La legge antitrust ha rappresentato un importante punto di svolta dell’economia e della regolazione italiane. Tuttavia, il nostro paese è caratterizzato da una imprenditoria diffusa e da una quota elevata di piccole e medie imprese, non sempre attente a questo tipo di norme. Ciò implica che le pratiche di cartello, probabilmente diffuse come altrove, siano messe in atto senza una piena consapevolezza del fatto che sono vietate e che comportano sanzioni elevate, se scoperte. Per questo sarebbe utile promuovere attivamente la cultura della concorrenza. Il caso Alitalia.
Si è festeggiato in queste settimane il ventennale dell’insediamento del primo collegio dell’Autorità antitrust, appena un mese dopo l’entrata in vigore della legge istitutiva.
UN LEGISLATORE LUNGIMIRANTE
La prima sede, come amava ricordare l’allora presidente Francesco Saja, era in un sottoscala del ministero dell’Industria. Non esistevano regolamenti di procedura. Non c’era il personale. L’unico supporto applicativo, fermamente voluto da Franco Romani, era un provvidenziale riferimento ai principi comunitari nell’interpretazione della norme sostanziali. Di conseguenza, la nuova legge nasceva con una giurisprudenza trentennale, quella comunitaria, eliminando di colpo numerose possibilità di contenzioso che ne avrebbero bloccato l’applicazione per anni.
Oltre all’adozione di questo standard interpretativo, successivamente introdotto in numerose legislazioni antitrust europee, gli elementi positivi della nuova legge erano tanti. L’indipendenza, che poneva le decisioni dell’Autorità sotto il solo controllo del giudice, l’autonomia organizzativa e la flessibilità nella gestione delle risorse e, infine, il potere di intervenire nel processo di formazione legislativa e regolamentare con pareri e suggerimenti, anche questo un elemento di novità poi ripreso da tante normative antitrust nazionali, diventando oltre dieci anni dopo un modello di riferimento della Rete internazionale della concorrenza (l’International Competition Network).
Il legislatore nazionale era stato lungimirante e l’Autorità in questi venti anni ha risposto con efficienza, entusiasmo e rigore alle possibilità d’intervento previste dalla legge. Non è questa la sede per elencare i tanti procedimenti e segnalazioni effettuati. Basta ricordare che la legge antitrust ha rappresentato un punto di svolta dell’economia e della regolazione italiane che ne sono risultate trasformate. E per il meglio.
PER UNA CULTURA DELLA CONCORRENZA
In due circostanze la pratica è stata diversa da quella prevista dal legislatore.
Innanzitutto, la legge prevedeva un ruolo di centocinquanta persone a cui si aggiungeva la possibilità di assumerne cinquanta a tempo definito. È chiaro che nella logica della legge le cinquanta persone a tempo definito avrebbero dovuto ricoprire ruoli specialistici di volta in volta necessari per le indagini. Se così fosse stato fatto, l’Autorità sarebbe potuta divenire una fucina di nuove professionalità, favorendo l’interazione con l’università, con le professioni, col resto dell’amministrazione e promuovendo anche all’esterno una cultura della concorrenza ancora troppo confinata al proprio interno. Invece, è stata sempre seguita la prassi dei primi anni (anche perché sono aumentati nel tempo i compiti dell’Autorità, ma non altrettanto le dotazioni di personale) per cui le posizioni a contratto sono una sorta di periodo di prova per l’entrata in ruolo, di fatto trasformando il contenuto della previsione normativa che non era stata pensata solo per il periodo iniziale.
La legge prescriveva poi che la relazione annuale venisse inviata al presidente del Consiglio dei ministri che aveva un mese di tempo per inoltrarla al Parlamento e renderla pubblica. La relazione annuale doveva cioè essere presentata al Parlamento accompagnata da riflessioni, commenti o suggerimenti del presidente del Consiglio (altrimenti perché attendere un mese?), anticipando quanto è stato previsto formalmente quasi venti anni dopo attraverso l’introduzione della legge annuale sulla concorrenza, peraltro non ancora elaborata.
Se queste due previsioni della legge istitutiva fossero state applicate come immaginato, ne avrebbe giovato la cultura della concorrenza del paese, ancora oggi poco sviluppata.
