economiche con la sua palese insipienza, con la complicità di parte dei lavoratori che hanno vissuto di privilegi non suffragati da nessun contratto nazionale. Tutto ciò ha determinato lo sfascio a cui oggi assistiamo!
Guido
Siamo in una fase di grave crisi per le finanze pubbliche, e da qualche parte si deve pur tagliare. Sono decenni ormai che la cosiddetta "arte" viene definita tale solo sulla base dei canoni personalissimi di qualche critico, staccandosi completamente dal sentire comune. Invece quando l’arte era tale in termini oggettivi e non soggettivi, il "mercato" la premiava. Purtroppo ora inoltre non esistono più i mecenati privati (i quali, da bravi ricchi, pagavano solo ciò che piaceva loro, e ciò che li appagava spesso si avvicinava proprio al gusto comune, o piuttosto ai canoni classici, invece che alle predilezioni di una ristretta cerchia di "intellettuali" autoproclamatisi arbitri elegantiae allo scopo di educare lo sprovveduto volgo, di cui spesso si dicono paladini nonostante il loro profondo disprezzo), e il "mecenate statale" non è in grado di sovvenzionare l’arte se non a pioggia o sulla base di clientele. A questo punto, sarebbe meglio nessuna sovvenzione (come, in fin dei conti, avviene in USA).
Alex Turrini
Non entro nelle opinoni manifestate e ringrazio dei commenti. La dimostrazione che esiste un impatto economico dello spettacolo è supportata da alcuni studi pubblicati su varie riviste internazionali. Molti di questi sono riassunti e commentati in Snowball, J. "Measuring the value of culture", Springer. Un’altra fonte è il manuale di Heilbrun J. e Gray, C. "The Economics of Arts and Culture", Cambridge University Press.
Elisabetta Lazzaro
Ritengo riduttivo, se non fuorviante, attribuire all’arte solo una ricaduta economica. Il bene pubblico arte (per cui ha senso l’intervento dello Stato) ha prima di tutto valore culturale – cosa saremmo senza cultura, cioe’ simbolo, identita’, appartenenza, e le loro necessarie rappresentazioni? – ed educativo. Da cui anche la lungimiranza (ahime’, ben oltre le normali scadenze dei mandati di chi ci governa) che si avrebbe nell’incentivare la formazione artistica nelle generazioni piu’ giovani (esistono diversi studi empirici che provano la maggiore domanda in eta’ successiva, e quindi maggiore sostenibilita’ di mercato, di chi in giovane eta’ ha ricevuto un’educazione artistica). Non da ultimo, l’arte ha anche valore sociale, in quanto supporto alla coesione sociale, e al riconoscimento e rispetto del diverso. La presunta limitatezza del repertorio dei teatri statunitensi va sfatata. Piuttosto, almeno in quelli di qualita’ medio-alta, viene applicata una differenziazione del portafoglio dell’offerta, affiancando a opere consolidate, nuove creazioni, e incentivandone, quindi, anche gli autori.
Alex Turrini
Sono d’accordo che le esternalità positive che si hanno dal consumo e produzone di spettacolo sono molteplici e peraltro su quelle non economiche c’e’ una consapevolezza e un accordo generale (basti guardare ai molteplici studi di WTP nel settore). Per quanto riguarda il conformismo dei teatri d’opera americani si veda, fra l’altro, lo studio di James Heilbrun (2001) "Empirical Evidence of a Decline in Repertory Diversity among American Opera Companies 1991/92 to 1997/98" Journal of Cultural Economics, Vol 25, 1, 63-72.
Guido Di Massimo
Sarebbe interessante conoscere l’elenco delle opere finanziate finora dallo Stato, l’entità dei finanziamenti e l’accoglienza avuta da pubblico e critica delle opere finanziate. Non penso che nel dopoguerra lo Stato abbia avuto la possibilità di finanziare qualcosa ma abbiamo avuto film magnifici; ricordo invece di aver letto in anni successivi di finanziamenti scandalosi a cortometraggi che nessuno ha mai visto e finiti immediatamente in archivi. Finanziamenti decisi tra l’altro da burocrati ignorantissimi e in modo clientelare. Aggiungo che invece di parlare di finanziamento dello Stato faremmo bene a parlare sempre di dirottamento dei soldi dei contribuenti verso un fine o un altro. Lo Stato non ha soldi suoi: ha i soldi dei contribuenti. Per favorire la cultura lo Stato potrebbe benissimo e a mio parere dovrebbe – intervenire fiscalmente, sia detassando in modo sensibile le donazioni a enti ritenuti culturalmente degni sia non intervenendo direttamente o indirettamente con balzelli ed altri costi su chi produce arte. Ma l’arte deve essere libera, anche (o innanzitutto?) dallo Stato. Guido Di Massimo
Marcello Miccoli
1. Andrei cauto con l’affermare che esistono "dimostrazioni" delle ricadute economiche positive del consumo di spettacolo. Sicuramente esistono correlazioni tra tasso di disoccupazione e numero di biglietti venduti per un teatro, tuttavia la causalità è più probabile che veda dalla minore disoccupazione al maggiore numero di biglietti venduti che viceversa. Idem per le altre variabili citate. 2. Sono sicuramente enormi i vantaggi nel presente e futuro della presenza di un’offerta culturale in un paese. Tuttavia questo non è un argomento sufficiente per dire che lo stato dovrebbe inondare di fondi la cultura. In particolare non è chiaro perché seguire il mercato porta ad un appiattimento dell’offerta. Ogni teatro potrebbe fare un cartellone bilanciato tra opere molto famosi e popolari e "scommesse", le prime richiamerebbero molto pubblico e finanzierebbero la realizzazione delle seconde. Seguendo questa logica, il finanziamento statale potrebbe essere dato per biglietti venduti. Se ci si preoccupa di un appiattimento dell’offerta si potrebbe sempre introdurre un limite di effettuare almeno due opere a stagione di nuovi artisti, o di opere non famose, per mantenere una certa varietà.