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L’AUSTERITÀ VISTA DA SINISTRA

Il rigore di bilancio sembra essere una strada obbligata per paesi indebitati come il nostro. Ma nella gestione del bilancio pubblico si possono adottare strategie diverse, che portano comunque a un controllo della spesa. Per esempio, per garantire la sostenibilità dei sistemi pensionistici, si punta all’adeguamento dell’età pensionabile alle aspettative di vita. Che però è una misura regressiva: colpisce di più i più poveri. Si potrebbe invece pensare a un tetto per le pensioni più elevate. Insomma, le scelte tecniche o inevitabili non esistono.

Diverse proposte, a livello europeo, suggeriscono l’uscita dalla crisi tramite un maggior coordinamento tra i paesi membri e politiche più o meno keynesiane: dagli eurobond al documento del Pd o quello sottoscritto da molte associazioni di sinistra. (1) Per i singoli paesi membri, soprattutto per quelli periferici e indebitati come il nostro, sembra invece che il rigore di bilancio sia una strada obbligata. Ciononostante, presentare la politica economica come una strada fatta di “scelte obbligate” o puramente “tecniche” è una mistificazione. Specie nella gestione del bilancio pubblico, ci sono spazi per portare avanti strategie ben diverse, ad esempio, in termini di lotta alla povertà e alla disoccupazione, anche mantenendo invariati i saldi di bilancio, ovvero senza spendere di più.

SPESA SOCIALE NEL MIRINO

Partiamo dal contesto: la composizione del bilancio pubblico. Nel 2009 in Italia le spese sociali erano ampiamente la prima voce di spesa pubblica, con il 22,1 per cento del Pil secondo Eurostat: in crescita dal 20,4 per cento del 2008 proprio per via della crisi. (2)
Le altre voci principali, di importo largamente inferiore, sono la retribuzione dei dipendenti pubblici (11,3 per cento del Pil), gli interessi sul debito pubblico (4,6 per cento) e gli acquisti di beni e servizi (6,1 per cento). Mentre la riduzione della spesa per i dipendenti pubblici richiede impegnative riforme delle pubbliche amministrazioni (obiettivamente non realizzabili nelle condizioni politiche odierne) e gli interessi sul debito dipendono per lo più da scelte passate e dai tassi d’interesse sui mercati finanziari, l’ultima voce, l’acquisto di beni e servizi, è stata ripetutamente tagliata (forse oltre i limiti del possibile) con i ricorrenti “tagli lineari”, la procedura di tagliare indiscriminatamente tutte le spese di una certa percentuale, senza riguardo per la loro meritorietà. Peraltro, un’ulteriore riduzione di questa voce toglierebbe ulteriore ossigeno alle arrancanti imprese italiane.
Al di là delle visioni politiche, dunque, escludendo l’ipotesi di aumenti delle imposte, la spesa sociale si presenta come la “principale indagata”. Per questo, nel Patto per l’euro, una delle principali misure proposte (sebbene nascosta tra molte altre “di cosmesi”) è la “sostenibilità dei sistemi pensionistici, anche attraverso l’adeguamento dell’età pensionabile alle aspettative di vita”. Le pensioni, infatti, costituiscono più di tre quarti della spesa sociale. Ora, occorre notare che il posticipo del pensionamento non comporterebbe un risparmio di spesa, nel medio periodo, se questo posticipo fosse compensato da un incremento degli assegni mensili successivi (ovvero, il lavoratore prende la stessa pensione complessiva, tramite assegni più alti per un periodo più breve). Poiché però la compensazione, anche quando nel lontano futuro il sistema sarà a regime, non è piena, si ha un effettivo risparmio per lo Stato, oltre al fatto che più persone rimangono al lavoro, con potenziali effetti positivi anche sulle entrate (maggiori imposte).
Questo è, come detto, un obiettivo necessario nell’ottica dell’austerità obbligata per gli Stati membri dell’Unione Europea, specie quelli periferici. Però, esistono modi meno indiscriminati di risparmiare risorse pubbliche. Ad esempio, poiché l’aspettativa di vita dipende anche dalle condizioni economiche, e poiché in caso di posticipo del pensionamento non vi è piena compensazione dell’assegno mensile, la misura colpisce di più proprio i più poveri, ovvero è una misura regressiva. (3) L’attenzione agli aspetti redistributivi può invece suggerire ipotesi più progressiste. (4)

PENSIONI E REDISTRIBUZIONE

Così, un’opzione potrebbe essere quella di interrompere il trend verso l’individualizzazione dei benefici e introdurre elementi di redistribuzione nel sistema previdenziale operando sui benefici di importo elevato o su quelli cumulati: ad esempio a fine 2008 il 6,4 per cento dei pensionati dell’Inps percepiva tre pensioni, e un altro 1,4 per cento ne percepiva quattro o più. (5)
Anche considerando gli importi dei singoli assegni mensili, dunque ignorando per semplicità la questione del cumulo, dai dati dell’Osservatorio statistico sulle pensioni dell’Inps emerge che al 2009 il 2,21 per cento delle pensioni vigenti è di importo superiore ai 2.500 euro mensili, pari a oltre tre volte e mezzo la pensione mensile media pagata nel 2009. (6) Onestamente non si vede perché le pensioni pubbliche, ispirate a principi di solidarietà generazionale e tutela dai rischi in età anziana, dovrebbero garantire un reddito mensile superiore a quello medio pro-capite della popolazione in età da lavoro, tanto più in un paese in cui il numero di pensionati si avvia pericolosamente a crescere e quello dei lavoratori a ridursi. In effetti, a fine 2009 questo numero esiguo di lauti assegni previdenziali incide per più del 10,6 per cento della spesa complessiva per pensioni Inps (si veda tabella). Porre un tetto al trattamento mensile massimo erogato dall’Inps sembra dunque un modo molto meno iniquo socialmente, e molto più efficace finanziariamente, dell’aumento indiscriminato dell’età di pensionamento. Infatti, ad esempio un tetto massimo di 3’000 € mensili farebbe risparmiare ogni anno circa quattro miliardi di euro, per le sole pensioni erogate dall’Inps: in maniera strutturale, non come “scalini” e “scaloni” visti in passato.
Questa cifra intende solo fornire un’idea del notevole ordine di grandezza di cui si parla, ed è stata ricavata come prima approssimazione dalla differenza tra la spesa attuale per le 225 mila pensioni di importo mensile superiore ai 3’000 € e la spesa che si avrebbe per lo stesso numero di pensioni, tutte precisamente del valore di 3’000 € mensili. Quindi, la stima è basata sui soli ex-lavoratori del settore privato, trattandosi di dati Inps, ma per le pensioni erogate dall’Inpdap il risparmio potrebbe essere anche superiore, in termini relativi, a causa della maggiore generosità, specie in passato, di tale regimi. La stima è inoltre arrotondata per difetto, in quanto il computo è basato sul numero di pensioni anziché di persone (mentre il limite ovviamente dovrebbe valere per la somma di tutti gli assegni eventualmente cumulati), perché è basato su dati 2009, e perché non considera eventuali risposte “comportamentali” dei lavoratori che eventualmente decidessero di posticipare il pensionamento per ottenere un assegno più alto e/o di aumentare i propri risparmi privati. Tutte e tre queste distorsioni rendono la stima più conservatrice di quanto eventualmente si potrebbe risparmiare, e dunque sono distorsioni “benvenute” in quanto implicano una maggiore prudenza nell’esposizione e valutazione della proposta.
Ovviamente, la misura implica l’introduzione di un criterio di redistribuzione nel sistema previdenziale, per il quale i contributi oltre una certa soglia non “fruttano” in termini pensionistici allo stesso modo di quelli corrispondenti a importi più bassi. E in effetti, anche se come detto si parla di un numero davvero ridotto di “ricchi” pensionati che perderebbero così parte del proprio reddito, è possibile che porre un tetto, uno scalino secco oltre una certa cifra (per quanto alta) sembri una procedura arbitraria. Questo non è però un ostacolo insormontabile, in quanto è possibile pensare anche a un meccanismo di abbattimento progressivo del rendimento dei contributi versati, considerando ai fini del montante contributivo un valore nozionale (come viene già fatto per altre ragioni), pari al valore dei contributi effettivamente versati, ridotti di un fattore proporzionale al valore stesso, a un tasso scelto politicamente al fine di conciliare sostenibilità e adeguatezza del sistema. (7)
Più in generale, il caso delle pensioni mostra che, a invarianza dei saldi di bilancio o addirittura con una loro riduzione, è possibile operare politiche di bilancio che non abbiano carattere regressivo (come ad esempio l’aumento dell’età pensionabile). Se invece di fatto la spesa pubblica ha ulteriormente ridotto la sua capacità redistributiva negli anni, e in Italia più che in Europa, ciò è evidentemente la conseguenza di precise scelte politiche, tutt’altro che inevitabili o “tecniche”.