A differenza di altri paesi europei, infatti, l’Italia è caratterizzata da una imprenditoria diffusa e da una quota elevata di piccole e medie imprese non collegate ai grandi studi legali internazionali e pertanto meno attente alla normativa antitrust. Ciò implica che le pratiche di cartello, probabilmente diffuse nel nostro paese non meno che altrove, siano poste in essere senza che le imprese coinvolte siano del tutto avvertite del fatto che sono vietate e che una eventuale loro scoperta potrebbe condurre a sanzioni elevate. Difatti, le imprese italiane si avvalgono molto raramente di istituti, come quello della clemenza, ampiamente utilizzati in altri paesi quale strumento di emersione di pratiche vietate, altrimenti segrete.
Un’azione capillare di sensibilizzazione sul territorio sarebbe molto utile, per esempio organizzando presentazioni e dibattiti nei diversi capoluoghi di Regione. Per assicurare che le imprese conoscano le regole dell’antitrust non basta diffondere le decisioni dell’Autorità sul sito web e sui giornali, ma occorre promuovere attivamente la cultura della concorrenza, anche con progetti dedicati che coinvolgano aziende e professionisti.
Una strategia di comunicazione volta a favorire il rispetto della normativa antitrust è ancora pienamente attuale. Infatti in un periodo di crisi economica gli incentivi delle imprese alla formazione dei cartelli di prezzo e alla ripartizione dei mercati aumentano, con svantaggi crescenti per i consumatori. La promozione della conoscenza della normativa antitrust presso le piccole e medie imprese e presso i commercialisti, i loro consulenti privilegiati, diviene perciò ancora più importante e, permettendo un accresciuto ricorso ai programmi di clemenza, consente una più efficace azione repressiva da parte dell’Autorità di pratiche che non trovano alcuna giustificazione possibile.
IL CASO ALITALIA
La naturale maggiore concentrazione dei mercati, anch’essa originata dalla crisi economica, tende a favorire il diffondersi di contesti oligopolistici. In questa prospettiva, l’affinamento delle tecniche di analisi degli effetti di coordinamento nella valutazione delle concentrazioni, anche in modo non necessariamente conforme ai principi comunitari, potrebbe consentire all’Autorità una maggiore incisività nell’evitare le restrizioni concorrenziali derivanti da operazioni che non conducono alla creazione o al rafforzamento di una posizione dominante singola.
Il controllo delle concentrazioni rimane infatti strategico per il mantenimento della concorrenzialità dei mercati. Molti hanno criticato l’intervento normativo volto a sottrarre al controllo dell’Autorità la fusione tra Alitalia ed AirOne e ne hanno concluso che in Italia esiste un diffuso fastidio sull’applicazione delle regole antitrust. In realtà quell’eccezione può essere in parte giustificata, sia pure nelle situazioni applicative concretamente previste. Sebbene il possesso di diritti di decollo e di atterraggio in aeroporti coordinati rappresenti un valore enorme per le compagnie aeree che li detengono, un loro rilascio deve essere effettuato per legge a titolo gratuito. Di conseguenza rimedi antitrust, volti a ristabilire condizioni concorrenziali nei mercati tramite un obbligo di rilascio di questi diritti, sono sostanzialmente un esproprio. Da qui la necessità di una grande cautela nelle modalità applicative, soprattutto nei casi di acquisizione di imprese. Diverso è il caso delle alleanze strategiche dove il rilascio degli slot rappresenta in qualche maniera il prezzo pagato per l’alleanza.
C’erano altre possibilità per autorizzare la concentrazione tra Alitalia e AirOne con misure non troppo penalizzanti per gli acquirenti. Per esempio tramite una più ampia applicazione dell’eccezione dell’impresa fallita che consente alle autorità antitrust di autorizzare una concentrazione altrimenti vietata, ma i tempi rapidi con cui la privatizzazione è stata decisa, la mancanza di alternative ai compratori e la necessità di dare certezza agli investitori su quello che acquistavano non ha consentito una più pacata riflessione sulle alternative possibili.
Il guaio dell’eccezione Alitalia è che in futuro altri, probabilmente meno meritevoli, richiederanno un intervento analogo. In tali casi, sarà molto difficile resistere. Il precedente sarà come un macigno, ossia quasi impossibile da superare. È questo il rischio che occorreva evitare.
