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DUBBI DI UN TERREMOTATO DEL CENTRO STORICO DELL’AQUILA *

Molti proprietari di immobili nel centro storico dell’Aquila si trovano di fronte alla richiesta di aderire ai consorzi obbligatori. In vista di un intervento unitario sulle loro case considerate come un’unica struttura, che non può essere restaurata separatamente per singolo edificio. I dubbi non mancano: sul ruolo e sui costi del previsto fondo consortile, sulla figura del presidente del consorzio e sull’autonomia delle partizioni di un aggregato. Servirebbero modifiche allo schema di statuto consortile, meglio se indicate dalla stessa comunità aquilana.

 

“Consorziamo?” chiede ammiccante l’avvenente signorina in sottoveste nella pubblicità di una nota marca di tonno in scatola. Si parva licet, in questi giorni molti proprietari di immobili nel centro storico dell’Aquila raggruppati in aggregati, ovvero unità di minimo intervento per la ricostruzione, si trovano di fronte alla richiesta di aderire ai consorzi obbligatori. Questi istituti, di diritto privato, sono una forma di organizzazione dei proprietari in vista di un intervento unitario sui loro immobili considerati come un’unica struttura che non può essere restaurata separatamente per singolo edificio. Pur avendo chiesto lumi per vie ufficiali, non ho ancora, al momento in cui scrivo, rinvenuto alcun chiarimento su quelli che mi sembrano dei punti critici di questo strumento giuridico.

I TERREMOTATI COME I TONNI

Il primo punto è l’effettiva responsabilità limitata dei consorziati rispetto ai costi della ricostruzione. In sintesi, lo scopo del consorzio è di “svolgere in forma unitaria le attività necessarie ad assicurare la realizzazione degli interventi (…) ammessi a contributo”. Sembrerebbe, quindi, di primo acchito, che gli interventi sono solo quelli ammessi a contributo. Tuttavia, si richiede al consorziato di versare una quota al fondo consortile, proporzionale ai metri quadri di superficie lorda posseduta. Il fondo consortile è “vincolato alle finalità connesse agli interventi sugli immobili ammessi a contributo”.
Non è chiaro, quindi, quale sia il ruolo del fondo consortile. Non è escluso dal testo del decreto che possa essere usato per supplire alle carenze del “contributo” – questa è l’espressione usata nel decreto – per la ricostruzione. In questo modo, le quote versate al fondo consortile diverrebbero il canale attraverso il quale il peculio personale degli aquilani più depauperati dal sisma viene escusso per contribuire alla ricostruzione.
In questa prospettiva, quando nell’ambito di un consorzio si avessero notevoli disparità di censo tra i consorziati, sarebbe molto facile da parte dei più facoltosi mettere in difficoltà i meno abbienti, obbligandoli a versamenti al fondo consortile sempre più onerosi, che li portino a rinunciare al proprio immobile in tutto o in parte.
Anche volendo riconoscere al fondo consortile un ruolo di semplice fondo-cassa per le spese di gestione delle procedure organizzative del consorzio, si creerebbero notevoli disparità di trattamento tra le varie modalità con le quali è amministrato il contributo per la ricostruzione. Nei condomini, ad esempio, le spese che affronta l’amministratore sono già ricomprese nel compenso che questi riceverà una volta terminati i lavori.
Un secondo punto critico è la figura del presidente del consorzio. In primo luogo, sarebbe opportuno che venissero chiariti quali sono i requisiti di professionalità ed esperienza pregressa richiesti per poter ricoprire la carica in questione. Si dovrebbe evitare che la carica di presidente del consorzio divenga una sinecura retribuita al netto delle spese di organizzazione a carico dei consorziati. In secondo luogo, sarebbe opportuno chiarire in quale modo il presidente del consorzio matura il diritto a ricevere il compenso anche in caso di una decadenza anticipata rispetto al completamento dell’opera. In terzo luogo, sarebbero opportuni chiarimenti in tema di incompatibilità rispetto ad altri ruoli nell’ambito della ricostruzione.
Un terzo e ultimo punto critico è relativo all’autonomia delle partizioni di un aggregato. Malgrado il comune dell’Aquila abbia accettato alcune partizioni di grandi aggregati, coincidenti con l’isolato stesso, e le stesse ordinanze riconoscano la possibilità di suddividere un aggregato in più parti con pianta superiore ai 300 metri quadri, nulla è previsto a riguardo nello schema di statuto allegato al decreto del commissario per la ricostruzione. Il governo di un aggregato/consorzio, suddiviso in partizioni è molto diverso da quanto previsto dallo schema tipo di statuto allegato al decreto e dovrebbe tendere a dare flessibilità alla gestione delle singole partizioni, in risposta a una varietà di fattispecie architettoniche e strutturali, che non sarebbero trattate adeguatamente in un aggregato consorzio unitario.
Non sarebbe poi così difficile presidiare questi punti critici per mezzo di piccole modifiche al margine dello schema di statuto consortile allegato al decreto. Mancando interpretazioni autentiche da parte delle autorità preposte, l’espressione di una forma di statuto modificato da parte dei ceti professionali aquilani costituirebbe una prova di maturità della coscienza civile di un’intera comunità che dimostra la capacità di autodeterminarsi anche in momenti di protratta emergenza come il post-terremoto.
Di fronte a questo elenco non esaustivo di criticità nell’istituto del consorzio, la metafora del terremotato-tonno appare sempre più appropriata. Come il tonno è portato nella tonnara fino alla camera della morte, così il terremotato viene portato alla completa rovina da successivi e onerosi pagamenti di quote al fondo consortile, per finanziare non solo pesanti spese di gestione del consorzio necessarie a supplire alle incompetenze di un improvvisato presidente, ma anche i costi di ricostruzione che non sono coperti dal contributo statale.
“Consorziamo?”. Che la mattanza abbia inizio…

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