  Numero Pensioni Incidenza sul totale Importo Medio Mensile Rapporto con la media Spesa Complessiva Annua (mln.) Incidenza sul totale
Fino a 250,00 € 1.635.147 8,93% 110,74 15,19% € 2.343,8 1,36%
Da 250,01 € a 500,00  € 7.098.875 38,79% 412,44 56,59% € 37.363,9 21,95%
Da 500,01 € a 750,00  € 3.998.900 21,85% 572,30 78,52% € 29.626,2 17,16%
Da 750,01 € a 1.000,00  € 1.733.625 9,47% 865,46 118,74% € 19.489,2 11,25%
Da 1.000,01 € a 1.250,00  € 1.247.036 6,81% 1.083,88 148,70% € 17.542,1 10,13%
Da 1.250,01 € a 1.500,00  € 843.800 4,61% 1.364,87 187,26% € 14.971,0 8,63%
Da 1.500,01 € a 1.750,00  € 527.327 2,88% 1.615,11 221,59% € 11.072,0 6,38%
Da 1.750,01 € a 2.000,00  € 371.364 2,03% 1.869,84 256,54% € 9.027,1 5,21%
Da 2.000,01 € a 2.250,00  € 256.519 1,40% 2.116,01 290,31% € 7.056,4 4,07%
Da 2.250,01 € a 2.500,00  € 183.588 1,00% 2.362,00 324,06% € 5.637,3 3,25%
Da 2.500,01 € a 3.000,00  € 180.033 0,98% 2.711,44 372,00% € 6.345,9 3,66%
Oltre 3.000,00  € 225.849 1,23% 4.109,97 563,87% € 12.067,0 6,96%
Totale 18.302.063 100% 728,88 100% € 172.541,8 100%

(1) Il dibattito ovviamente somiglia a quello in corso negli Stati Uniti, si veda ad esempio il recente resoconto di Jan Kregel su www.monetaecredito.info
(2) Si tratta della spesa del complesso delle amministrazioni pubbliche (stato, enti statali e enti locali): si veda http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/government_finance_statistics/data/database
(3) Si veda da ultimo Tarkiainen, L., Martikainen, P., Laaksonen, M., Valkonen, T. (2011), "Trends in life expectancy by income from 1988 to 2007: decomposition by age and cause of death", Journal of Epidemiology and Community Health, doi:10.1136/jech.2010.123182
(4) Ovviamente mi riferisco a Norberto Bobbio (1994), Destra e Sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Donzelli Editore, Roma.
(5) Inps e Istat, "Trattamenti pensionistici e beneficiari al 31 dicembre 2008", Statistiche in breve, disponibile online alla Url: http://www.inps.it/doc/sas_stat/BeneficiariPensioni/Trattamenti_Beneficiari_31_dicembre_2008.pdf
(6) http://www.inps.it/webidentity/banchedatistatistiche/menu/pensioni/pensioni.html
(7) Così come proposto in D’Ippoliti, C. (2009), “Pensioni e redistribuzione”, Mondoperaio, numero 3, maggio 2009, disponibile online a questo indirizzo. Si noti che, sebbene la proposta miri a ridurre l’individualizzazione del sistema e a introdurre un po’ di redistribuzione, già a normativa vigente il montante contributivo non corrisponde alla capitalizzazione dei contributi versati: strutturalmente, per la differenza tra aliquote di computo e aliquote di finanziamento (per cui ai lavoratori dipendenti viene implicitamente riconosciuto un tasso interno di rendimento superiore a quello dei lavoratori autonomi), e occasionalmente, con i periodi di contribuzione figurativa (ad esempio, durante la maternità).

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52 commenti

  1. Mario

    Non è specificato se i valori indicati sono lordi o netti; perchè se fossero lordi bisognerebbe tenere conto delle tasse, che anche i pensionati pagano.

    • La redazione

      Si tratta di importi lordi, altrimenti le cifre in ballo sarebbero molto piú contenute. Mi permetto di sostenere che, dal punto di vista di un giovane lavoratore dipendente (e quindi giá solo per questo fortunato), 3000 euro lordi al mese non sono affatto pochi. Ovvio che dipende anche dalla dimensione famigliare, ma trattandosi di anziani, a parte casi estremi, non vi é ragione per cui il nucleo famigliare debba essere superiore alle due persone. Inoltre, come ho scritto nel testo, il posticipo del pensionamento é comunque un taglio, ma mascherato e regressivo. Meglio dunque la chiarezza, del resto stiamo parlando di austeritá, non di vacche grasse.

  2. Ugo Pellegri

    Quando si parla di retribuzioni in genere, ed in particolare delle pensioni, spesso si omette di precisare se si tratta di importi lordi o netti. Data l’obiettiva elevata tassazione la differenza non è da poco. 2500 € ,se netti sono una cosa, ben diverso se sono lordi. Faccio questa precisazione perché, a differenza delle retribuzioni specie del settore privato, per le pensioni ente erogatore e percettore delle imposte sono in pratica lo stesso soggetto che con una mano da e con l’altra leva, sia pure per motivi non discutibili.

  3. Luigi Calabrone

    Il pensiero della sinistra si rivolge al ritornello di far piangere i ricchi. Prima di parlare di pensioni troppo elevate, occorrerebbe vedere se le stesse siano state effettivamente finanziate o meno (tramite i contributi e le imposte pagate dagli interessati e dai loro datori di lavoro). Se non finanziate correttamente, ridurre i trattamenti. Rispettare il dettato costituzionale che retribuzione (e pensione – retribuzione differita) sono proporzionali a quantità e qualità del lavoro svolto. Evitare il concetto surrettizio della sinistra che la pensione è un’elemosina per i bisognosi e, che, come tutte le elemosine, non è un diritto ma una elargizione dello Stato e trova il suo limite non dal diritto, ma dalla benevolenza dell’erogatore. Eventualmente, ridurre la copertura pensionistica obbligatoria ad un tetto massimo non elevato e lasciare spazio (detassando i relativi contributi) alla previdenza integrativa collettiva ed individuale. Oggi questo spazio è molto modesto perchè i contributi e le imposte sono al massimo livello possibile. Patetico sembra il tentativo di ignorare la demografia, cioè l’allungamento della vita media, che in tutti i paesi ci fa lavorare più a lungo.

    • La redazione

      Come documentato dalla Ragioneria Generale dello Stato (si vedano i diversi rapporti sull’andamento di medio-lungo periodo della spesa sociale, disponbili alla URL http://www.rgs.mef.gov.it/ ), la principale causa della crescita (attesa) del rapporto tra spesa per pensioni e PIL é la mancata crescita del prodotto per occupato (produttivitá del lavoro), non l’allungamento dell’aspettativa di vita. Peraltro, la principale causa dell’invecchiamento della popolazione é la caduta (ormai pluridecennale) del tasso di natalitá, non l’aumento dell’aspettativa di vita. Su cosa le pensioni siano, da un punto di vista economico, si veda la risposta al precedente commento. Sul far piangere i ricchi, non so quale sia la posizione della sinistra. Non é certo la mia: io non farei piangere nessuno, e credo che la via di uscita dalla crisi non sia l’austeritá, ma politiche keynesiane ben coordinate a livello europeo (se non internazionale). Cionondimeno, ragioni di efficienza nell’uso delle risorse pubbliche e di equitá mi portano a ritenere che, dovendo tagliare perché le politiche keynesiane non sembrano molto in voga, meglio far piangere (poco) i ricchi che (tanto) i poveri. Tantopiú che, come mostrano le statistiche sulla disugualianza e sulla distribuzione del reddito, (sia prima che dopo le imposte, visto che l’Italia é uno degli Stati europei in cui la spesa pubblica opera meno redistribuzione) la seconda via, quella di far piangere i poveri, é stata certamente percorsa negli ultimi due decenni e mezzo con molto maggior vigore della prima.

  4. Alessandro

    Se il sistema è contributivo, più uno contribuisce (= accantona) più alta sarà la rendita pensionistica. A meno di errori di calcolo, per cui si ottiene più di quanto si è messo da parte, non vedo perché mettere un limite alla rendita ma non ai contributi. Nel meccanismo contributivo ognuno contribuisce per sé, non per gli altri (ovviamente statisticamente parlando). Restituire solo una parte dei soldi che sono stati versati (senza possibilità di scelta tra l’altro) si chiama furto non distribuizione. Se invece i contributi si versano solo fino a una certa cifra corrispondente con il limite di 3000€, allora va bene.