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Paolo Campagnolo
Ho letto con interesse il suo articolo ed essendo convinto che la concorrenza sia strumento di crescita ed innovazione non riesco ancora a capacitarmi del perché l’autorità antitrust non sia riuscita ancora a scardinare quell’intrico di norme che consentono a determinati soggetti di estrarre ricchezza dai propri concittadini in maniera nettamente superiore alla loro effettiva capacità. Ad esempio, e non solo, tutti quegli ordini professionali, Notai e Farmacisti su tutti, che pur essendo associazioni private ricevono dalla legge benefici, dal numero chiuso al tariffario, che di fatto limitano la concorrenza e garantiscono loro rendite elevate.
La redazione
Concordo col suo giudizio sulla regolazione. Tuttavia, la legge antitrust disciplina i comportamenti restrittivi della concorrenza delle imprese, ma non consente all’Autorità di modificare o di abolire eventuali norme che obblighino le imprese ad adottarli. Il legislatore del 1990 era avvertito del problema e ha dotato l’Autorità del potere di intervenire nel processo legislativo con segnalazioni e pareri volti a suggerire l’introduzione di regolazioni meno protezionistiche e più orientate alla concorrenza e al mercato. Spetta poi alla politica convincersi della bontà delle soluzioni proposte. Molte delle segnalazioni effettuate dall’Autorità nel corso degli anni hanno riguardato le professioni. Esse sono state sostanzialmente ignorate finché nel 2006 l’allora ministro Bersani si ispirò ad alcune di esse per abolire i minimi tariffari nelle professioni, consentire ai professionisti la pubblicità e liberalizzare la vendita dei farmaci da banco. Purtroppo queste liberalizzazioni, che tanti benefici hanno portato ai consumatori (minori prezzi e più ampia informazione sui servizi professionali, maggiore disponibilità e più bassi prezzi dei farmaci da banco), sono oggi sottoposte a una profonda revisione volta a reintrodurre le ingiustificate protezioni del passato. Speriamo che la concorrenza e il buon senso prevalgano.
Italo Zanotti
Penso, anzi ne sono sicurissimo, che le imprese italiane, quando decidano di attuare pratiche di cartello, siano consapevoli di fare un “gioco sporco”! Nel 2011 non è più accettabile trovare sempre giustificazioni per comportamenti scorretti e in malafede nei confronti dei consumatori. Altrettanto inconcepibile istituire una legge apposita e il suo collegio senza dotarlo di personale e mezzi sufficienti. Il solito problemino di questo paese: chi, come, quando e come verifica il rispetto delle leggi?
La redazione
Il problema dei cartelli è che senza la cooperazione (l’autodenuncia) dei partecipanti possono essere scoperti solo con grande difficoltà. Nell’Unione europea i programmi di clemenza sono stati un grande successo (hanno condotto alla scoperta di decine di cartelli negli ultimi anni), ma hanno riguardato nella larghissima maggioranza dei casi solo grandi imprese. Nel caso dell’Italia, il programma di clemenza esiste ed è anche molto ben articolato. Purtroppo è scarsamente utilizzato. Secondo me anche perché le piccole e medie imprese non ne conoscono a sufficienza l’esistenza.
Franco Benincà
La regolazione della concorrenza deve essere aggiornata e non solo collegata alle prescrizioni giuridiche astratte ed a pratiche legali procedurali connesse ai ricorsi giurisdizionali amministrativi. Cultura della concorrenza significa accettare condotte economiche in un contesto di libere relazioni; le informazioni e i rischi sono assunti
in un ambito sociale sì regolarmente normato, ma che, in senso economico, espelle le inefficienze derivanti da pratiche di impresa il cui profitto è in danno alla libera circolazione dei beni, alla libera dinamica dei prezzi, alla libera e corretta circolazione delle informazioni. Non a caso la Corte Suprema Americana affianca alle
motivazioni contenute nelle sentenze di casi di violazione delle leggi Antitrust, l’importante ausilio di dimostrazioni sorrette da modelli e teorie economiche, mentre le violazioni sono sanzionate anche penalmente.
La redazione
Sono d’accordo e difatti anche in Europa recentemente (e in Italia fin dall’entrata in vigore della legge antitrust nel 1990 ) nella individuazione delle violazioni della normativa antitrust è stata adottata un’impostazione basata sull’effettivo accertamento degli effetti restrittivi dei comportamenti d’impresa pienamente basata sulla teoria economica, per alcuni aspetti persino progredendo rispetto alle consolidate prassi americane.