    • La redazione

      Se oltre agli importi si tagliassero anche i contributi si aggreverebbe il deficit, anziché ripianarlo. Come ho scritto, é evidente che la mia proposta implica redistribuzione, cosí come la implica il posticipo dell’etá di pensionamento (solo che in quel caso la redistribuzione é dai poveri ai ricchi). L’opinione che la redistribuzione delle risorse sia un furto come lei sostiene é una posizione legittima, ovviamente. Le faccio solo notare che é giá parte del sistema sia delle entrate tributarie (ad esempio con la progressivitá dell’imposta sui redditi) sia di quelle contributive (seppure in minor misura, come spiegato in nota 7).
      Il sistema previdenziale non ha in questo niente di diverso dalla fiscalitá generale, e l’idea che sia possibile ad una generazione di individui di risparmiare per il proprio futuro é un’ovvia finzione: a livello macroeconomico il consumo futuro dipenderá esclusivamente dal prodotto futuro (piú le importazioni meno le esportazioni), a prescindere dal risparmio che si sará avuto nel frattempo. Un individuo puó risparmiare per il suo futuro, un’intera generazione no: non ha quindi senso sostenere che "ognuno contribuisce per sé". Ognuno contribuisce al sistema previdenziale pubblico, il cui scopo é spostare parte dei beni e servizi prodotti in ogni periodo dai lavoratori ai pensionati dello stesso periodo (a meno che qualcuno non pensi che si puó sotterrare oggi una fetta di pane e nutella e mangiarla dopo il pensionamento, essendosela individualmente risparmiata). Per una spiegazione piú puntuale si puó vedere questo recente intervento: http://blogs.forbes.com/johntharvey/2011/04/08/why-social-security-cannot-go-bankrupt/

  5. Claudio

    Si può definire furto il fatto che moltissimi lavoratori (c.d. “precari”) versino i contributi senza avere speranza di maturare i requisiti per la pensione…chissà perché, però, nessuno si scandalizza. La questione è che i contributi sono solo nominalmente tali, mentre in realtà sono imposte come le altre.

    • La redazione

      Certo, sono imposte, per i motivi spiegati nelle risposte ai commenti sotto.
      Non é vero che i "precari" non riceveranno la pensione, quanto piuttosto che riceveranno cifre ridicole, e certamente sotto i livelli di sussistenza. Questa é una delle conseguenze di aver voluto, in passato, tagliare le pensioni per tutti nella stessa misura, eliminando ogni forma di redistribuzione e instaurando un regime che artificialmente fa il verso ai mercati finanziari senza esserlo (non per niente il nostro contributivo in inglese si chiama NDC, "notionally" defined-contribution).
      Peraltro, la pensione che riceveranno mi sembra attualmente il meno imminente dei problemi dei lavoratori precari, ed é proprio al fine di dare risposte ai "giovani" (che spesso non son piú tali) che si potrebbe togliere qualcosa ai piú ricchi tra gli anziani, a mio parere.

  6. Marco Spampinato

    Trovo condivisibile e coraggioso l’approccio che, anche indipendentemente dal calcolo esatto del risparmio (che certo dipende dalla soglia o parametro prescelto) mette in luce come possano pensarsi politiche di austerità fondate su una migliore conoscenza empirica della spesa pubblica. Molti economisti tradizionali sembrano (in tempi di crisi) pronti ad individuare nella diseguaglianza una causa importante della recessione, salvo poi non saper fare proposte concrete e praticabili. A sostegno di questa proposta aggiungerei (è solo un’ipotesi che sarebbe interessante accertare con qualche dato solido) che è probabile che molti di coloro che percepiscono le pensioni più elevate continuino a lavorare dopo la pensione, cumulando redditi da lavoro e pensione pubblica. Una ragione in più per pensare che, in questo come in altri casi, “tagli” alla spesa che non siano fondati su buone valutazioni empiriche possano risultare persino più regressivi di quanto appaiano a prima vista. Viceversa l’analisi della spesa pubblica rivela spesso opportunità di risparmiare risorse, o di impiegarle meglio, proprio avendo in mente una maggiore equità inter/infra generazionale.

    • La redazione

      Certo, ma esiste un problema strutturale: grandi nodi come il pubblico impiego, l’organizzazione delle pubbliche amministrazioni o la spesa sanitaria (solo per fare qualche esempio) richiedono anni di studio prima di poter immaginare un piano per conseguire risparmi di spesa e aumenti di efficienza. Nessuno pensa davvero che non si potrebbe spendere meno e fornire anche un servizio migliore ai cittadini, il problema é che affrontare questi nodi porta via voti (ricordiamo che ogni volta che lo Stato spende un euro qualcuno guadagna un euro).
      Lo si fa quindi solo in extremis e con la pistola puntata alla tempia, ovvero in sede di legge finanziaria (che ora ha cambiato nome ma non sostanza), quando alcuni obiettivi sono "obbligati" e possono essere letteralmente imposti dal Governo al Parlamento. Solo che in quel caso i tempi sono brevi, non c’é tempo di riformare, ma solo di tagliare, spesso in forma "lineare" (ovvero a tutti per la stessa percentuale) che per definizione é semplicemente il mantenimento dello status quo, in scala ridotta (o con aumento del debito occulto delle singole amministrazioni, che ad esempio neanche tagliano ma iniziano a loro volta a ritardare coi pagamenti ai loro fornitori).
      Insomma, é difficile che un politico (che legittimamente aspira alla rielezione) decida di procedere a razionalizzazioni della spesa proprio quando si dovrebbe fare, ovvero quando "il mare é calmo" e vi é tempo di fare le cose bene, dato che in quel momento la percezione dell’opinione pubblica é che di tagli non v’é bisogno.

  7. Carlo Turco

    Credo che, anche in presenza di una correzione del tipo di quella proposta, sarà comunque inevitabile procedere in direzione di un aumento dell’età pensionabile, magari esclusa, o più contenuta, per i lavoratori di attività realmente “usuranti”. Il prolungamento dell’età lavorativa non dovrebbe essere indifferente per le casse dello stato perché – a parte il conseguente prolungamento della tassazione sui redditi – è auspicabile che le progressioni retributive vengano svincolate dal semplice accrescimento dell’età. Sulla materia segnalerei l’ultimo numero dell’Economist. Piuttosto – e in termini del tutto marginali rispetto agli argomenti qui affrontati – approfitterei dell’occasione per sottoporre agli esperti un quesito. Che senso ha – e non ha, viceversa, effetti controproducenti – corrispondere delle pensioni “lorde” su cui effettuare le trattenute fiscali? Non sarebbe il caso di corrispondere semplicemente pensioni “nette” (almeno rispetto all’Irpef dovuta allo Stato), evitando partite di giro e connesse contabilizzazioni? Attraverso questa via non sarebbe possibile una riduzione della contribuzione?

    • La redazione

      Sulla prima questione tenga presente che, al di lá dei nobili ideali, i requisiti ridotti per le attivitá cosiddette usuranti si sono rivelati in passato origine di corruzione e creazione di piccole "rendite" (non ultimo, elettorali). Non perché non esistano i lavori usuranti, ma perché é difficile fornirne una precisa definizione: la questione viene rimandata alla contrattazione (generalmente opaca) con il policy-maker, in cui il desiderio di accaparrarsi elettorati compiacenti é ahimé inevitabile. Sarebbe meglio, a mio parere, puntare il piú possibile sull’universalitá dei benefici e l’uniformitá delle regole. Nel caso specifico, lasciando ad ognuno/a la libertá di andare in pensione quando vuole (certo, vedendosi aumentato o ridotto l’assegno di conseguenza).
      La tassazione delle pensioni, che di per sé é solo un’ereditá del passato (quando il sistema era frammentato e diversificato) per quanto contabilmente é una partita di giro e per quanto genera quindi "inutili" costi amministrativi e complicazioni burocratiche, é utile perché con la fiscalitá generale si perseguono obiettivi – appunto – generali, che spesso valgono allo stesso modo per lavoratori, inoccupati e pensionati. Cosí ad esempio quando si vanno a ritoccare le aliquote o gli scaglioni di reddito lo si puó fare una sola volta senza dover agire sia sulla tassazione che sul sistema previdenziale, oppure pensi ad esempio alle addizionali comunali e regionali sull’Irpef: che valgono per le pensioni come per gli altri redditi.

  8. Mapi

    “Porre un tetto al trattamento mensile massimo erogato dall’Inps sembra dunque un modo molto meno iniquo socialmente, e molto più efficace finanziariamente, dell’aumento indiscriminato dell’età di pensionamento.” Concordo completamento e leggo con piacere che finalmente anche Lavoce prende in considerazione altro e non sempre l’aumento dell’età pensionabile. A mio parere occorrerebbe un approffondimento anche sulle pensioni di reversibilità, sistema tra l’altro iniquo con i non sposati.

    • La redazione

      Sono daccordo. A parte il fatto che sempre piú le pensioni di reversibilitá si stanno prestando ad applicazioni discutibili e certo estranee alla motivazione per cui furono inizialmente istituite (penso ai casi delle "baby pensioni di reversibilitá" cui spesso hanno diritto le badanti, a seguito di matrimonio con uomini molto anziani).
      Le pensioni di reversibilitá sono erroneamente interpretate come una redistribuzione dagli uomini alle donne (che comunque sarebbe non adeguata ad una societá moderna: si veda il mio precedente intervento con Marcella Corsi, su questo sito) quando invece sono una redistribuzione dalle persone single alle coppie sposate, di per sé ingiustificabile, per di piú con ingiusta discriminazione delle coppie di fatto.

  9. raffaele principe

    L’analisi fatta dall’autore mi trova pienamente d’accordo. Anzi credo che la riflessione vada fatta al di là del contingente, perchè se L’Italia piange, la Francia non ride. Giusto per citare due paesi con deficit pubblici diversi. Perchè oggi è in discussione l’istituto della Previdenza, istituto che non sempre è esistito nè esiste in tutto il mondo, perchè a dire il vero solo una minoranza su questa terra usufruisce delle pensioni. L’istituto nasce con il capitalismo e da risposte su più fronti, individuale, ma anche collettivo diventando stimolo per i consumi, gli anziani, e risparmi forzoso per i lavoratori. Poi nel tempo c’è stato l’assalto alla diligenza, in Italia in particolare, con il cumulo di contributi figurativi, abbuoni ecc. Allora tornare alle sue origini, la previdenza per gli anziani affinchè non siano a carico dei figli, per chi ce l’aveva e li rispettava, fissando un tetto congruo, attorno al salario medio, non credo sia una eresia. Tutto il resto è “contrattabile”: pensioni integrative, sconto fiscale ecc. Forse questo è l’unico modo per salvare l’istituto, altrimenti un bel giorno qualcuno potrebbe dire: ognuno per sè e dio per tutti.

    • La redazione

      Attualmente si è dato l’impressione che con il sistema post-riforma Dini la situazione sia già "ognuno per sé", cosa ovviamente falsa dato che, come detto più sotto, le pensioni di ogni anno sono pagate dai lavoratori di ogni anno, e non vi è alcuno spostamento inter-temporale di risorse. Il sistema italiano non è mai partito "alla Beveridge", per la verità, ovvero non è partito come i sistemi di stampo liberale, in cui tutta la fiscalità generale (non solo i lavoratori dunque) pagano le pensioni, e queste hanno solo lo scopo di togliere gli anziani dalla povertà (hanno dunque importi più bassi delle nostre). Per diverse ragioni in Europa è in atto una convergenza a metà, in cui il valore delle pensioni si va riducendo (ma poichè il numero di pensionati aumenta il risparmio di risorse che ne deriva non è immediatamente visibile), ma alla contribuzione continua a pensare in via quasi esclusiva i lavoratori (come detto, tranne nei paesi con welfare di stampo liberale).
      Fare le previsioni su dove si andrà è sempre complicato, ma certo il problema principale, come scritto sotto, è la stagnazione che ci attanaglia da decenni: possiamo fare tutte le "magie contabili" che vogliamo, ma le risorse da distribuire tra lavoratori e pensionati sempre quelle rimangono, e se il numero dei pensionati in rapporto ai lavoratori aumenta, la questione si fa complicata.

  10. Marco Fracasso

    In primo luogo mi chiedo di quando verrebbe tagliata, in media, la pensione di questi “privilegiati”? Mi sembra scontato che, una volta regime, un sistema del genere imporrebbe a chi percepisce un reddito molto alto di incrementare la quota di risparmio per mantenere il proprio tenore di vita, quindi si tratterebbe di un aumento mascherato della pressione fiscale per le fascie ad alto reddito. In secondo luogo, di quanto aumenterebbe la pensione delle fasce disagiate? Sospetto che si darebbe pochissimo a moltissimi togliendo moltissimo a pochissimi, quindi esattamente il contrario che “meglio far piangere (poco) i ricchi che (tanto) i poveri”.

    • La redazione

      La risposta alla sua domanda è nella tabella alla colonna 3 (per i pensionati INPS, ma ricordiamo sempre che ci sono anche quelli Inpdap): in media i pensionati più ricchi perderebbero circa 1100 € lordi, ma come ho sottolineato nell’articolo si possono anche immaginare meccanismi di abbattimento graduale, senza scalini che effettivamente possono apparire arbitrari.
      L’uso che verrebbe fatto di queste risorse non è necessariamente (nè auspicabilmente, forse) a vantaggio delle pensioni più basse.
      Non si tratta affatto di aumento di imposizione fiscale né contributiva. Esclusivamente di riduzione della spesa sociale per le persone più abbienti, senza alcun incremento delle entrate. Se il lettore è incappato in tale ambiguità è perché equipara il sistema previdenziale a una forma di risparmio, cosa che esso non è. Come ho scritto ormai in diverse risposte ai commenti, le pensioni pubbliche spostano risorse attuali dai lavoratori attuali ai pensionati attuali. Non vi è alcun trasferimento di risorse nel tempo. Certamente, a livello individuale se i soggetti colpiti volessero mantenere gli stessi livelli di consumo in età anziana (ammesso che le risorse privatamente accumulate non glielo consentano già) incrementerebbero i loro risparmi privati, ma ciò non corrisponde ad un aumento dell’imposizione, e rientra nella libera facoltà dei cittadini di disporre delle proprie risorse come meglio credono (che poi questo, a parere di un economista keynesiano, avrebbe effetti depressivi sull’economia è altro discorso, da affrontare aprendo il capitolo di come le risorse risparmiate verrebbero allocate).
      Esprimendo pareri di merito entriamo in un dibattito che il mio articolo voleva aprire, non chiudere. Il punto principale cui volevo arrivare (con successo, mi sembra) è quello di "togliere il velo" dell’apparente e falsa neutralità delle scelte "tecniche" e di mostrare che ogni scelta di bilancio ha conseguenze distributive.
      E’ scorretto presentare misure, quali nel mio esempio il posticipo del pensionamento, come "uguali per tutti" quando invece colpiscono di più i più poveri. Ma ciò non significa che poi queste decisioni non possano essere prese lo stesso, dopo adeguato dibattito.

  11. Martino

    Per me si parla troppo di redistribuzione dimenticando la realtà. Innanzitutto chi ha alte pensioni, ha già redistribuito parte del proprio reddito: pagando imposte maggiori, sia in valore assoluto che percentuale, in alcuni casi anche a causa di un meno favorevole sistema contributivo, e godendo di minori servizi. Per di più in un panorama quale quello italiano in cui le dichiarazioni dei redditi sono spesso sorprendenti: se non sbaglio il 50% degli italiani dichiara meno di 15.000€ (pagando imposte sul reddito nulle o quasi) e l’ 80% meno di 35.000! Ma in alcune zone d’Italia si arriva ad un’evasione del 60%! Si tiene mai conto di questo nel valutare le diseguaglianze?? E comunque mi sembra un punto di vista sbagliato: bisognerebbe lavorare di più sul fronte della “redistribuzione” delle possibilità di migliorare il proprio status, in modo che ciascuno sia artefice della propria condizione. In Italia, insomma, c’è più bisogno di ascensori sociali, ma anche di voglia di salire su tali ascensori!!

    • La redazione

      La diseguaglianza (ovvero le posizioni relative) e la mobilitá sociale (ovvero la possibilitá di modificare la propria posizione) non sono affatto due obiettivi in conflitto, anzi a livello empirico sembrerebbe che le due variabili sono abbastanza correlate, nel senso che la diseguaglianza eccessiva, quale ad esempio quella che tolleriamo oggi in Italia, tende a far sparire "gli ascensori" di cui lei parla. Una spiegazione chiara di questo l’ha fornita Joseph Stiglitz (non certo un pericoloso economista eterodosso) in un recente articolo.
      Inoltre, la diseguaglianza eccessiva era stata indicata come una delle cause della crisi finanziaria e reale che stava per scoppiare (5 anni dopo) negli Stati Uniti, giá nel 2002 da Paolo Sylos Labini in un articolo su "Moneta e Credito" (che invito tutti a leggere), piú o meno mentre i piú famosi economisti parlavano della ormai raggiunta era della stabilitá. Insomma, la diseguaglianza eccessiva, anche indipendentemente dalla mobilitá (che pure é un tema importantissimo) é un problema non solo sociale ma anche economico.

  12. Alessandro Gratton

    La proposta è assolutamente ingiusta, considerato che già oggi una buona parte dei contrbuti versati sugli stipendi maggiori è un’ulteriore tassa progressiva sul reddito a favore delle pensioni (minime) degli evasori fiscali-contributivi. Questo in aggiunta alle imposte fortemente progressive che gravano sulle retribuzioni (si badi non sui redditi) più elevati. Siamo alla solita demagogia.

    • La redazione

      Sono daccordo con lei che l’evasione fiscale e contributiva rendono falsato quasi qualsiasi ragionamento sulle finanze pubbliche, siamo forse in disaccordo sul fatto che in attesa che la situazioni cambi (e serviranno anni, anche ammesso che vi si dedichino molte piú energie di quanto si faccia ora) la mia opinione é che non si puó nel frattempo stare a guardare. Nell’esempio dell’articolo, che ripeto prevede anche una formula piú graduale, per quanto sappiamo tutti che esistono evasori che guadagnano ben piú di 3000 euro (nel loro caso, netti) al mese, cionondimeno non vedo perché dovremmo utilizzare risorse per quella che é "spesa sociale" (di cui la previdenza é parte) per persone che non ne hanno bisogno. Ripeto ció che ho giá scritto: se si taglia altrove, chissá perché, finisce che pagano sempre i meno abbienti. Tagli ai servizi offerti dai Comuni, dalla sanitá, ecc., hanno forti ricadute regressive, ovvero danneggiano di piú chi ha meno. Che vengano presentati come decisioni "neutre" é intollerabile, e io ho solo cercato di mostrare che, per quanto discutibili, esistono sempre alternative.

  13. luca cigolini

    Tutti concordano che se il sistema non regge deve essere corretto. La correzione può prevedere di togliere ai molti che hanno poco, come si sta un po’ alla volta facendo: chi è entrato nel mondo del lavoro a certe condizioni ora non ne può più godere per l’allungamento dell’età lavorativa e la diminuzione delle pensioni future. Questa a mio avviso è una forte scorrettezza, potremmo anche definirla furto, ma sembra accettata dalla maggior parte dei mass-media, che non la definiscono tale mostrandone i vantaggi e ritenendola inevitabile. Se si cerca un’alternativa toccando gli interessi dei ricchi ecco che scatta l’accusa di furto o di scelta bassamente ideologica (invidiamo i ricchi: puniamoli togliendo a loro qualche privilegio). 1) Probabilmente i ricchi son più combattivi e determinati nel mantenere i propri privilegi; 2) Probabilmente la loro opinione è maggiormente considerata dai nostri media, spesso direttamente sotto il loro controllo. Mi scuso per l’estrema semplificazione ricchi vs poveri, ma mi pare che il senso del discorso non ne venga intaccato. Potremmo anche sostituirla con fasce deboli vs fasce forti o simili.

    • La redazione

      Non si preoccupi per la terminologia, il senso di ció che dice mi sembra chiaro.
      Sarei arrogante se pensassi di poter rispondere a questa domanda in poche righe: come sa, per ogni fenomeno possiamo trovare sia spiegazioni socio-economiche sia politico-culturali (e spesso le due non si escludono a vicenda). Le prime richiedono un’analisi complessa e quindi per ora le accantonerei; tra le seconde fondamentale mi sembra l’idea che si é fatta strada, in Italia e non solo, legata alla cosiddetta "Terza Via": ovvero l’opinione che le elezioni "si vincono al centro" (cioé grazie al voto delle cosiddette classi medie), sulla base di quanto avviene nei sistemi bipartitici come gli Stati Uniti. Questa idea ha comportato una rincorsa, sia da destra che da sinistra, verso posizioni conservatrici e un abbandono sia di posizioni liberali che di quelle socialdemocratiche. In campo economico, ha portato a quella che é stata definita la svolta neoconservatrice, di deregolazione dei mercati e riduzione incondizionata dell’intervento pubblico, con inevitabili ricadute del tipo da lei segnalato.
      A livello europeo sembra che comunque un ripensamento sia in atto, sia a destra (si veda ad esempio l’ascesa di Le Pen e il declino di Sarkozy, o i problemi della Merkel, entrambi esponenti conservatori) sia a sinistra (con una forte riflessione interna alla SPD e il cambio di vertice del Labour nel Regno Unito). Lo dico ovviamente senza valutazioni riguardo l’ "opportunitá" di tale ripensamento, su cui ognuno avrá la sua opinione. In Italia non abbiamo ancora avuto elezioni, ma quasi tutti i sondaggi segnalano (rispetto al 2008) una crescita della Lega ai danni del PDL e della sinistra ai danni del PD, dunque sembrerebbe che, anche in assenza di un dibattito pubblico, l’Italia si sta muovendo nella stessa direzione centrifuga intrapresa dalle altre democrazie europee. Se questo condurrá ad un cambio di poltiche, non ho le competenze per dirlo.

  14. Salvatore

    L’autore dell’articolo non sembra tenere in alcuna considerazione il fatto che il sistema previdenziale italiano è in attivo, i problemi nascono con l’assistenza, che è tutt’altra cosa. Inoltre in Italia si è consentito a milioni di individui di andare in pensione con pochi anni di contributi versati percependo in proporzione laute pensioni con il sistema retributivo. La principale anomalia sta proprio lì ed è lì che bisognerebbe tagliare per recuperare risorse e un minimo di equità con chi in pensione deve ancora andarci. Poi la pensione deve essere rapportata ai contributi versati, inutile fare tanti distinguo, la solidarietà si è già manifestata a monte con il prelievo IRPEF. Una considerazione. Come è possibile risparmiare 4 miliardi all’anno, fissando un tetto massimo di 3mila euro se il totale di tutte le pensioni superiori a tale limite è solo di 928 milioni di euro? Dalla tabella mi sembra di capire che si otterrebbe un risparmio di 1.109 euro per ogni pensione superiore al limite di 3mila euro, per cui il risparmio sarebbe di 1.109 euro per 225.849 pensioni. Totale 250,5 milioni.

    • La redazione

      Sono daccordo sugli errori fatti in passato, ma porvi rimedio oggi mi sembra chiudere la stalla quando i buoi son giá scappati. Ovvero, forse esiste una soluzione al problema da lei segnalato, ma io non saprei trovarla.
      Evidentemente, non sono invece daccordo che la pensione dovrebbe essere commisurata ai contributi versati: la mia opinione é che da tempo il sistema italiano si stia spostando da un impianto "alla Bismarck" (ovvero legato al mondo del lavoro e su basi occupazionali o corporative) a uno "alla Beveridge" (ovvero universale e redistributivo). Ma entrambe le opinioni sono valide ovviamente, si tratta di preferenze politiche.
      Per quanto riguarda i calcoli ha ragione, la tabella mostra i valori mensili, mentre nell’ultima stesura dell’articolo ho commentato dati annuali: avevo mandato la tabella aggiornata alla redazione ma forse per problemi tecnici non é stata ancora sostituita. Confido che lo sará al piú presto.

       

  15. Magotti P.

    Pensando, inoltre, che è stata proprio la generazione ora in pensione la maggior responsabile del debito pubblico italiano, è giusto che paghi i costi del risanamento. Solo i pessimi padri di famiglia lasciano da pagare i loro debiti ai figli.

    • La redazione

      Attribuire le responsabilitá collettivamente ad un’intera generazione mi sembra ingeneroso, ma certamente l’enorme diseguaglianza che si é ampliata in Italia ha anche una forte connotazione generazionale (basta pensare alla differenza nei tassi di occupazione dei giovani rispetto ai 40-50enni), e questo grave problema non sará purtroppo risolto solo con piccoli interventi quale quello da me proposto, richiedendo misure ben piú ampie. Comunque, sarebbe bene inziare.

  16. Osvaldo Forzini

    Il testo dell’articolo: “Onestamente non si vede perché le pensioni pubbliche, ispirate a principi di solidarietà generazionale e tutela dai rischi in età anziana” è sostanzialmente falso. In realtà, fa confusione tra previdenza ed assistenza (a proposito: ma una volta non chiedevano che l’INPS conteggiasse separatamente le due voci? Che fine ha fatto questa cosa?). La prima è il corrispettivo (salvo ovvi casi di leggi fatte per furbetti, che peraltro sono state bene anche alla sinistra) dei propri contributi, che la persona accantona (forzosamente) all’Inps ma rimangono suoi, o dovrebbero almeno. La seconda è finanziata dalle tasse, e questa è la parte che deve fare da redistribuzione. Certo, in un periodo di crisi si può anche pensare ad interventi “speciali”, però non facciamoli passare come interventi di “equità”. La lotta al sommerso ed all’evasione fiscale è equità. I tetti a pensioni (legittimamente) percepite sulla base dei propri contributi versati, sono solo una tassa mascherata. Una “trovata”, come la “tassa di scopo”, che è comunque una tassa. Dice: ma quella ti garantiamo che va a finire per il “nobile scopo” per cui l’abbiamo messa. Ho capito, però alla fine quello che conta a me è cosa mi rimane in tasca, se a forza di tasse di scopo me le vuoti.. E, comunque, resta sempre il dubbio: non era possibile evitare la tassa di scopo tagliando da spese e sprechi con cui vengono dilapidate le tasse “normali”? Sono dell’idea che la “beneficenza” bisogna lasciarla fare ai privati (che tra l’altro la fanno di solito molto meglio), la beneficienza forzosa non mi appetisce per niente. Comunque buon lavoro

    • La redazione

      Ho scritto su questo stesso sito a proposito della necessità di separare assistenza da previdenza già nel 2007. La separazione non implica però che la previdenza non debba avere natura redistributiva, quella è una scelta politica valida tanto quanto la posizione opposta.
      Rimando alle risposte ai precedenti commenti sia specificando che la proposta non implica alcun aumento della tassazione, su nessun contribuente (né ricchi né poveri), sia sul fatto che la pensione ricevuta è *calcolata* in funzione dei contributi versati, ma non *deriva* da essi. La pensione pubblica deriva dal prelievo forzoso di risorse dai lavoratori e dal loro trasferimento ai pensionati. Peraltro, la cifra prelevata e quella redistribuita non devono necessariamente coincidere, potendosi dare casi di surplus o deficit del sistema previdenziale, si veda quanto detto nei commenti più in basso.

  17. michele del monaco

    Scusi, ma vogliamo per una volta aprire gli occhi e dire come stanno le cose realmente o no? Chi ha pensioni così basse è molto spesso un lavoratore autonomo che nel tempo si è finanziato la pensione in altro modo, visto che al di là dei dipendenti negli anni ha avuto tutte le possibilità (e le agevolazioni) di evadere tasse e contributi. Se volesse fare veramente un’analisi corretta vada a vedere che quota di questi soggetti è proprietario di più di un appartamento, o di redditi da capitale, e vedrà che la situazione non è poi così disastrata come appare dalle cifre. Però dal calcolo tolga tutti gli agricoltori, che vivendo fuori da una città e non dovendo acquistare il cibo hanno necessariamente un modello ben diverso da chi vive in città. Senza fare queste analisi, sembra come al solito che l’unica, solita alternativa proposta dai simpatizzanti della sinistra sia quella di “facciamo piangere i ricchi, sia quando lavorano che quando vanno in pensione”.

    • La redazione

      Non credo che l’esistenza di una (pur diffusa) evasione fiscale e contributiva giustifichi l’affermazione che tutti coloro che hanno pensioni basse sono evasori. Come già scritto, ritengo comunque che il problema vada ovviamente affrontato.
      Poichè la questione è stata già affrontata, vorrei rispondere all’accusa che la sinistra vuol "far piangere i ricchi" (avendo già specificato che io ovviamente non sono la sinistra, e neanche voglio far piangere nessuno). L’affermazione è a mio parere un falso storico. Negli ultimi 10 anni "la sinistra" in senso lato è stata al governo per circa due. I più rilevanti interventi di politica economica, in questo periodo, sono stati:
      1. una riforma dell’imposizione sulle imprese, che ha aumentato il prelievo sulle piccole e ridotto quello sulle grandi;
      2. la riduzione del cuneo fiscale, di cui parte destinata al punto sopra e parte in assegni famigliari, che come è stato ampiamente documentato su questo sito (e su http://www.ingenere.it) è una misura analoga al quoziente famigliare, che beneficia le famiglie benestanti più di quelle indigenti, e che scoraggia l’occupazione femminile;
      3. l’eliminazione di più della metà dell’ICI, che nuovamente su questo sito era stata documentata come la più progressiva delle entrate tributarie.
      Dunque, mi sembra difficile sostenere che, oltre alle dinamiche strutturali che hanno favorito l’accrescimento delle diseguaglianze, la politica economica ha tentato di "far piangere i ricchi". Ma la mia è ovviamente solo un’opinione.

  18. massimo.m

    Finalmente una proposta diversa dall’ ennesimo allungamento di pena per chi già sa che si ritirerà "nel 2023 … 23 …23…(!)" come cantava un vecchio ritornello, allungamenti che comunque generano effetti altrettanto dilazionati, mentre un intervento, ben ponderato, sulle pensioni attuali produrrebbe preziosi effetti immediati. Peccato che per molti lettori togliere un pò di superfluo ad abbronzati pensionati giramondo sia un bieco furto, mentre inchiodare poveracci ultrasessantenni alla linea di montaggio sia "giusto rigore"; viene da pensare che i commenti provengano da tour operator specializzati nella terza età, timorosi di veder ridurre il loro cospicuo giro d’affari. Cordiali saluti e complimenti per l’articolo.

  19. Lorenzo

    Vorrei porle due domande: 1) perché si calcolano le pensioni come “spesa sociale” quando queste sono pagate con i contributi, quindi non pesano sulla fiscalità generale? 2)qualsiasi sistema pensionistico, intermediato dal pubblico o dal mercato finanziario, si basa su un trasferimento di ricchezza dai lavoratori attivi a quelli non attivi. Il problema delle pensioni quindi non può essere slegato da quello del salario e della produttività. Non ritiene quindi che qualsiasi forma pensionistica sia destinata ad essere insostenibile se non si cambia la distribuzione della produttività? (in francia, dove si è fatta la riforma, si è utilizzato un argomento forte contro. La produzione di ciascun lavoratore francese è aumentata del 400% dal 1970 (insee). l’argomento demografico viene quindi a cadere).

    • La redazione

      Anzitutto che non pesino sulla fiscalità generale: nel caso in un certo anno i contributi fossero inferiori alle pensioni, non si avrebbe un riequilibrio automatico, ma interverrebbe l’Erario. Comunque, le pensioni sono "spesa sociale" perché sono una forma di spesa pubblica che ha finalità sociali: se la cosa stupisce, tenga conto che le classificazioni sono internazionali, e molti sistemi sono molto più redistributivi del nostro. Anche il nostro, comunque, ha caratteristiche come la pensione minima (solo per citarne una) e più in generale ha la finalità di garantire il reddito delle persone che, per via della propria età, non possono più lavorare: quindi una finalità sociale. Probabilmente l’ambiguità deriva dal fatto che ai lavoratori è stato detto che i contributi corrispondevano al loro diritto ad una pensione in età anziana, con la riforma Dini si è effettivamente stabilita una formula matematica che definisse la pensione ricevuta in funzione dei contributi versati. Ma questa, occorre ricordarlo, è solo una formula per il calcolo di quanto ognuno percepirà, non significa affatto che vi sia un legame economico tra quanto la persona ha versato e quanto riceverà. Ovvero, in ogni momento lo Stato può modificare la formula di calcolo dei benefici (come ad esempio recentemente fatto con l’aggiornamento dei coefficienti di trasformazione, ovvero del valore che riduce l’assegno mensile in funzione dell’aspettativa di vita residua). Il concetto di "diritto acquisito" alla pensione (diffuso non solo in Italia) è dunque solo un artificio retorico, senza valore giuridico.
      Ripeto per chiarezza: a livello individuale ognuno può pensare che i suoi contributi determinano la pensione che riceverà (e questa è una delle giustificazioni ideologiche per finanziare le pensioni tramite contribuzione sul reddito da lavoro), ma a livello macroeconomico non è alcun legame tra i contributi versati (che sono solo una delle tante entrate per il settore pubblico) e le pensioni pagate, tant’è vero che la Ragioneria Generale dello Stato, così come l’Unione Europea, valuta la sostenibilità del sistema previdenziale esclusivamente con riguardo al lato delle uscite (la spesa per pensioni come percentuale del PIL), disinteressandosi quasi completamente di quale sarà l’andamento delle entrate (dei contributi).
      E questo ci porta alla sua seconda domanda. Certo, come ho scritto ad un commento più vecchio (in basso), la sostenibilità del sistema previdenziale dipende principalmente dall’andamento della produttività, perché indipendentemente dalla pensione che riceveranno a loro volta in futuro, ai lavoratori dei prossimi decenni è richiesto di accettare una sottrazione di risorse molto ingente, necessarie a pagare le pensioni dei pensionati dei prossimi decenni (che non sono cattivi, né vecchietti abbronzati, come sostenuto sopra, sono solo troppi). Quindi, esistono due problemi: 1) come lei segnala, la distribuzione del reddito a partire dagli anni ’80 ha spostato molti punti di PIL dal reddito da lavoro al reddito da capitale, e nel sistema attuale solo il primo contribuisce a questa forma di spesa sociale, dunque aggravandone il peso su una base più ristretta; 2) la crescita della produttività è stagnante (e addirittura negativa in alcuni anni!) da decenni ormai, e dunque le risorse che i futuri lavoratori dovranno condividere coi futuri pensionati non crescono, mentre come detto cresce il numero dei pensionati. Non è quindi corretto sostenere che l’argomento demografico viene a cadere, così come lei dice, ma certamente è un argomento che va confrontato con la dinamica macroeconomica.
      Come sostiene il Ministro Tremonti, in sede europea il nostro sistema previdenziale, a seguito delle numerose riforme, è ormai considerato sostanzialmente tra quelli "virtuosi", ma questo solo sulla base delle ipotesi di previsione macroeconomica che, chissà come e perchè, vedono un’improvvisa ripresa della crescita della produttività (e conseguentemente dei salari reali).

  20. MDT

    Articolo interessante. L’aumento dell’età pensionabile è una misura regressiva anche se si affermerà sempre più come una tendenza spontanea, una libera scelta delle persone. In effetti, l’aumento dell’età pensionabile è più importante per l’adeguatezza delle prestazioni che non per la sostenibilità sociale del sistema. Posticipare il pensionamento equivale soltanto a spostare nel tempo la liquidazione di nuove pensioni. L’effetto sulle finanze pubbliche nel medio-lungo periodo è però neutrale a causa dell’aumento dell’importo dei trattamenti da erogare (su questo vedi Morcaldo, 2007). Nell’ambito del sistema contributivo a regime si potrebbe tranquillamente ristabilire l’uscita flessibile dal mercato del lavoro (ad esempio 63-70 anni) fondata sul principio della libertà di scelta. Pertanto, al fine di stabilizzare il sistema, sarebbe opportuno concentrarsi sul denominatore (Pil) e, dunque, su produttività e stabile occupazione. Per rendere meno regressivo l’allungamento, si potrebbero calcolare differentemente (per genere e reddito ad esempio) i coefficienti di trasformazione, garantendo parametri più elevati per coloro che hanno una minore aspettativa di vita.

    • La redazione

      Sono completamente daccordo sulla necessità di ristabilire piena libertà di scelta, a fronte di correzioni attuariali, ma le faccio notare che attualmente l’equità attuariale del sistema non è piena perché il tasso interno di rendimento è inferiore ai tassi d’interesse con rischio comparabile (specie se includiamo il "rischio politico" di ulteriori tagli) esiste dunque una convenienza teorica ad andare in pensione prima possibile. Quindi, posticipare forzatamente il pensionamento (poiché peraltro per ora la misura riguarda lavoratori la cui pensione è almeno parzialmente calcolata col metodo retributivo) produce effettivamente un risparmio per lo Stato.
      Sull’uso di coefficienti differenziati non sono invece daccordo, ma è una opinione personale, perché la scelta sulla base di cosa differenziare è sempre discrezionale. In genere, a mio parere, i paesi ad alto tasso di clientelismo come l’Italia farebbero meglio ad orientarsi sempre verso sistemi universali e regole uniformi.
      Come ho detto nei commenti precedenti, è proprio il denominatore che preoccupa anche me.

  21. Mapi

    Desidero complimentarmi con lei per l’impostazione interlocutoria che ha scelto. Considero interessante leggere la sua controrisposta ai nostri commenti rendendo così più approffondito il confronto di opinioni.

  22. Marco Spampinato

    La politica (non tutta, ovviamente, si spera, ma non tira aria pulita al momento…), preoccupata del consenso "di breve", o di tutelare corporazioni o patti sottobanco: a) distrugge ogni tentativo di impiantare una competente funzione di valutazione della spesa, che possa (cercare di) migliorare il funzionamento dello stato attraverso analisi, e valutazioni di effetti, e riferire in parlamento quando necessario e possibile. Ciò che sta accadendo all’unità di valutazione degli investimenti pubblici, e ciò che è accaduto in passato, dimostra quanta "antipatia", se non odio, e sopratutto quanti ostacoli politicanti e forse anche burocrati rent-seekers riversino su chi crede nel proprio mestiere; b) alimenta la confusione, come anche questo piccolo interessante dibattito dimostra, su quale possa essere il ruolo delle pensioni pubbliche (che sono di garanzia universalistica pubblica per l’età anziana, non strumento di arricchimento, di vendetta o di rivincita, o di odio sociale, né di penalizzazione di chi vive in campagna o in città); c) alimenta anche la confusione su approcci eterodossi in economia e nella valutazione delle politiche pubbliche.

  23. HK

    Oggi sembra che l’unica soluzione al problema dei costi pensionistici sia l’allungamento dell’età di inizio godimento della pensione. Ma questa soluzione ha una serie di impatti su cui poco si può fare a causa del nostro orologio biologico. Con l’avanzare dell’età le nostre capacità diminuiscono, la nostra voglia di investire per il lungo termine scompare. Per la quasi totalità delle professioni ed impieghi vi un decadimento della produttività già a partire dai 50 anni. E una situazione negativa per l’economia e la persona. Anche perché il nostro modello pretende di raggiungere il massimo dello stipendio o reddito appena prima di andare in pensione. Se si osserva che questo modello in cui si lavora 40, 44, o 50 ore fino al giorno prima della pensione (65, 70, 75 anni?) e il giorno dopo 0 è facile evidenziare l’assurdità di tale modello. Dopo una certa età bisogna iniziare ad andare in pensione, riducendo l’impegno orario ed anche il guadagno. Sembra un’idea strampalata, ma così è andato il mondo da sempre tranne che negli ultimi 50 anni.

  24. HK

    Oggi sembra che l’unica soluzione al problema dei costi pensionistici sia l’allungamento dell’età di inizio godimento della pensione. Ma questa soluzione ha una serie di impatti su cui poco si può fare a causa del nostro orologio biologico.

    Con l’avanzare dell’età le nostre capacità diminuiscono, la nostra voglia di investire per il lungo termine scompare. Per la quasi totalità delle professioni ed impieghi vi un decadimento della produttività già a partire dai 50 anni.

    E una situazione negativa per l’economia e la persona. Anche perché il nostro modello pretende di raggiungere il massimo dello stipendio o reddito appena prima di andare in pensione.

    Se si osserva che questo modello in cui si lavora 40, 44, o 50 ore fino al giorno prima della pensione (65, 70, 75 anni?) e il giorno dopo 0 è facile evidenziare l’assurdità di tale modello.

    Dopo una certa età bisogna iniziare ad andare in pensione, riducendo l’impegno orario ed anche il guadagno.
    Sembra un’idea strampalata, ma così è andato il mondo da sempre tranne che negli ultimi 50 anni.

    • La redazione

      Come ho piú volte ripetuto, io sarei per tornare alla libertá nella decisione di quando andare in pensione (a fronte di tagli nell’importo se ci si pensiona prima, e incrementi se dopo). La mia proposta di operare sugli importi, peraltro, deriva dalla denuncia che il posticipo dell’etá di pensionamento é una misura iniqua perché colpisce in maniera sproporzionata i lavoratori meno abbienti.
      Questo peró non ha niente a che vedere con la produttivitá. A parte poche occupazioni (ad esempio le libere professioni, e neanche sempre), nella maggioranza dei casi la produttivitá non é una caratteristica dell’individuo, ma una proprietá dell’organizzazione produttiva in cui egli/ella si trova a lavorare. Ovvero, un lavoratore "anziano" potrá provare piú fatica nel compiere certe mansioni di un "giovane", ma la velocitá e abilitá con cui i due le compiono non é generalmente cosí diversa. Ad esempio, un operaio tedesco é molto piú produttivo di un italiano perché produce Volkswagen anziché Fiat, non perché é piú giovane o piú atletico.
      Ad essere molto diverso tra giovani e anziani é invece lo stipendio. Quindi, a paritá di prodotto, gli anziani costano molto di piú (specie se paragonati ai ridicoli costi del lavoro degli occupati precari). Esiste dunque un rischio concreto che siano le imprese a desiderare di espellere i lavoratori piú anziani, a volte con le buone ("scivoli", incentivi, ecc.), a volte con le cattive. Questo é uno dei problemi che bisognerebbe affrontare, per poter stabilire una vera libertá di scelta nel momento del pensionamento. Insieme, ovviamente, ad una seria riforma legislativa, del tipo che ho descritto.

  25. Mapi

    La proposta del precedente lettore a me non solo non pare strampalata, ma più che mai logica e saggia.

  26. luciano

    Affermare che le pensioni siano un enorme fardello che pesa sul nostro paese mi sembra assurdo, credo che Lei abbia letto l’ultimo bilancio inps disponibile sul sito web e quindi avrà notato che la gestione è in forte attivo , Basterebbe questo ad evidenziare che se la pensione fosse elargita solo a chi ha versato i contributi non ci sarebbe nessun problema, purtroppo la sinistra italiana vuole farsi carico dei problemi di tutto il globo ( basta vedere tutti i compensi fasulli versati agli stranieri ultra 65 che fingono di vivere in italia e invece magari sono in spiaggia a Sharm…) e che dire di milioni di falsi invalidi soprattutto al sud ….e dei politici nostrani che prendono la pensione avendo lavorato (? ) un solo giorno…e potrei continuare ancora per molto …eliminiamo queste porcherie prima poi si può discutere di tutto il resto.

    • La redazione

      Mi scusi se devo per l’ennesima volta ripetere la stessa cosa, evidentemente non trovo le parole migliori per spiegarmi. I contributi versati oggi servono solo ed esclusivamente a finanziare il pagamento delle pensioni erogate oggi stesso. Quindi l’attivo dell’INPS dimostra solo che i contributi degli attuali lavoratori sono sufficienti per finanziare il consumo degli attuali pensionati, ma per definizione il bilancio INPS non puó dirci niente sul rapporto tra i futuri contributi, pagati da lavoratori che (al netto, ma verosimilmente anche al loro dell’immigrazione) saranno meno di oggi, quantomeno in rapporto ai pensionati, e le pensioni future, che invece sicuramente saranno molte di piú (per via delle dinamiche demografiche). Inoltre, come ho giá scritto, sui lavoratori futuri grava anche la stagnazione che viviamo ormai da due decenni, che non fa crescere la torta complessiva da cui pensioni e stipendi sono tratti, e il calo della fertilitá, che fa sí che i lavoratori del futuro avranno pensioni ancora piú a rischio.
      Questo non vuole sminuire la dimensione etica dei problemi da lei segnalati (frodi, provilegi, ecc.), ma solo rimarcare che il problema economico sottostante é molto piú ampio e, come ho scritto ormai diverse volte, non ha niente a che vedere con il rapporto tra contributi e pensioni, ma solo con il lato della spesa (in rapporto al prodotto).
      Mi rendo conto che si é fatta tanta retorica sul legame che esisterebbe tra i contributi versati da ognuno e la pensione che lui/ lei riceverá, ma questo legame vale (e neanche per forza) a livello individuale. A livello sociale (ovvero "macroeconomico") é un legame che non esiste. Un’intera generazione non puó "risparmiare" per il suo futuro, perché i beni e i servizi che vorrá consumare tra 20 anni non puó sotterrarli oggi o nasconderli sotto il materasso. Una generazione puó solo comprare titoli finanziari, sperando che poi la generazione seguente se li compri a sua volta, cedendo in cambio i beni e servizi da lei prodotti (il cosiddetto sistema a capitalizzazione), o avere uno Stato che costringa ogni generazione a pagare le pensioni della successiva (il sistema a ripartizione). Questo secondo é il nostro caso e, dunque, non vi é rapporto tra quanto una generazione paga, che va alla generazione prima di lei, e quanto riceverá, che le sará fornito dalla generazione che viene dopo di lei. Il bilancio INPS ci dice che i contributi che io e la mia generazione paghiamo oggi sono sufficienti per pagare le pensioni alle generazioni di attuali pensionati; non ci dice niente sull’adeguatezza dei contributi che le generazioni piú giovani della mia pagheranno per finanziare la mia o la sua pensione.

  27. Antonio ORNELLO

    A mio parere stanno per aumentare smisuratamente i pensionati da lavori improduttivi, da assunzioni clientelari poco meritevoli, disgiunte da una accettabile programmazione delle attività produttive che ripaghi il sistema con miglioramenti del P.I.L. Ai nostri politici piace vincere facile, generando consensi paternalistici, mentre i tecnici rifuggono da analisi complesse senza esiti immediati. Ma l’allarme è più paonazzo che rosso e bisognerebbe procedere, prima di attuare la sua proposta, a:
    -inibire assunzioni economicamente ingiustificabili;
    -reintrodurre la pratica obbligatoria dei concorsi in azienda;
    -azzerare ogni indennità di carica politica, con diritto a conservare temporaneamente il lavoro;
    -programmare numeri chiusi universitari per ogni ateneo e facoltà;
    -pubblicare i bilanci, obbligatori, di partiti politici, sindacati, enti, associazioni, cooperative, organismi no profit, partecipazioni, pubs, giornali, televisioni;
    -promuovere proposte di legge popolari sui conflitti di attribuzioni;
    -istituire verifiche referendarie sull’operato di parlamentari e governanti;
    -tasse x ttt.

  28. marco dell'omo

    Un riequilibrio del sistema sembra inevitabile, si spera senza soluzioni traumatiche. L’ultima manovra, come al solito, ha picchiato duro su chi deve andare in pensione mentre è stata di manica larga per chi è riuscito ad ottenere l’assegno. Con ulteriori effetti distorsivi; il blocco dei contratti pubblici e la riduzione reale degli stipendi avrà come effetto che chi andrà in pensione tra tre anni avrà, con più anni di contribuzione, una pensione inferiore a quella ottenuta dal collega nel 2010, non avendo beneficiato di incrementi Istat sull’assegno. L’unica misura equa sarebbe il passaggio di tutti, pensionati e pensionandi, al sistema contributivo, magari elevando le attuali misere aliquote di rendimento, e introducendo una fascia tra i 60 ed i 70 anni per l’accesso alla prestazione, senza finestre ed altri marchingegni, alla prestazione, garantendo equità e stimolando a rimanere al lavoro chi se la sente (beato lui e tanti auguri) di rimanere.

  29. francesco papa

    Condivido lo studio, ricorda che l’accordo di Lisbona impone la diminuzione del numero e dell’importo delle pensioni attraverso (anche) il meccanismo dell’adeguamento dell’età pensionabile all’andamento delle aspettative di vita. Aggiungo,Lei cita alcuni rapporti, che il criterio dell’aspettativa di vita, se analizzato per componenti sociali, geografiche, professionali, darebbe risultati diversi da quello generale, per le categorie che accedono alle pensioni pubbliche. Poveri, operai, impiegati in centri urbani, manager, chi ha lavorato presto, migranti, hanno attese di vità inferiore anche del 20% alla media nazionale. Meglio un altro indicatore, la durata media delle pensioni, anche previsionale, con formula che calcoli alcune variabili sociali, professionali e geografiche, e si avrebbe un dato di confronto più adatto dell’indicatore ISTAT, prezioso in alcuni casi, meno in questo. Per le pensioni alte vogliamo tornare al sistema degli anni ’50, quando gli stipendi alti non erano iscritti all’INPS? Allora si deve creare un Ente apposito per gli alti stipendi, ed una formula di copertura. Oppure abbassare gli stipendi alti, causa delle pensioni alte. Misura sociale o socialista?

  30. Daniele Carli

    Nel 2006 l´Inpdap ha erogato 2.539.499 pensioni (+1,98% sul 2005). Il 31,58% dei pensionati percepisce una pensione mensile lorda inferiore ai 1.032 euro. Il 32,8% si colloca nella fascia 1.033-1.499 euro, il 31,84% sopra i 1.500 euro. Il 3,77% supera i 3.000 euro. Annualmente l´importo medio lordo delle pensioni dirette (più del 75% del totale) è di 20.823 euro, l’importo percepito dai superstiti è di 12.213 euro. Il 91,87% dei pensionati Inpdap percepisce una sola pensione, il 7,99% due, lo 0,13% più di due. FONTE: http://www.inpdap.it/webinternet/comunica/editoriale/index9.asp

  31. Grazia

    Ho letto su internet che esperti autorevoli del welfare ed anche alcuni giornali parlano di applicare il sistema contributivo a tutti i nuovi pensionati. Son in esonero (art. 72 legge 133/2008) da gennaio 2011 e percepirò la pensione Inpdap da luglio 2012. Con 40anni di contributi dovrei percepire circa 1.400 € netti al mese, con il sistema contributivo penso che percepirei circa 1.000 € al mese. Ho calcolato di poter vivere con un certo importo, se cambia la legge come posso vivere con 1.000 € dopo aver versato 40 anni di contributi. E’ opportuno valutare bene da parte degli esperti l’impatto che può avere sulla popolazione la modifica del sistema pensionistico in quanto sempre a pagare sono i poveri.

  32. serena rellini

    Mi vien che ridere…diceva il buon Buzzanca qualche decennio fa. Sapete perchè? Penso ad esempio a una sezione della scuola d’ infanzia composta da 28 bambini, tra cui diversi anticipatari (bambini di poco più di 2 anni), bisognosi di cure da parte di persone TOTALMENTE LUCIDE e SCATTANTI. Vi figurate una 66-67enne tutta “acciaccata” e “appannata” correre dietro a 28 marmocchi 28, che piangono a destra, strillano a sinistra, si accapigliano e si tirano calci a vicenda (scene di quotidiana amministrazione)? E’ venuto da ridere anche a voi o no? E per finire: qualcuno mi può spiegare perchè dopo i quaranta-quarantacinque anni la legge stabilisce che non si può adottare UN SOLO (ripeto UN SOLO) bambino al di sotto dei 10 anni ? Forse perchè la differenza di età tra i genitori e l’adottato sarebbe troppo grande e i primi non riuscirebbero a prendersi cura in maniera adeguata del piccolo? Questo ragionamento non è però valido per la scuola: un’ insegnante a 67 anni può seguire “BENISSIMO”, in modo performante, come viene richiesto per “godere” degli scatti di merito, non uno, ma anche VENTICINQUE -TRENTA alunni, senza rischi per l’incolumità degli stessi. C’è qualcosa che non quadra.

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